Uomo, viaggio verso la luce

Leggi tutto: Uomo, viaggio verso la luceChe cosa è l’uomo?” (Sal 8,5). L’uomo è un enigma a se stesso, chiamato a fare luce su di sé attraverso la via della conoscenza e della realizzazione del sé, un cammino dalla sponda della non conoscenza al porto della conoscenza della propria profonda verità. In questo tragitto verso l’iniziazione al proprio nome, al proprio compito e al proprio destino nascosti, sono guida le illuminazioni che sorgono dall’udito interiore, il codice del cuore … Un viaggio in compagnia, un’esplorazione che conduce, con sensibilità e sfumature mai concluse, a una visione del fenomeno uomo in termini di “creaturalità”.

L’amore entra di diritto nella definizione dell’uomo; sottolinearlo è un atto di intelligenza: sono stato amato, dunque sono-amo, dunque faccio essere. Me stesso: “ama te stesso” (etica personale); l’altro: “ama il prossimo tuo come te stesso” (etica interpersonale e sociale); e l’ambiente: “sii il custode del giardino” (etica ecologica). Il tutto nella “razionalità”, un’intelligenza consapevole e al contempo libera: riflessiva, la ragione capace di pensare il sé e la vicenda cosmico-umana; strumentale, la ragione capace di calcolo, vale a dire di programmazione, di sperimentazione e di verificabilità che caratterizzano l’homo faber, l’universo tecnico; e infine la ragione intuitiva, capace di pellegrinaggi nel profondo e di sguardi visionari, aperti, nell’invocazione e nell’attesa, al non ancora edito. Sguardi nel dolore a motivo della situazione drammatica in cui versa l’umanità, la barbarie che dimora nell’uomo e che condiziona i suoi rapporti; uomo a cui è richiesto l’esodo verso lidi di empatia e di compassione attiva che niente e nessuno esclude. È un viaggio a caro prezzo, il cui obiettivo è indicato da un terzo che, imprevisto, si accompagna al cammino dell’uomo chiedendogli apertura e accoglienza, costituendolo credente. Un Dio singolare di cui, a proposito del suo rapporto con l’uomo, è scritto: “Ti ricordi di lui … te ne prendi cura” (Sal 8,5). L’uomo, enigma a se stesso e in cammino verso la conoscenza di sé in termini di creaturalità, relazionalità, eticità, razionalità, drammaticità e apertura all’inedito, è un “tu” unico, irripetibile e inviolabile di cui Dio si prende cura non dimenticandosi di lui. Un ricordarsi il cui apice, secondo il racconto cristiano, è Gesu di Nazaret. Al salmista che si domanda: “Che cosa è l’uomo?”, Dio risponde non disquisendo ma donando un singolarissimo tu, il Cristo: “Ecco l’uomo” (Gv 19,5). Un tu, infine, che viene da lontano per condurre lontano nella conoscenza di sé, oltre la soglia, oltre il limitare e il confine di ogni ragione umana.

Un viaggio intorno all’uomo per concludere che l’uomo è viaggio, la ove la domanda della conoscenza del proprio “io nascosto” diventa ricerca e attesa, e beato chi lungo il percorso trova amici disposti a porgere frammenti di luce: il padre e la madre, qualche persona saggia, i libri, e un amico di nome Gesù. Un incontro decisivo nel cui nome, nel cui viaggio e nel cui approdo è dato di vedere il proprio nome, il proprio viaggio e il proprio approdo, un’esperienza affidata al canto e al racconto, in un tempo il cui registro dominante è la ragione economica. Semplici avvisi utili ai naviganti. Il cammino verso la conoscenza del sé domanda il viaggio verso occhi nuovi che indichino la rotta per approdare alla riva in cui l’enigma dell’uomo è convertito in mistero, in stupita e mai conclusa conoscenza.

Giancarlo Bruni, Pellegrini in cerca di senso

Chiamati a essere nuove parole per Dio…

Leggi tutto: Chiamati a essere nuove parole per Dio…Il poeta e/o il contemplativo diventa egli stesso una nuova parola per Dio. Nell’atto di sfida e di sospensione della volontà, dell’ego che vuole controllare, la vita, l’identità concreta del poeta e del contemplativo, diventa essa stessa parola, comunicazione. È Dio in azione. E mi rivengono in mente alcune parole di Merton in una lettera: “La gloria [di Dio] in me consisterà nel ricevere da me qualcosa che non potrà mai ricevere da nessun altro, perché è un suo dono a me che non ha mai fatto né mai farà a nessun altro”.

