La coppia: armonia con l’universo

Leggi tutto: La coppia: armonia con l’universoGli sposi sono pieni di grazia, destinati a divenire un’autentica teofania, un’immagine visibile di Dio che si edifica secondo i principi della vita divina. “Quando il marito e la moglie si uniscono nel matrimonio essi non formano l’immagine di qualcosa di terreno, ma di Dio stesso” (Giovanni Crisostomo). E a questo punto si comprende perché la Bibbia si serva della metafora nuziale per designare il mistero del regno di Dio … Tutte le altre forme di amore possono raggiungere vette di purificazione e forza spirituale, ma restano comunque, considerate in se stesse e nella loro realtà, incomplete. L’uomo e la donna non sono due, ma un essere solo. Quindi il matrimonio riporta l’uomo all’integrità della sua natura originale. Questo comporta una rinuncia totale a se stessi: l’io non esiste più; solo il noi può essere espressione del vero io coniugale. In virtù della vita comune la distanza viene abolita, non vi è più che un solo essere. Ed è anche per questo che l’amore coniugale è l’espressione più fedele del comandamento: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Mt 19,19).

Per restare fedele a se stesso l’amore coniugale, proprio a motivo della pienezza che ha saputo creare, si riversa all’esterno, e non può non farlo. Come l’Amore che ha creato il mondo, anche l’amore degli sposi cerca un oggetto e genera il figlio. Ma ogni amore autentico è sempre preveniente e non ha che una misura: l’infinito; esso travalica sempre i propri angusti confini, si dilata e diventa “il cuore misericordioso” di Isacco di Ninive. È questo il segno dell’autentico amore, del vero matrimonio, che è agli antipodi dell’egoismo a due, o dell’egoismo familiare.

La coppia si apre al mondo e, fedele al proprio amore, entra in armonia con l’universo: “Cos’è un cuore misericordioso? È l’incendio del cuore per ogni creatura: per gli uomini, per gli uccelli, per le bestie, per i demoni e per tutto ciò che esiste ... Il cuore si scioglie e non può sopportare di udire o vedere un danno o una piccola sofferenza di qualche creatura. E per questo egli offre preghiere con lacrime in ogni tempo, anche per gli esseri che non sono dotati di ragione ... a motivo della sua grande misericordia, che nel suo cuore sgorga senza misura, a immagine di Dio” (Isacco di Ninive).

Malgrado le inevitabili cadute, l’io coniugale oltrepassa la dimensione del tempo e risuona sempre come l’io dell’unità. Benché sia una coppia concreta quella che riceve la grazia del sacramento, è comunque da parte della chiesa, nella chiesa e per la chiesa che essa la riceve, ed è la chiesa universale nella sua interezza che presenzia a ogni celebrazione del matrimonio, perché è il sacramento dell’onni-unità, dell’unione a immagine di Cristo e della chiesa; si può dire che è il sacramento della vita nella chiesa.

Non è la chiesa che si abbassa, ma la coppia che viene innalzata alla sua misura. Se, a causa della propria debolezza, non sempre l’uomo percepisce questo legame, rimane comunque la legge che “se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme” (1Cor 12,26), cioè la legge del corpo di Cristo.

Pavel Evdokimov, Il matrimonio, sacramento dell’amore

“Il tuo amore vale più della vita” (Sal 63,4)

Leggi tutto: “Il tuo amore vale più della vita” (Sal 63,4)La tua benevolenza vale più della vita”: è il grido di giubilo dei miseri e degli abbandonati, di chi è in pena e di chi porta un peso oberante; è l’urlo di desiderio dei malati e degli oppressi; è il canto di lode dei disoccupati e degli affamati nelle grandi città; è la preghiera di ringraziamento dei pubblicani e delle prostitute, dei peccatori pubblici e privati. Bene, ma lo è davvero? No, non lo è, quantomeno non nel nostro mondo, nel nostro tempo. Lo è per lo strano mondo della Bibbia, che nella sua estraneità ci spaventa e ci irrita nella misura in cui prestiamo ancora ascolto alla sua parola e non siamo diventati insensibili alla sua realtà. Oppure questa parola non ci sembra affatto così strana? Forse crediamo che sia proprio un’autentica ovvietà? Queste cose sarebbero già del tutto entrate nella viva carne di un cristiano? No, per questo vogliamo iniziare a vedere che cosa il nostro salmo dica qui veramente e se ciò sia per noi davvero così ovvio.

