Pasqua: la verità illumina la menzogna

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La resurrezione di Gesù non è semplicemente il risorgere e l’essere restaurata al mondo della sua identità passata. In modo ugualmente importante, è il “risorgere” dell’identità passata di quanti sono stati con lui. La verità risorta ci rivela gli autoinganni che ci hanno attirato nel vortice della distruttività. “Guarda”, dice il Cristo risorto, “e vedrai che, qualsiasi fossero le tue speranze e i tuoi desideri, tu eri ancora intrappolato in fantasie, nella cecità riguardo a te stesso e alla realtà che ti stava di fronte. Guarda come mi hai messo in trappola e consegnato alla morte. Impara la profondità della tua resistenza alla verità”. E tuttavia quel passato condiviso con Gesù sta ora, nella sua interezza, per essere trasformato: mentre apprendiamo la verità del suo aspetto tragico, apprendiamo anche che alla tragedia è intrecciata la speranza. La verità incarnata, presente nel mondo umano, resta immediatamente, inevitabilmente impigliata nei rigogliosi viticci della fantasia e dell’autoillusione umane. Durante tutto il ministero di Gesù, ci viene ricordato il desiderio dei discepoli, come pure della “moltitudine”, di un salvatore congruente con le loro proiezioni e aspirazioni. Non c’è via d’uscita da questa ragnatela, perché restarvi impigliati è inseparabile dall’essere umani, quella condizione di imperfetta conoscenza e imperfetta comunicazione, combinate con l’impulso a strutturare e sottomettere il mondo e domarne la contingenza. E dunque la verità in questo mondo è una straniera, essenzialmente e profondamente vulnerabile: il suo entrare in rapporto con il mondo o parteciparne comporta rifiuto, crocifissione al di fuori delle mura della città. Purtuttavia essa èentrata nel mondo, si è lasciata mettere in relazione con la sfera della menzogna distruttrice; e anche se rigettata, non può venire annullata. Se il calvario mostra i legami tra verità e menzogna demolendo la prima fin quasi all’estinzione, la Pasqua ci mostra i medesimi legami, la medesima interconnessione del mondo umano, rovesciati, così che la verità attira alla luce la menzogna.

Il nostro rapporto con la verità, con Gesù, ha portato alla croce: il suo rapporto con noi rimane, indistruttibilmente, ad assicurarci che il nostro tradimento non è l’evento definitivo del mondo. Noi possiamo anche tradire, ma quel mondo caratterizzato dal tradimento è ora intrecciato a una realtà incapace di tradire. La fedeltà di Dio ha indossato un volto umano, attraverso il calvario e oltre. La verità incarnata, “resuscitata da morte”, stabilisce tale fedeltà quale fondamento nel mondo di una speranza inesauribile, persino in mezzo ai nostri autoinganni.

Conoscere l’intera portata e l’intero costo della nostra non adesione alla verità, senza esserne mutilati, paralizzati, è ciò che viene offerto dal Cristo risorto: memoria restaurata nella speranza … La nostra identità di traditori restaurati, di nemici accolti, è fondata nell’agire presente di Dio nella comunità cristiana, che mette Gesù davanti agli occhi di quella comunità. Ci vengono offerti tanto un passato quanto un futuro, una vocazione. Quell’assicurazione di grazia futura è implicata nel nostro correlarci con Gesù: man mano che consapevolmente e deliberatamente esplicitiamo il nostro impegno a “essere con Gesù”, lasciando che la sua verità ci restituisca il nostro passato, ci immettiamo nel processo per cui quella “correlazione” umana che è stata resa distruttiva e infida dal nostro autoinganno e dal nostro orgoglio diviene salvifica.

