Dal salone del libro: giorno 3 ascoltando poeti

 

Un giorno, quando sarò più maturo e più vecchio, arriverò forse a scrivere un libro per i giovani: ma non perché io pensi di aver compreso qualcosa meglio di altri. Al contrario, perché ogni cosa è stata per me più difficile che per qualsiasi altro giovane, fin dall’infanzia e durante tutta la mia giovinezza.

Così, ho sempre sperimentato più e più volte che non c’è praticamente nulla di più difficile che volersi bene. È questa la fatica, quotidiana: quotidiana; lo sa Dio, non c’è altra parola per definirla. Vedi, a ciò si aggiunge il fatto che i giovani non sono preparati per un amore così difficile; perché la convenzione ha tentato di trasformare questa complicatissima e importantissima relazione in qualcosa di leggero e disinvolto, e li ha illusi di esserne tutti capaci. Ma non è così. L’amore è qualcosa di difficile, ed è più difficile di altre realtà perché, negli altri conflitti, la natura stessa porta gli uomini a concentrarsi su di sé e a mantenere la propria unità con tutte le forze, mentre nell’esaltazione dell’amore c’è la spinta a offrirsi completamente …

Vivere, esattamente, significa trasformarsi in se stessi, e le relazioni umane, che sono un estratto della vita, sono ciò che tra tutte le cose si trasforma di più, di minuto in minuto si elevano e ricadono, e gli innamorati sono coloro per i quali, nella relazione e nel contatto, nessun momento assomiglia all’altro: esseri umani, tra i quali non avviene mai nulla di abituale, nulladi già accaduto prima, ma qualcosa di completamente nuovo, inaspettato, mai udito. Vi sono alcune relazioni che devono essere un’immensa, quasi insostenibile felicità, ma possono avere luogo solo tra due nature molto ricche, tra due persone che siano, ciascuna per se stessa, ricche, ordinate e ben strutturate: possono congiungere unicamente due mondi ampi, profondi e individuali. I giovani – è evidente – non possono raggiungere una relazione di questo genere, ma possono, se comprendono esattamente la propria vita, crescere lentamente incontro a questa felicità e prepararsi per essa. Quando amano, non devono dimenticare che sono dei principianti maldestri della vita e degli apprendisti nell’amore, devono imparare l’amore, e per questo sono necessari (come per ogni apprendistato) calma, pazienza e dominio di sé.

Prendere l’amore sul serio, accoglierlo su di sé e impararlo come una professione: ecco ciò di cui i giovani hanno bisogno. Come molte altre cose, la gente ha frainteso anche il posto che l’amore ha nella vita, ne ha fatto un gioco e un divertimento, perché crede che il gioco e il divertimento siano più felici del lavoro; ma non c’è nulla di più gioioso del lavoro, e l’amore, proprio perché è la felicità estrema, non può essere altro che lavoro. Chi ama, dunque, deve cercare di agire come se avesse un grande lavoro: deve essere molto solo, e scendere in se stesso, e fare unità in se stesso e tenersi unito a sé; deve lavorare; deve diventare qualcosa!

R. M. Rilke, Lettere a un giovane

Dal salone del libro: giorno 2 appuntamento con la poesia

Venerdì 15 maggio ore 18,30 Sala Rossa
Salone del libro Torino
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Rilke e Pessoa: Parole che non si consumano
con Enzo Bianchi priore di Bose,
Mariangela Gualtieri poetessa e drammaturga,
Lorella Barlaam giornalista e autrice.

 

La meravigliosa realtà delle cose
E la mia scoperta di tutti i giorni.
Ogni cosa é ciò che é,
E' difficile spiegare a qualcuno come ciò mi rallegri,
E quanto mi basti.

*

Un giorno di pioggia è bello come un giorno di sole.
Entrambi esistono, ognuno è come è.