Nella vita del nostro salmista è accaduto a un certo punto qualcosa di decisivo: è stato quando Dio è entrato nella sua vita e da allora la sua vita è cambiata. Non intendo dire che improvvisamente egli sarebbe diventato buono e pio, può darsi che lo fosse già da tempo. Ma in quel momento Dio stesso era arrivato e si era rivolto a lui, e soltanto il fatto che Dio gli fosse sempre accanto e che egli non se ne sia separato più, questo ha reso la sua vita così particolare. La sua esistenza è stata lacerata a metà. Qualcosa in lui si è dischiuso, egli si sente scisso, nel suo intimo si accende una battaglia che di giorno in giorno diventa più accanita e terribile ed egli sente come, di ora in ora, dal suo interno venga sradicato sempre più ciò in cui ha creduto. Egli combatte perché vorrebbe conservarlo; ma Dio, che gli sta sempre di fronte, glielo ha preso a forza e non lo restituisce. E quanto più egli perde, con tanta più forza e avidità afferra ciò che ancora gli resta; ma con quanta più forza stringe il suo possesso, con tanta più durezza Dio deve colpire e tanto più violento è il dolore nella separazione. E così si procede in una lotta a perdifiato, dove Dio vince e l’uomo cede; egli non sa ancora dove questo porterà, si vede perduto, non sa se odiare o amare colui che con tale violenza ha fatto irruzione nel suo intimo e ha distrutto la sua pace. Si fa estorcere ogni pedaggio, cede disperato alle armi di Dio. E se tutto ciò non fosse per lui così privo di speranza, queste armi non sarebbero tanto prodigiose e strane, per il fatto che esse fanno a pezzi e confortano, feriscono e tuttavia guariscono, uccidono e tuttavia ravvivano. Dio dice: “Se vuoi la mia grazia, allora fammi vincere su di te; se vuoi la mia vita, allora lasciami odiare e fare a pezzi la tua natura malvagia; se vuoi la mia benevolenza, allora fammi prendere la tua vita”. E poi ecco il momento conclusivo. Tutto è andato perduto, soltanto una cosa è rimasta all’uomo; e questa, la sua vita, egli vuole trattenerla. Ma Dio non può fermarsi, egli assalta quest’ultimo bastione. E la battaglia infuria attorno a quest’ultimo fronte; l’uomo si difende come un pazzo: “Dio non può volere questo, non può volermi prendere quest’ultima cosa, Dio non è crudele, Dio è benevolo”. E gli giunge in risposta: “Se vuoi la mia benevolenza, allora dammi l’ultima cosa che possiedi, la tua vita. Scegli!”.

Dietrich Bonhoeffer, Imparare a pregare

Trasmettere l’infinito

Leggi tutto: Trasmettere l’infinitoIl sacramento del matrimonio è praticato oggi dalla chiesa cattolica, in una liturgia profondamente rinnovata dopo il concilio Vaticano II. Questo nuovo rito cambia in primo luogo il detentore del potere sacramentale e in seguito cancella ogni traccia di diseguaglianza. Non è il prete a unire gli sposi come si potrebbe pensare (“Coniungo vos”), ma sono gli sposi stessi che, con l’espressione della loro volontà, prendono sacramentalmente possesso l’uno dell’altro e si donano sacramentalmente l’uno all’altro nello scambio del loro consenso. Al momento decisivo essi pronunciano la stessa frase che li lega: “Io accolgo te, come mia sposa (o: mio sposo) ... Prometto di esserti fedele sempre ... e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”. Ciascuno passa in seguito nel dito dell’altro lo stesso anello dicendo: “Ricevi questo anello, segno del mio amore e della mia fedeltà”.