 Rowan Williams, Resurrezione

Nessuno ci priva della misericordia del Signore

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Se ogni anima conoscesse il Signore, se sapesse quanto egli ci ama, non solo nessuno si dispererebbe, ma nemmeno mai si lamenterebbe. Ogni anima che ha perso la pace deve pentirsi e il Signore le perdonerà i peccati e ci saranno allora pace e gioia nell’anima. Non sono necessari altri testimoni, ma lo Spirito stesso le testimonia che i peccati le sono stati perdonati. Ecco il segno del perdono dei peccati: se hai in odio i peccati, significa che il Signore ha perdonato i tuoi …

A chi si pente il Signore offre il paradiso e il regno eterno insieme a lui. Nella sua infinita misericordia non ricorda i nostri peccati, proprio come sulla croce non ha ricordato quelli del ladrone. Grande è la tua misericordia, Signore; chi potrà renderti grazie in modo degno per lo Spirito santo che hai effuso su tutta la terra? Grande, Signore, è la tua giustizia. Hai promesso ai tuoi apostoli: “Non vi lascerò orfani”; noi ora sperimentiamo questa bontà e la nostra anima sente che il Signore ci ama. Chi non lo sente, si penta e viva secondo la volontà di Dio e allora il Signore gli concederà la sua grazia, che guiderà l’anima. Ma se vedi un uomo peccare e non ne hai compassione, allora la grazia ti abbandonerà.

Abbiamo ricevuto il comandamento di amare: l’amore di Cristo ha pietà di tutti, lo Spirito santo insegna all’anima a adempiere i comandamenti di Dio e le dà la forza di compiere il bene. Spirito santo non ci abbandonare! Quando tu sei con noi l’anima sente la tua presenza ed è beata in Dio, poiché tu le concedi di amarlo ardentemente…

A chi è misericordioso il Signore perdona subito i peccati. L’uomo misericordioso non ricorda il male ricevuto. Anche se lo hanno offeso o gli hanno preso ciò che gli appartiene, rimane imperturbabile, perché conosce la bontà di Dio e nessuno può privarlo della misericordia del Signore, perché essa abita nell’alto dei cieli, presso Dio …

Il Signore vuole che amiamo il nostro prossimo; se tu pensi di lui che il Signore lo ama, significa che l’amore del Signore è in te; se pensi che il Signore ama molto la sua creatura e tu stesso provi compassione per tutto il creato e ami i tuoi nemici ritenendo di essere il peggiore di tutti, ciò significa che in te la grazia dello Spirito santo è grande.

Silvano dell’Athos, Nostalgia di Dio. Tutti gli scritti

Perdono: un dono in pienezza

Il dono che giunge alla sua pienezza diventa perdono. Nel testo del Vangelo di Luca è decisivo il perdono di Dio, che già la fede di Israele considerava il “Dio dei perdoni” (cf. Ne 9,17). Per Gesù, il perdono è una sorta di imperativo, è il contrassegno dell’esistenza cristiana: quando, interrogato da Pietro, afferma che si deve perdonare settanta volte sette (cf. Mt 18,22), vuole dire che occorre perdonare sempre. E la missione che affida ai discepoli è proprio quella del perdono (cf. Gv 20,22), quel perdono che lui ha praticato in punto di morte (cf. Lc 23,34). Infatti, come lui, Stefano è morto perdonando i suoi uccisori (cf. At 7,60). “Ora comincio a essere discepolo”, scriveva Ignazio di Antiochia ai cristiani di Roma, mentre si approssimava al martirio. E, in un’altra lettera, raccomandava di pregare per i suoi persecutori. Diventava discepolo nel dono della vita e nel perdono, di cui riconosceva con realismo la fatica …

È qualcosa che va contro tutti i nostri istinti, eppure è una possibilità dell’uomo. Non è detto che si riesca a perdonare, ma può accadere. Addirittura ad Auschwitz, nei gulag, nelle carceri dell’apartheid, così come nella quotidianità dolorosa degli amori feriti. Solo dopo un lungo cammino, però, un vero e proprio lavoro interiore che può durare anni e anni.

Nell’esperienza cristiana è fondamentale la consapevolezza del perdono ricevuto, di essere in primo luogo noi stessi dei perdonati, sempre accolti da Dio. E da lui riceviamo lo Spirito che ci rende capaci di perdono. Il valore personale e sociale del perdono è nell’interruzione delle dinamiche del risentimento che impediscono comunicazione e solidarietà. Non si torna a prima dell’offesa, cosa impossibile in molti casi, ma la si può superare. Si può guarire il veleno del male e del rancore che suscita in noi … Ecco che cos’è il perdono, è il dono della pace che dà sollievo alla rabbia e al dolore per le ferite subite!

E il passo successivo è la “compassione”, la quale nella Bibbia accompagna sempre la misericordia di Dio. Egli si rivela come “misericordioso e compassionevole” (cf. Es 34,6; Sal 85,15; Sal 102,8; Sal 110,4; Sal 144,8-9; 2Cr 30,9; Gen 4,2).