Noi siamo chiamati a essere nuove parole per Dio in quel senso. E celebriamo Merton in parte a motivo della convinzione, che le vite di alcune persone diverranno parole per Dio in maniera molto particolare. Questa vita, questa identità, questo volto, questa voce, questa “tonalità” di essere, diviene una parola da Dio a noi, un parola che Dio ci rivolge.

La poesia e la contemplazione, identificando, abbozzando o indicando cosa potrebbe voler dire per Dio trovare parole nel mondo, in maniera analoga sfidano altri generi di parole per Dio: quelle antiche, quelle sicure, quelle che denotano pigrizia, quelle utili. Ed è qui che il poetico e il contemplativo si ricongiungono con il profetico, poiché il profetico riguarda interamente la diagnosi di parole morte e atti falsi.

Il compito profetico consiste nell’annusare la morte che si cela in una data situazione … Questo non significa che privilegiamo la mancanza di articolazione o addirittura il silenzio. Ma vuole tuttavia dire che il linguaggio poetico e quello contemplativo, lo sforzo teso a cercare nuove parole per Dio e a comprendere la natura della scrittura religiosa, dello scrivere come attività religiosa, non è altro che un’impresa profondamente autocritica, un vivere sotto giudizio.

E ciò non è che un ulteriore modo per dire che queste sono attività che non possiamo iniziare ad afferrare o a stringere in alcun modo tra le mani senza un senso vivido e a volte ricco di timore di ciò a cui esse possono portare. Il poeta e il contemplativo vivono sotto un cielo molto ampio, che talvolta è un cielo notturno. Il tentativo di costruire rifugi o di scavare buche, di tracciare utili mappe della volta celeste che consentano di orientarsi, è una seduzione sempre presente. La cosa più importante che possiamo fare, forse, se siamo anche solo minimamente interessati al linguaggio della poesia e della contemplazione, è piazzare delle targhette di avvertimento sulle nostre panche, i nostri altari e i nostri inginocchiatoi; consci tuttavia, allo stesso tempo, che non si tratta di moniti riguardanti le punizioni in cui potremmo incorrere in caso di errore, ma di promemoria di come sia facile diventare prigionieri di quella volontà desiderosa di controllare che amiamo e alimentiamo, e di quanto sia terribile una prigione di tal genere per qualsiasi uomo.

Rowan Williams, Azione e contemplazione

Abbiamo l'umanità in comune

Leggi tutto: Abbiamo l'umanità in comuneAnziché opporre, come si fa spesso, identità e alterità, cioè l’affermazione di sé e il riconoscimento dell’altro, si deve ritenere che proprio con il riconoscimento dell’altro si diviene se stessi. Accettare la differenza significa accettare l’altro così come si presenta, come si dice, come è. Significa anche – e questa è spesso la cosa più difficile – accogliere lo sguardo che egli ha su di noi. Ora, quando si entra in dialogo, si tende spesso a situare l’altro in rapporto a sé, cioè a ricercare, forse in modo inconscio, ciò che nell’altro ci assomiglia. Finiamo allora in un gioco di specchi, e dell’altro riteniamo solo ciò che rinvia a noi stessi …

Il meglio dell’altro è ciò che egli ci consegna nella fiducia. Ma perché ciò accada, dobbiamo attendere qualcosa da lui. Non c’è, in effetti, dialogo vero né possibile se non si attende niente dall’altro. Ora, questo ha senso solo confessando in sé una mancanza, un’incompiutezza o, meglio, un’insufficienza. L’esperienza dell’amore, l’esperienza più fondamentale ed universale che ci sia, lo insegna a ciascuno di noi. La sufficienza nega l’altro, o assimilandolo a sé in quanto cosa nostra o negandolo con il rifiuto stesso di vederlo. Accogliere l’altro senza ridurlo al proprio bisogno è vivere nel desiderio scavato da una mancanza fondatrice, da un’apertura …

Il dialogo si appoggia su questa convinzione: abbiamo l’umanità in comune, l’umanità che ci è data e, più ancora, l’umanità come qualcosa di fragile su cui occorre vigilare, l’umanità come compito da adempiere. Ogni essere umano, ogni cultura porta in sé un volto dell’umanità messo in pericolo dal solipsismo o dall’uniformità. Il dialogo, invece, inscrive nell’umanità la coscienza che ciascuno non vive che grazie alla sua relazione con gli altri, e suggella il carattere simbolico di ogni umanità. Ciò dice la necessità per ogni essere umano di accettare questa mancanza costitutiva che fonda la sua capacità di entrare in alleanza o in solidarietà e, perciò, di nascere alla propria identità