Prima del Vaticano II, solo lo sposo faceva scorrere l’anello al dito della sposa e faceva scorrere lui stesso il suo al proprio dito. La sposa restava passiva. Pochissimi cristiani erano urtati da questa esclusività dello sposo nella distribuzione degli anelli, come se la sposa non potesse fare da sé il suo gesto di offerta.

Ai giorni nostri il prete tace. Assiste come testimone in nome di Dio e come delegato della chiesa incaricata di registrare l’evento. Per concludere, benedice gli sposi e li invia a compiere nel mondo la loro vocazione coniugale: “Nella chiesa e nel mondo siate testimoni del dono della vita e dell’amore che avete celebrato”. La coppia instaurata da questi sposi non ha formulato una vana promessa. Sono in grado di mantenerla. Ne hanno i mezzi procurati loro dal sacramento.

Questi mezzi non provengono dalla loro persona, ma da Dio. Gli sposi sono privi di ogni assicurazione preventiva, di ogni fedeltà indefettibile. Ma se il loro nulla acconsente ad aprirsi alla grazia del Signore, l’amore li riempie. Lo Spirito risponde al loro appello.

Egli mantiene la promessa cui gli sposi non si sono impegnati avventatamente se l’hanno fondata su di lui. Non è per orgoglio che essi si sono creduti allora indefettibili e capaci di trasmettere l’infinito mediante creature finite. È anzi l’umiltà che li ha spinti a chiedere a Dio di rimediare alla loro carenza.

Era meraviglioso il loro disegno, quello per cui un uomo e una donna possono costituire una coppia indistruttibile in mezzo alle prove che essi necessariamente incontreranno. La loro ambizione di un assoluto coniugale capace di resistere a tutte le usure, le angosce, le dimissioni, e di rinascere ogni volta dall’abisso era perfettamente giustificata, se si ammette che l’amore è certo vulnerabile, ma ha sempre l’ultima parola.

Disegno meraviglioso ma folle, che solo la follia di Dio permette di realizzare. Occorre un intermediario divino, una presa in carica da parte di Cristo perché il miracolo si compia e l’assoluto assicuri in creature limitate e fallibili il trionfo dell’assoluto. Si verifica così che l’essenziale delle nozze è nel consenso per cui due volontà libere decidono di fare alleanza per portare l’una all’altra la salvezza.

Jean Bastaire, Matrimonio: amore senza fine

Sabato: accoglienza di un ospite

Leggi tutto: Sabato: accoglienza di un ospiteHeschel descrive il sabato come una “cattedrale nel tempo”. Il sabato è estremamente centrato sul tempo, in un modo che non ha paragoni con gli altri giorni della settimana. “Il giorno di sabato era una presenza viva, e quando arrivava lo sentivano tutti come un ospite che era venuto a visitarli”. Quando si avvicina il sabato, vi è un sentimento di attesa, di preparazione, di fretta affaccendata, in tutto analogo all’accoglienza di una persona cara, della cui compagnia si presente il godimento. Questa è proprio la sensazione che si ha il venerdì: fin dall’inizio, il giorno è immerso in un’atmosfera di attesa, e tutte le azioni del giorno riflettono il fatto che uno deve prepararsi perché, a un dato momento, arriverà il sabato.