*

Non ho fretta. Fretta di cosa?
Non hanno fretta il sole e la luna: sono esatti.
Avere fretta è come credere di camminare oltre le gambe
O, con un balzo, saltare al di sopra dell’ombra.
No; non ho fretta.
Se allungo il braccio, raggiungo esattamente il punto
che il mio braccio raggiunge –
Non un centimetro oltre.
Tocco solo dove tocco, non dove penso.
Posso sedermi soltanto dove sto.
E ciò fa sorridere come tutte le verità assolutamente vere.
Ma quel che fa ridere a crepapelle è che noi pensiamo sempre
ad un’altra cosa,
E siamo vagabondi del nostro corpo.

*

Come un bambino prima che gli insegnassero
ad essere grande,
Fui autentico e leale a ciò che vidi e sentii.

F. Pessoa, Sono un sogno di Dio

Dal salone del libro: giorno 1

Leggi tutto: Dal salone del libro: giorno 1La tua vita come persona non può avere un senso specifico, durevole. Può acquisire un senso derivato solo se inserita in qualcosa che “duri”, e subordinata a qualcosa che abbia un “senso” in se stesso. Ma quanto detto vale forse per quello che noi intendiamo oggettivare quando parliamo della Vita? Potrà la tua vita avere senso come frammento della Vita?
La Vita è...? Prova e vedrai: la Vita come realtà. La Vita ha “senso”? Vivi la Vita come realtà, e troverai priva di senso la domanda.
“Provare”. Provare, osando il salto in una subordinazione incondizionata. Osarlo quando sei sfidato, perché solo alla luce della sfida potrai scorgere il bivio e sperare di operare – in piena lucidità – la scelta di voltare le spalle alla tua vita come persona, senza il diritto di volgerti indietro.
Troverai che “nel modello” sei liberato dal bisogno di vivere nel “gregge”.
Troverai che, subordinata alla Vita, la tua vita mantiene il suo senso, indipendentemente dalla cornice in cui ti è dato realizzarla.
Troverai che la libertà del continuo commiato e della momentanea rinuncia a te stesso dà alla tua percezione della realtà una purezza e una nitidezza che sono la realizzazione di te stesso.
Troverai che l’atto di consapevole subordinazione richiede di essere continuamente ripetuto, e viene smentito se in qualcosa permetti alla tua vita individuale di reinsinuarsi al centro.
La “grande” missione è molto più facile del compito di ogni giorno, ma con la stessa facilità chiude il nostro cuore a quest’ultimo. Così la ferma volontà di sacrificio può conciliarsi con la durezza di un grande eroe, e lì condurre.
Ti credevi indifferente a una stima dalla quale non calcolavi di trar vantaggio, e che – anche qualora fossi stato tentato di farlo – superava largamente ogni giustificato motivo. Ti credevi indifferente... finché non sentisti ardere la fiamma dell’invidia di fronte ai suoi infantili tentativi di “farsi notare”, ed ecco, nudo e svelato, il tuo amor proprio.
Sulla durezza – e pochezza – del cuore. Lasciami leggere, a occhi aperti, il libro che i miei giorni stanno scrivendo, e lasciami imparare.

Dag Hammarskjöld, Tracce di cammino

Voci per la pace

Leggi tutto: Voci per la paceIl popolo invisibile dei costruttori di pace … e un popolo sterminato che sta in piedi. Perché il popolo della pace non è un popolo di rassegnati. È un popolo pasquale, che sta in piedi, come quello dell’Apocalisse: Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’agnello (Ap 7,9). Davanti al trono di Dio. Non davanti alle poltrone dei tiranni, o davanti agli idoli di metallo … A questo popolo invisibile della pace, dall’Arena di Verona, giunga la nostra solidarietà. Ma anche il nostro incoraggiamento: con le parole delle beatitudini, secondo la traduzione che sostituisce il termine “beati” con l’espressione “in piedi”. In piedi, costruttori di pace. Sarete chiamati figli di Dio (Mt 5,9) …

[Per la pace] siamo giunti alla pienezza dei tempi, ed è balenata alle nostre coscienze la convinzione che la pace oggi si declina inesorabilmente con la giustizia e con la salvaguardia del creato. Siamo passati, per così dire, dal monoteismo assoluto al monoteismo trinitario della pace … Sicché, la giustizia, collocata da Dio stesso accanto alla pace quale sua partner naturale, continua a destare più sospetto di quanto non desti scandalo quando viene collocata accanto alla guerra. Tant’è che si parla ancora di guerra “giusta”. Questa si che e convivenza contro natura!