Se la misericordia è il sentimento profondo dell’essere “presi nelle viscere” dall’altro, la compassione è un atteggiamento di condivisione della sua sofferenza. Infatti, secondo la sua etimologia latina, la compassione è il cum-patior, il “soffrire con” la persona che incontriamo, l’essere coinvolti nelle sue sofferenze. Tutto l’opposto di quell’anestesia sociale che ci fa passare accanto agli altri con l’indifferenza che si riserva a delle sagome di cartone. Umanamente, non sempre ci sono soluzioni e rimedi al male. Ma la compassione, il non lasciare una persona sola nella sofferenza è alla portata di tutti. Eppure, oggi sembra così difficile!

Christian Albini, L’arte della misericordia

Un amore che può cambiarci

Leggi tutto: Un amore che può cambiarciNoi possiamo passare tutta la vita a rimproverarci la nostra cattiva condotta in azioni o in parole, i nostri pensieri e i nostri sentimenti tenebrosi, e non per questo emendarci: il rimorso non è ancora pentimento. Il rimorso può fare della nostra vita un vero e proprio inferno, ma non ci fa accedere al regno dei cieli; bisogna aggiungervi un altro elemento, che si trova al cuore del pentimento, e cioè il fatto di volgerci a Dio con la speranza, con la certezza che Dio ha amore sufficiente per accordarci il perdono, e forza sufficiente per cambiarci. Il pentimento è quel tornante della vita, quella svolta nel modo di pensare, quella trasformazione del cuore, che ci fa stare faccia a faccia con Dio pieni di una speranza tremante e gioiosa, nella certezza di chi è cosciente di non meritare la misericordia di Dio, e tuttavia sa che il Signore è venuto sulla terra non per giudicare ma per salvare, che è venuto sulla terra non per i giusti ma per i peccatori.

Volgersi a Dio con speranza, chiamarlo in nostro aiuto, non è sufficiente, perché molte cose nella nostra vita dipendono da noi … Il pentimento deve essere determinato da questa speranza nell’amore di Dio, e da uno sforzo risoluto che ci costringa a condurre una vita retta e ad abbandonare gli errori del passato. Senza questo neanche Dio ci può salvare; infatti, come dice Cristo, non quelli che dicono: “Signore, Signore” entreranno nel regno dei cieli (cf. Mt 7,21), ma coloro che porteranno dei frutti. Questi frutti noi li conosciamo: sono la pace, la gioia, l’amore, la pazienza, la mitezza, tutti frutti meravigliosi (cf. Gal 5,22) che potrebbero già fin da ora fare della nostra terra un paradiso se soltanto, come alberi fertili, riuscissimo a portarli a maturazione...

La prima cosa da imparare è ad accettare tutta la nostra vita, tutti gli eventi, tutte le persone che ci sono entrate, tutto ciò che ha potuto essere a volte fonte di sofferenza. Accettare e non rigettare. Finché non accoglieremo il contenuto intero della nostra vita senza lasciare nulla da parte, come se la ricevessimo dalla mano di Dio, noi non saremo in grado di liberarci da un’angoscia interiore, da un asservimento interiore e da una ribellione interiore. Abbiamo un bel dire davanti al Signore: “O Dio, voglio fare la tua volontà!”, se poi dal fondo del nostro essere s’innalza un grido: “Ma non in questo! Non in quello...! Certo, io sono pronto ad accettare il mio prossimo, ma non quella certa persona! Sono pronto ad accettare tutto ciò che tu mi manderai, ma non quello che mi mandi nella realtà.

Se non accogliamo la nostra vita dalle mani di Dio, se non accogliamo tutto ciò che è contenuto in essa come proveniente da Dio stesso, allora la vita non ci aprirà la strada dell’eternità; continueremo a cercare senza sosta un’altra strada per l’eternità; cercheremo senza sosta un’altra via, mentre l’unica via è il Signore Gesù Cristo.