Dobbiamo accettare che il dialogo ci alteri. Nei due sensi della parola: ci mette sete dell’incontro con l’altro e ci cambia anche. Inoltre, il dialogo fa nascere altre domande, apre altre prospettive e chiama ad altri incontri. Ma soprattutto c’è un effetto di ritorno del dialogo su di sé, sul nostro modo di interpretare l’umanità, di vivere la nostra fede e di comprenderla. Non si esce dal dialogo come si è entrati. Non solo, come è evidente, si impara qualcosa dell’altro, si è introdotti a nuovi sguardi sull’uomo, si è raggiunti da nuove domande; ma anche, ed è la cosa più difficile da vivere, si diviene altro.

Jean-Marie Ploux, Il dialogo cambia la fede?

Compagni di viaggio...

Leggi tutto: Compagni di viaggio...L’uomo nasce nomade, oltre che nudo: senza città né accampamenti, senza difese. Un marchio, questo, che rimane in qualche modo scolpito nelle sue profondità, per poi emergere a ogni occasione che si presenti; è un nomade come la natura intera.

L’uomo nasce nomade e in qualche misura tale resta. Forse il primo vero architetto della città è la paura, il bisogno dell’uomo di sapersi protetto più che di sentirsi un essere comunitario e civilizzato. Anche i nomadi hanno infatti vincoli e cultura; come d’altronde anche nelle città si sperimentano isolamento e barbarie! Inoltre, la comunione non la si assapora solo nello stare in un luogo, ma si può essere anche “compagni di viaggio”, secondo l’espressione che Ignazio di Antiochia applica ai primi cristiani …

La città dunque protegge, a volte troppo, vietando l’uomo anche a se stesso, fino a soffocarlo. Allora riaffiora nella mente l’eco di quel moto delle viscere, mai spento, che chiede di essere seguito da un altro movimento, fisico innanzitutto, che assecondi il suo ritmo. L’uomo allora riscopre il viaggio; ne sente tutta l’urgenza, come di un andare necessario, imposto dalla vita. Fa di tutto per mostrare, a se stesso innanzitutto, che quel viaggio è ingiunto dalla necessità: quando non si è più bambini, bisogna essere ponderati e agire solo per necessità altrettanto serie!

La vita, dunque, richiede di viaggiare: per aumentare la ricchezza o la varietà dei prodotti di cui si può disporre (viaggi commerciali), per conquistare nuove terre e assoggettare nuovi popoli (campagne di conquista), per placare gli dèi che chiedono di essere serviti in luoghi lontani e non ovunque o in un luogo qualsiasi (pellegrinaggi). Necessità reali e inconfutabili, che sembrano intrecciarsi a quel bisogno primario che è vera radice di ogni moto, e fornirgli un volto plausibile e soprattutto ragionevole.

La vita poi, quasi come riflesso al viaggio indotto dalla necessità, obbliga a viaggiare: per cercare cibo quando là dove si vive questo scarseggia (emigrazioni), o per pagare il prezzo di una guerra perduta (deportazioni). In questo caso è il dolore che prevale, ma nondimeno resta il viaggio, che non è mai vano.

Solo in tempi abbastanza recenti l’uomo ha avuto il coraggio di ammettere, senza più simulare, che si può viaggiare anche per piacere. Che il viaggio non è solo il prezzo da pagare in vista di un bene che è sempre al di là, alla fine. Che l’ampiezza e la varietà della terra non sono una disgrazia ma una benedizione. Il viaggio è ormai un piacere, e non si ha più nessuna remora ad affermarlo!

Ma forse l’itinerario non è ancora concluso: il piacere è ancora relegato nella meta, nella città d’arte o nella foresta esotica da andare a visitare. Ci vorrà ancora altro tempo per riappropriarsi coscientemente del piacere originario, sempre goduto e puntualmente misconosciuto, cioè del viaggio stesso come primo piacere, perché primo bisogno.

S. Chialà, Parole in cammino

Lettere dalla storia

29. x. 1942

Leggi tutto: Lettere dalla storiaSorella,

mi permettete di conservare la copia della Lettera che avete mandato a Roma? Ò bisogno di averla vicina, specialmente in questi momenti di prova rinnovata. Vi trovo edificazione, conforto e l’accento della giusta devozione. Che Vi rispondano o no, questo è poca importanza. Noi non ci facciamo molte illusioni sul progredire della larghezza spirituale in certi ambienti: ci basta conoscere il nostro dovere di figliuoli e pregare Iddio che ci aiuti a rimanervi fedeli a qualsiasi costo.