Don Antonio Bello

Ha mai pensato alla possibilità di una storiografia del profondo? Lei sa che il movimento delle acque dei mari obbedisce a leggi precise. Alla superficie, le acque ci appaiono agitate, ci suggeriscono l’immagine del caos, di un divenire caotico, in balia di forze incontrollabili, ma nel profondo vi sono potenti e misteriose correnti che governano il moto delle acque. Anche nel profondo della storia umana, così agitata nella superficie, vi sono delle grandi e misteriose correnti che trascinano in un senso ben preciso: verso l’unità e la pace. Bisogna saperle individuare. Ed è questa la funzione più alta della cultura. Il politico che tiene gli occhi fissi alla superficie non vede che cosa avviene nel profondo. Non vede o trova irragionevole quello che ha affermato Paolo VI nel suo ultimo discorso sulla pace: come, cioè, l’utopia sia destinata a divenire storia e come la storia debba, alla fine, arrendersi all’utopia.

Giorgio La Pira

Ogni giorno noi lottiamo per comprendere e far comprendere che la colpa non è mai da una sola parte ma da ambedue le parti, noi ragioniamo insieme e ci sforziamo di vedere tutto quello che è positivo nell’altro, noi ci guardiamo in faccia, negli occhi perché vogliamo che si faccia la verità … I membri del mio staff hanno imparato a ridere dei propri limiti, delle proprie meschinità, della mentalità “monetaria”, della durezza del loro cuore, della sete di vendicarsi quando sono feriti: tutte cose, queste, che rendono così difficile il perdono … Io, da parte mia, da lunghi anni ho imparato o meglio ho capito nel profondo dell’essere che, quando c’è qualcosa che non va – incomprensioni, attacchi, ingiustizie, inimicizie, persecuzioni, divisioni – sicuramente la colpa è mia, sicuramente c’è qualcosa che io ho sbagliato.

Ai piedi di Dio, la ricerca della mia colpa è facile, non prende tempo, fa soffrire ma non poi così tanto, perché poi è così bello e grande riconoscersi colpevoli e combattere perché la colpa venga cancellata, perché i comportamenti sbagliati vengano riformati, perché in ogni relazione con gli altri l’approccio divenga positivo … Il nostro compito sulla terra è di far vivere. E la vita non è sicuramente la condanna, lo ius belli, l’accusa, la vendetta, il mettere il dito nella piaga, il rivelare gli sbagli, le colpe degli altri, il tenere nascosta invece la nostra colpa, l’impazienza, l’ira, la gelosia, l’invidia, la mancanza di speranza, la mancanza di fiducia nell’uomo. La vita è sperare sempre, sperare contro ogni speranza, buttarsi alle spalle le nostre miserie, non guardare alle miserie degli altri, credere che Dio c’è e che lui è un Dio d’amore.

Annalena Tonelli

La notte continua. Quelli che prendono le armi sono sempre così numerosi, pieni di odio e di violenza. Alcuni prendono il Libro … Perciò bisogna restare in ascolto e seguire i passi degli uomini e delle donne che si sono messi in cammino, sotto un cielo deserto, portando un Dio nascosto, portando l’alba. Le loro testimonianze sono fuochi di bivacco accesi nella notte: non basta riscaldarvisi per un momento, di sfuggita; occorre sorvegliarli, alimentarli e propagarli, perché brucino dove il vento li condurrà.