Il sentimento di gioia anticipata che si ha mentre si aspetta un ospite, è precisamente quello che si sente alla vigilia del sabato. L’analogia continua anche quando il sabato arriva. Si crea un’atmosfera festiva: in altri termini, il tempo non è trasceso ma piuttosto riempito e carico della gioia che si ha quando arriva un ospite. Non vi è nulla che possa cambiare la routine della vita così rapidamente come l’arrivo di un ospite. Quando viene a visitarmi qualcuno che non ho visto per un certo tempo, o per il quale nutro un affetto particolare, non solo le ore e i giorni precedenti il suo arrivo sono pieni di azioni e di pensieri che anticipano la sua venuta, ma non appena viene, la mia vita cambia completamente. Metto da parte delle cose, non mi affaccendo nelle mie incombenze quotidiane come faccio quando non ci sono ospiti, ma ordino ogni cosa in vista di lui, cambiando per questo i miei orari.

Questa è solo un’analogia approssimativa di ciò che succede di sabato. Ma, lungi dall’essere trasceso, il tempo è infuso e si carica di un significato speciale: è più prezioso che mai e non voglio che passi, proprio perché è così pieno, così carico. L’analogia può applicarsi anche per descrivere che cosa accade alla fine del sabato. L’ospite sta per partire, si sente come un indietreggiamento, una diminuzione nel cuore, le preoccupazioni della routine quotidiana cominciano a fare irruzione mentre l’ospite è ancora lì. Cominci a guardare l’orologio, sapendo che a una certa ora deve partire; osservi i suoi preparativi per la partenza. Si sente che la ricchezza e la pienezza dello spirito stanno per andarsene. Questo è anche il sentimento che si ha quando parte il sabato. È un sentimento di diminuzione spirituale, uno svuotamento, una “vacanza”, nel senso negativo del termine.

Questa è la ragione per cui il sabato è descritto come se fosse portatore di un’anima supplementare, un incremento di spirito che viene tolto al singolo non appena il sabato “esce”.

Vi è, tuttavia, una differenza molto notevole fra il sabato e un ospite. La differenza è che chi arriva il venerdì sera, appena prima del tramonto, non è un ospite fisico, ma è di fatto un’atmosfera: arriva un certo ambiente. “Non è una data ma un’atmosfera; non è uno stato di coscienza ma un clima diverso. La prima consapevolezza è quella di essere noi nel sabato piuttosto che il sabato sia in noi”. Il sabato è un ambiente che ci circonda; siamo dentro di esso, siamo immersi nel sabato. Questo è ciò che succede all’ingresso del sabato: un ambiente perfettamente amato e rinfrescante avvolge e circonda l’individuo e la comunità.

Moshe Greenberg, Una parola uscita da Gerusalemme

In ascolto della famiglia

Leggi tutto: In ascolto della famigliaL’annuncio del matrimonio cristiano è chiaro, esigente, perché nel rapporto tra uomo e donna, che vivono una storia d’amore, che sono legati nell’alleanza della parola data, è significata l’alleanza fedele tra Dio e il suo popolo; ma occorre mantenere viva la coscienza che noi non siamo mai capaci di manifestare pienamente la fedeltà di Dio, il quale è fedele anche se il suo popolo è sempre infedele. Questo messaggio esigente noi cristiani dovremmo comunicarlo mettendoci in ginocchio e dicendo umilmente che è una parola del Signore, non nostra, una parola che annunciamo senza presunzione né arroganza, sapendo che vivere il matrimonio nella fedeltà e nell’amore rinnovato è un’opera ardua, difficile, faticosa, impossibile senza l’aiuto della grazia di Dio, e in ogni caso mai vissuta pienamente, ma sempre contraddetta da miserie, debolezze e da quell’egoismo che ci abita fino alla morte.

Questo annuncio evangelico non può certo essere mutato dalla chiesa, anche se scandalizza non solo il mondo, ma gli stessi cristiani, come dimostra la reazione dei discepoli alle parole di Gesù: “Se questa è la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi” (Mt 19,10). Ma di fronte a questa chiara volontà di Gesù, la chiesa, proprio nell’annunciarla in verità, senza cambiare la dottrina, deve avere il coraggio di esprimerla con parole nuove, comprendendo sempre meglio tale annuncio. Come affermava papa Giovanni XXIII, riferendosi al compito che attendeva il concilio: “Non è il vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio” 1 (24 maggio 1963).