È l’ora della fedeltà, consumata però in una oblazione monda e sincera. In alto, tra gli uomini, possono anche non tenerne conto e giudicarla diversamente: più in alto, viene raccolta e messa in conto d’espiazione e di testimonianza per un domani pauroso, già alle porte.

Anche la mia prova si è in questi ultimi giorni accentuata. Il volumetto ultimo Anch’io voglio bene al Papa è dispiaciuto in Curia per il suo tono umano. Direttamente non mi è ancora nulla pervenuto, ma la campagna è aperta per non lasciarmi più voce. A una editoria cattolica, che stampava La Parola che non passa, fu consigliato di smettere. Altri scritti a quotidiani mi furono rimandati con risposte troppo chiare per non vederci un’intenzione. I revisori ecclesiastici di alcune diocesi furono messi sul guardavoi.

Vedete, cara Sorella, come le nostre povere strade s’incontrino. Ma il fuoco, se il Signore ci usa pietà, continuerà ad ardere nel segreto dei nostri cuori.

Penso al Vostro inverno costì! A l’inverno di tanti e tanti e mi prende uno struggimento interiore come non ò mai provato.

Se potessi vederVi, parlarVi! Su l’Altare ci siete ogni mattina, con quanti avete sulle braccia e nel cuore, con la nostra piccola e cara Famiglia, cui mi sento legato per l’Eternità.

Date a tutti i fratelli il mio saluto e la mia benedizione alle dolci amabili creature che vivono e soffrono vicino a Voi. Mio padre (83 anni) continua a migliorare, mamma Grazia à sempre in piedi, Giuseppina cammina col fratello.

Sono un po’ stanco, ma posso lavorare lo stesso. Ò chiuso Impegno con Cristo; sono alla fine della Samaritana, abbastanza avanti col Vangelo del reduce e con un romanzo: L’uomo di nessuno.

Datemi braccia, Sorella, datemi cuore! Si avvicina l’ora: bisogna essere in piedi e con la lampada accesa.

Vi benedico, Vi benedico affettuosamente.

Vostro

fratello Ignazio

Sorella Maria di Campello, Primo Mazzolari, L’ineffabile fraternità. Carteggio (1925-1959)

Fidarsi dell'amore

Leggi tutto: Fidarsi dell'amoreIl racconto biblico è il racconto di un amore unico e straordinario che, come unica condizione, pone di essere accolto, fidandosi e affidandosi alla sua potenza. Credere in Dio o avere fede vuol dire fidarsi e affidarsi alla potenza di questo amore … Fidarsi di Dio è riconoscere che l’io non è mai prima ma sempre dopo, perché prima è l’Altro – Dio appunto – che per primo ama l’io e se ne prende cura; ed è soprattutto lasciarsi sorprendere da questo Dio che per primo ama, cogliendone lo stupore e lo scandalo, se solo si considera che per pensatori come Platone o Aristotele Dio poteva essere amato ma non amare e che l’idea che egli si prendesse cura dell’uomo sarebbe apparsa incomprensibile e bizzarra, come per noi l’affermazione di uno che oggi dicesse che la natura lo ama, potendo la natura essere amata ma non amare!

Un tratto dell’amore di Dio che per primo ama è la sua paradossalità: non solo perché, come si è precisato, ama per primo ma perché, amando per primo, ama di un amore che è gratuito. Nel senso, innanzitutto, che la ragione dell’amore risiede in lui che ama e non in chi è amato, come rileva continuamente il racconto biblico mettendo al centro la figura dello straniero sul quale Dio si china (il Primo Testamento) e la figura del nemico che Dio perdona (il Secondo Testamento); nel senso, poi, ancora più radicale che l’amore donato non mira alla realizzazione di chi lo dona, ma alla felicità di chi lo riceve, accolto e amato nella sua alterità e non in quanto momento interno alla felicità di chi lo dona.

Il racconto biblico è il racconto di questo amore gratuito incondizionato e senza ritorno: incondizionato nel senso che Dio non pone condizioni all’uomo che egli ama, abolendo ogni “se” e ogni “perché” nei suoi confronti; senza ritorno, nel senso che, amandolo, piuttosto che realizzarsi, compiersi o soddisfarsi, Dio al contrario gli fa spazio, limitandosi e mettendo da parte le sue ragioni e i suoi “diritti divini”.