Sylvie Germain

vai al libro: I cristiani di fronte alla guerra, a cura di Lisa Cremaschi

La terra promessa dell'incontro

Leggi tutto: La terra promessa dell'incontroLa simmetria – legge fondamentale di ogni incontro autentico – non è un qualcosa che si acquisisce di primo acchito, soprattutto a causa dei pregiudizi che gli uomini si impongono vicendevolmente, sia da un punto di vista sociale che religioso. Vi è perciò la necessità di attraversarli perché a un dato momento le due persone possano accedere all’esperienza di una vera simmetria, prima ancora che si possa parlare di reciprocità. La reciprocità, infatti, può nascere solo quando si è vissuta la simmetria; non può essere “prodotta”: come esigerla dall’altro? Io non posso che espormi a lui consegnando, in una certa fiducia a prima vista, qualcosa di me stesso – e forse ciò che più è profondo in me – e sperando che questo lo inviti a fare altrettanto. Tale è il carattere di gratuità racchiuso in ogni incontro. A partire da questo presupposto, l’ospitalità si presenta come un’offerta: la simmetria permette di offrire all’altro la possibilità di esprimersi e di condividere qualcosa, affinché io diventi a mia volta suo ospite … Esponendomi all’altro, accogliendolo presso di me, nella mia casa, alla mia tavola o semplicemente sulla soglia – e a condizione che io sia vero con me stesso in questa accoglienza –, sono sempre in attesa che l’altro faccia lo stesso. Se per miracolo lo fa, io divento suo ospite ed egli mi dà ospitalità. Questa è la trama fondamentale che attraversa le Scritture, dalla figura di Abramo fino al pasto promesso nell’Apocalisse: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). La simmetria si trasforma allora in reciprocità: “Io con lui ed egli con me”.

Questa immagine dell’incontro e dell’ospitalità non è soltanto escatologica: caratterizza la figura di Gesù di Nazaret, “l’essere ospitale” per eccellenza. Essa è per ora, segna l’entrata nella “terra dove scorrono latte e miele” (Es 3,8). Ogni terra può diventare terra promessa quando degli esseri vivono l’incontro fino in fondo, come ha fatto Gesù di Nazaret … La sua ospitalità è radicale, al punto che egli si annulla per permettere all’altro di trovare la propria identità

Qual è la posta in gioco di questa ospitalità? È la rivelazione di ciò che la tradizione biblica chiama “fede”. Non ancora una fede esplicita in Dio, ma la fede come espressione ultima dell’essere umano, quell’atto fondamentale, del tutto elementare, che scommette sulla vita. Ne vale la pena, c’è di mezzo la vita: essa manterrà la promessa. Nessuno di noi ha scelto di esistere, siamo stati tutti messi al mondo, e ciascuno deve riconciliarsi con il fatto di esistere in certe condizioni precise, di tipo sociale, culturale, nazionale, religioso, politico, con i loro limiti terribili: le disuguaglianze di ogni sorta, i confronti che esse producono, le immagini altrui che ci aggrediscono, e via dicendo. L’ospitalità è il luogo della riconciliazione con se stessi. E nessuno può farlo al posto di un altro. Ecco allora il miracolo della reciprocità. Un essere ospitale può generare in me questo atto di fede: la mia esistenza vale la pena di essere vissuta…

Christoph Theobald, Lo stile della vita cristiana

Là dove c’è amore!

Leggi tutto: Là dove c’è amore!Il Cristo che chiede di essere cercato tra i suoi amici è il medesimo che domanda di essere individuato là dove c’è amore, e il medesimo che alle sue piccole chiese dà l’appuntamento attorno alla mensa della Parola e del pane. “Il primo giorno della settimana … cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui … Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” (Lc 24,1.27-35). Il Risorto vivente in un giorno preciso si accompagna ai due di Emmaus dagli occhi impediti a riconoscerlo, tristi e tardi di cuore e di mente: un fare strada insieme nel dialogo e nella spiegazione delle Scritture, un sostare insieme a tavola nel compimento del gesto dello spezzare il pane, incendiando il loro cuore e facendosi riconoscere per quello che è in verità.

È un racconto il cui ideale prolungamento è dato dalla celebrazione domenicale della cena del Signore, letta come il giorno dell’appuntamento da lui dato al “noi” ecclesiale pellegrinante nella storia. Racconto decisivo a riguardo del quando cercarlo. Nel giorno da lui stabilito, quello della resurrezione, a sottolineare che l’incontro è con un tu vincitore della morte. E a riguardo del dove cercarlo. Là ove lui ha stabilito e come lui ha stabilito di farsi incontrare, nella povertà dei segni: come Parola nascosta nel grembo di una pagina, come già nel grembo della Vergine, come dono nascosto in un pane che si spezza e si consegna in pasto … Per divenire finalmente a misura di lui: pane che si spezza per l’altro e che si dona in cibo all’altro, vino per la gioia dell’altro, un modo di essere che dice la verità di Cristo, di Dio e dell’uomo.