Per questo, nella convinzione che la forma e l’identità della famiglia, molto diversificata nelle diverse società e culture, mutata a più riprese nel corso dei secoli, nel nostro occidente ha conosciuto profondi e rapidi cambiamenti negli ultimi decenni, oggi noi chiesa dobbiamo porci in ascolto delle famiglie, o meglio degli uomini e donne del nostro tempo, che vivono la storia del matrimonio in un modo nuovo rispetto al passato. La chiesa deve guardare in faccia gli uomini e le donne di oggi, le loro fragilità e debolezze, e non solo il loro desiderio di famiglia, come dicono più volte i documenti sinodali, ma anche le paure e le incertezze riguardo alla famiglia. Solo da un ascolto attento, amoroso, non prevenuto e non presuntuoso dell’attuale fatica a costruire e a vivere la famiglia, potrà nascere uno sguardo su di essa e sulle sue vicende segnate da gioiosa beatitudine ma a volte anche da sofferenza e morte.

Non si dimentichi, inoltre, che il giudizio sulla realtà matrimoniale è rappresentato dalle parole radicali di Gesù: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore” (Mt 5,28). Sono parole che interrogano tutti: chi non ha commesso questo peccato? Nelle storie d’amore il cammino è accidentato, e anche per i credenti può accadere la contraddizione all’alleanza nuziale. Può anche avvenire la separazione, che a volte addirittura si impone e non è certo un peccato né una colpa, come papa Francesco ha ricordato recentemente. Sì, oggi molti cristiani si trovano in questa situazione di lacerazione, e la loro presenza deve interrogare tutta la chiesa.

La famiglia tra sfide e prospettive

Uomo: unicità e diversità

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L’esistenza dell’uomo ha il punto di partenza nel divino amore. La creazione dell’uomo è opera dell’amore di Dio, non della “sua buona disposizione” ma del suo amore che costituisce l’essere come fatto esistenziale di comunione e relazione personali. L’uomo è stato creato per comunicare alla vita di Dio, e per partecipare alla libertà dell’amore che è la “vera vita”.

            Certo, l’uomo non smette di essere creatura: la sua natura è una natura creata; la sua individualità naturale è corruttibile e mortale. Ma in questa natura creata e mortale Dio ha impresso la “sua immagine”, “ha soffiato un alito di vita” (Gen 2,7), la possibilità della vera vita al di là dello spazio, del tempo e della necessità naturale. Perciò l’individualità biologica di ogni uomo non esaurisce la sua esistenza. Quello che l’uomo propriamente è come realtà di vita, “di vita eterna”, lo si vede nella sua alterità personale che si realizza e si rivela nell’evento della comunione e della relazione con Dio e con i fratelli nella libertà dell’amore. Ogni altra creatura ha il punto di partenza della sua realtà nella volontà di Dio, è una manifestazione dinamica della parola creativa dell’amore divino. L’uomo, però, non trova l’origine della sua realtà semplicemente nella volontà di Dio bensì nel modo nel quale Dio dà vita all’essere e questo modo è appunto l’esistenza personale, la possibilità esistenziale della comunione e della relazione d’amore, cioè la possibilità della “vera vita”. Non è l’uomo una pura manifestazione dinamica della parola di Dio: è una parola di alterità personale, di un amore libero da ogni determinazione. È per questo motivo che l’uomo può accettare o negare il presupposto della sua realtà; può negare la libertà dell’amore e della comunione personale; può dire no a Dio e autoescludersi dall’essere.