Fidarsi di Dio è affidarsi a questo amore gratuito, impensabile e straordinario, incondizionato e senza ritorno. È consegnarsi a questo amore e gioire della sua presenza, della sua bellezza e della sua potenza. È sapere che prima dell’io e più importante dell’io, dei suoi progetti, dei suoi sogni, delle sue realizzazioni e dei suoi desideri, c’è l’amore che ama l’io, lo accoglie e gli sorride. È sapere tutto questo e riconoscerlo: sempre, nella buona e nella cattiva sorte, quando il sole splende o quando è coperto, quando i conti tornano o quando vanno in rosso, quando si gioisce o quando si soffre. Non perché si possegga l’intelligenza di capire il senso di tutto ciò che accade ma semplicemente perché questo senso è altrove, non in noi ma nell’Altro, in Dio che si prende a cuore la nostra sorte e ci chiede di fidarci.

Carmine Di Sante, Fiducia, speranza, amore

Una storia che può cambiare il mondo

Leggi tutto: Una storia che può cambiare il mondoIl Vangelo di Marco più di ogni altra cosa tratteggia e cerca di attuare a favore di noi lettori un rapporto nel cui ambito le storie narrate acquisiscono senso e diventano credibili: non siamo invitati a formulare giudizi distaccati. In questo modo non voglio affermare indirettamente che i miracoli in Marco non sono reali, ma piuttosto dire che leggere i racconti di miracolo in Marco non significa per l’appunto cogliere in essi una serie di eventi magici degni di nota. Significa leggere di una persona attorno alla quale avvengono cose straordinarie, non importa in fin dei conti con quali dettagli, e cercare di cogliere come una simile strategia narrativa riguardo a tali eventi diventi credibile appunto perché ha trasformato sia il suo narratore sia gli uditori, perché ha creato un rapporto di piena fiducia che ora viene offerto al lettore /ascoltatore affinché lo faccia proprio.

Il testo del Vangelo secondo Marco lancia due sfide ai lettori. La prima è lasciarsi interpellare dalla sua figura centrale. Il narratore Marco scrive a partire da un rapporto, un rapporto irresistibile con Gesù, che desidera divenga reale anche per noi; dunque, a prescindere dal fatto che noi vogliamo o meno entrare in un rapporto analogo, dobbiamo prestare attenzione al fatto costituito da tale rapporto così come l’evangelista ce lo presenta. Di conseguenza, ed è la seconda sfida, dobbiamo afferrare il mutamento avvenuto nella realtà, a cui la storia rende testimonianza, e prendervi parte; tale mutamento viene ora annunciato ufficialmente in un euanghélion, un comunicato stampa proveniente dal palazzo, e narra un cambiamento nel clima politico, un mutamento di regime. Sono queste le sfide: sappiamo lasciarci interpellare dalla figura di Gesù? Siamo in grado di entrare a far parte del mutamento dello status quo che è il tema centrale della sua storia?

Nel primo capitolo di Marco: la voce dal cielo al battesimo di Gesù, la testimonianza resa a Gesù dalla risposta di quegli uomini e quelle donne che riconoscono l’eccezionale autorità e novità di ciò che egli dice e di come lo dice, e la voce dei demoni che si ribellano alla sua presenza. Questa storia, il monito è chiaro, è profondamente seria, è una storia in grado di cambiare il mondo, e la sua influenza va ben al di là dei villaggi della Palestina. E se gli eventi in essa narrati cambiano davvero il mondo (operando un mutamento di regime), allora la sua figura centrale è un uomo dotato dell’autorità e della capacità di cambiare qualsiasi cosa e tutte le cose che sono nel mondo.

Marco ottiene un notevole trionfo narrativo proiettando Gesù sul palcoscenico senza la minima introduzione. Non dice chi egli sia, al di là di come si chiama e da dove proviene: nessun retroterra familiare, nessuna storia natalizia. Il sipario si alza rapidamente ed ecco sulla scena la figura centrale; nessun preludio, apologia o spiegazione, compare l’Unto. Ed è così che il testo proseguirà: per questo il Gesù di Marco non è, malgrado l’opinione di alcuni lettori, un profeta umano, innocente e diretto, privo di tutti quei marchingegni teologici che lo avvolgono negli altri vangeli. Al contrario: si potrebbe sostenere che questo Gesù sia più alieno, più “trascendente”, semplicemente più fastidioso del Gesù degli altri tre vangeli. A noi il compito di investigare quale sorta di mutamento si suppone egli abbia suscitato.

Rowan Williams, Il Dio di Gesù nel Vangelo di Marco