Attestazione del nostro essere veramente figli, veramente eredi, è il dono dello Spirito, apportatore di una fruttificazione in attesa della sua piena fioritura, suggeritore e garanzia che questo è solo il presente di un futuro ancora nascosto e atteso. L’uomo già figlio e già erede vedrà compiutamente se stesso e il suo destino quando il suo volto si specchierà occhio contro occhio in quello di Dio, e saranno una filialità e un destino che investiranno la stessa redenzione del corpo: “Aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso” (Fil 3,20-21). L’esistenza cristiana si muove pertanto tra un già di salvezza e un non ancora del suo pieno svelamento, che costituisce l’oggetto della speranza: quel compimento futuro non ancora visibile, un non visto atteso nella perseveranza, nell’attenzione a non scindere la croce dalla resurrezione e la resurrezione dalla croce, legando il gemito a una “speranza che non delude” (Rm5,5), uno sperare contro ogni speranza alla maniera di Abramo, oltre la disperazione (cf. 1Ts 4,13).

Giancarlo Bruni, Pellegrini in cerca di senso

Una felicità senza misura

Leggi tutto: Una felicità senza misuraLa ricerca della felicità è vecchia quanto l’uomo: ma come vivere una vita felice, premesso il fatto che la nostra condizione umana è segnata dalla finitezza e dagli imprevisti dell’esistenza (malattia, cattiva sorte, catastrofi di ogni genere, perdita delle persone care e, a scadenza più o meno ravvicinata, la prospettiva della propria morte)? Nell’antichità si riteneva che gli dèi fossero “felici” perché sfuggono alla sorte dei mortali, godendo così della felicità eterna. Quanto agli uomini, continuano incessantemente a cercare la felicità e la individuano nella salute, nell’amore, nel denaro, nella sapienza, nella bellezza, nel potere, nella pietà, nella protezione degli dèi. Su tale questione della felicità e delle condizioni alle quali è possibile le beatitudini dell’Evangelo di Matteo (cf. 5,3-12) rappresentano un contributo originale. Il loro intento è in effetti per lo meno paradossale: Gesù vi proclama che la felicità si riceve in una condizione di povertà di spirito, al cuore della prova e più in generale in situazioni di carenza e di umiltà, a priori poco conformi ai canoni abitualmente associati alla felicità. Gesù non afferma certo che la felicità nasce dalla sofferenza, tuttavia egli sostiene non soltanto che essa trova la sua sorgente nell’attesa di qualcosa la cui origine va collocata all’esterno di questo mondo (quello che Matteo chiama “il regno dei cieli”), ma anche che può essere vissuta proprio al cuore della prova: è una definizione di felicità che non corrisponde a nulla di ciò a cui siamo abituati!

Si potrebbe dire che il discorso della montagna elabora una “logica paradossale”, paradossale nel senso che va controcorrente rispetto all’opinione comune. Infatti il discorso della montagna ha la capacità misteriosa di suscitare una comprensione del rapporto con se stessi e con gli altri che trascende ciò che abitualmente pensiamo di una vita buona e felice. Il dono debordante, che non attende ricompensa alcuna, e la fiducia assoluta fondata unicamente sulla promessa di una parola ne sono i due pilastri …

La logica della dismisura del dono e della fiducia nella gratuità è possibile nel quotidiano? La storia dell’umanità, e la nostra personale esperienza di credenti mostra che, in generale, tale logica paradossale appare come un emergere improvviso, come un qualcosa di inatteso, un dono che viene da altrove e non dalla nostra volontà. La logica della dismisura del dono e della fiducia nella gratuità è piuttosto un lasciare che in noi operi la Parola, che interviene allora come una grazia. Bisogna però accoglierla in noi quando si manifesta. Noi non possiamo prevederla, programmarla, padroneggiarla. Dobbiamo semplicemente riconoscerla, a cose fatte, quando ne contempliamo gli effetti in noi e attorno a noi.

Élian Cuvillier, Paradossi del vangelo