            La verità della relazione personale con Dio, positiva o negativa, ma sempre relazione esistenziale, è la definizione dell’uomo, il modo nel quale l’uomo é. Egli è un fatto esistenziale di relazione e comunione, è “persona”: ciò significa (etimologicamente, ma anche concretamente) che ha il volto verso qualcuno o verso qualcosa, è davanti a qualcuno o a qualcosa (“in relazione”, “in rapporto”). La natura umana creata in ogni sua realtà personale è “davanti” a Dio, esiste come rapporto e relazione con Dio.

            La natura umana universale (l’uomo come “tutto”, come specie biologica) può essere definita oggettivamente: ha volontà, ragione, intelligenza, immaginazione, giudizio, eccetera. Ma ogni persona umana vuole, parla, intende, immagina, giudica in modo unico, diverso e irripetibile. Conseguentemente la persona non è un individuo: segmento o parte della natura umana universale. Non rappresenta una relazione della parte con il tutto, ma la possibilità di ricapitolazione del tutto in un’alterità di relazione. L’unicità e la diversità (che sono e sono vissute solo come evento di comunione e relazione) definiscono l’esistenza personale dell’uomo, il modo nel quale l’uomo è.

Christos Yannaras, La libertà dell’ethos

Realizzare la pace, edificare la comunità

Leggi tutto: Realizzare la pace, edificare la comunitàPer capire in che modo possiamo lavorare per la pace perché Dio possa chiamarci suoi figli, può essere utile ricordare cosa vuol dire per Cristo essere chiamato Figlio di Dio. Nel Vangelo di Matteo, Cristo è chiamato “Figlio” due volte, e la voce viene dal cielo: la prima volta lungo il Giordano; la seconda sul monte Tabor. In entrambe le occasioni, sentiamo: “Questo è il mio Figlio amato, in lui mi sono compiaciuto” (Mt 3,17; 17,5). Cristo è il Figlio di Dio perché è in piena comunione con la natura di Dio, pienamente coinvolto nel volere di Dio. Piena comunione significa condividere tutte le risorse di Dio. E pieno coinvolgimento nelle beatitudini significa riflettere la pace e la giustizia di Dio. Anche se la comunione e il coinvolgimento di Cristo portavano alla morte in croce; e anche se ciò significava per lui porsi in diretto contrasto, anzi in contraddizione, rispetto al modo in cui la società intendeva la pace e la giustizia, egli continuò ad abbandonarsi al progetto e alla volontà di Dio.

Forse, allora, è importante smettere di misurare il progresso e il successo nel modo in cui li valuta la società. Il criterio del successo non può essere definito in termini quantitativi: per Cristo la fine è stata la croce, per Giovanni il Battista la fine è stata la decapitazione. Tuttavia, “diventare figli” implica anche qualcos’altro. Realizzare la pace significa edificare la comunità, e la comunità comincia riconoscendo la dignità di ogni persona, che è preziosa agli occhi di Dio. È per questo che, interrogato a proposito della grandezza, Cristo ha indicato un bambino e ha detto: “Se non cambiate [lett.: vi pentite] e non diventate come questo bambino, non entrerete nel regno” (Mt 18,2-3). Questo era un gesto radicale in un tempo in cui ai bambini erano negati i diritti umani e in cui i bambini non avevano accesso alle risorse fondamentali. Per la loro età e per la legge essi erano segregati dal resto della società. Quando oggi sento parlare di tratta dei bambini, mi chiedo quanto ci siamo davvero allontanati.

Certo, “operare la pace” è un lavoro duro. Eppure è la nostra unica speranza di restaurare un mondo in frantumi. Lavorando per la pace, lavorando per guarire l’ambiente, rimuovendo gli ostacoli alla pace, evitando ciò che arma il mondo, possiamo – almeno questo è ciò che ci è assicurato – udire una voce nel nostro cuore che dice: “Questo è il mio amato. Nel mio amato – e in lui, in lei, in te – mi sono compiaciuto”.

John Chryssavgis in Aa.Vv., Beati i pacifici