Anthony Bloom, Ritornare a Dio. Pentimento, confessione e comunione

Uomo nuovo e uomo vecchio: lotta per la libertà e la verità

Si affrontano da un lato lo spirito dell’uomo nuovo nato da Dio e unito allo Spirito santo e, dall’altro, il corpo ribelle con cui l’anima è alleata nell’uomo vecchio. In questa lotta, il vangelo pone i comandamenti e le mosse pratiche che servono a liberare lo spirito dell’uomo nuovo dal dominio del corpo alleatosi con l’anima, i quali insieme formano quell’unica entità che è l’uomo vecchio, l’uomo del peccato, delle passioni, della vanità e della falsa libertà.

Per quest’uomo la propria vita è al centro di tutto: pensiero e opera, amore e odio, mestizia e gioia, pace, timore e gloria e persino la sua devozione, tutto gira intorno a essa. Se opera, è per essere incensato. Se non è lusingato allora detesta l’agire. Se ama, è perché il suo ego ha trovato soddisfazione, gioia e onore. E se il suo ego non è a suo agio e non è onorato, allora odia perché non ha ottenuto ciò che voleva.

Si rattrista allorché viene ferito e soffre perché il suo ego ha smarrito la sua fonte di gioia. Gioisce perché ha portato a compimento la sua passione, ha ottenuto la sua gloria e il suo piacere. È in pace quando le circostanze lo fanno stare tranquillo; s’intimorisce quando perde il senso di sicurezza. Combatte, scende a compromessi, veglia e si impegna per glorificare se stesso; ozia, dorme, smette di sforzarsi e di impegnarsi se all’orizzonte non c’è alcuna gloria da ottenere. Prolunga le sue preghiere, recita salmi a menadito e si applica nelle funzioni religiose per apparire santo e religioso e ottenere l’onore che spetta a Dio. Ma se non c’è alcuno ad ascoltarlo, a guardarlo e a incensare la sua autodivinizzazione, allora ecco che smette di digiunare, accorcia le preghiere, le dice in fretta e si annoia nel recitare il canone. “Per ottenere gloria dagli uomini ... essi hanno già ricevuto il loro premio” (Mt  6,2.16) …

Così Cristo ci dipinge l’ego come il vero nemico, l’unico nemico che ostacola la salvezza dell’uomo e il suo passaggio alla vita eterna. Cristo, infatti, ci ha ordinato di amare i nostri nemici ma ci ha anche ordinato di odiare noi stessi perché egli sa che soltanto odiando se stesso l’uomo può penetrare nelle profondità dello Spirito.

Se l’ego controlla e polarizza tutta l’attività dell’uomo, sia fisica che psicologica e spirituale, nello spirito dell’uomo lo Spirito santo resta imprigionato e spento. Se l’uomo, invece, domina il corpo con le sue passioni, corregge il proprio ego e lo priva di ogni potere abbassandolo fino alla polvere, allora lo Spirito santo sarà di nuovo attivo e radiante, e lo spirito dell’uomo brillerà attraverso il buio del corpo e dell’ego. Allora potrà praticare le opere della luce, gioire della salvezza e vivere per Dio.

L’uomo può scegliere tra la libertà del corpo e dell’ego una libertà, questa, che guida l’uomo verso la corruzione, il peccato e la perdizione eterna oppure limitare, dominare e soffocare ogni libertà che porta alla corruzione e al peccato. Lo spirito sarà allora libero di sprigionarsi e di riflettere la luce. Non si può avere sia la libertà dell’ego alleato con il corpo sia la libertà dello spirito unito allo Spirito santo. Bisogna, dunque, che prima l’uomo vecchio rinunci alle sue opere corrotte e a quella libertà che porta inevitabilmente al peccato di modo che l’uomo nuovo, creato secondo Dio, possa vivere secondo Dio in santità e verità.

Matta el Meskin, La gioia della preghiera

Quaresima: liberazione dal “di più”

Leggi tutto: Quaresima: liberazione dal “di più”Un fratello venne a far visita ad abba Poimen nella seconda settimana di Quaresima, e dopo avergli rivelato i propri pensieri e aver trovato riposo, gli disse: “C’è mancato poco che mi trattenessi dal venire qui oggi”. Gli disse l’anziano: “Perché?”. Disse il fratello: “Mi sono detto: ‘Forse non mi aprirà a causa della Quaresima’”. Gli disse abba Poimen: “Non abbiamo imparato a chiudere la porta di legno, ma piuttosto quella della lingua”.

Un fratello interrogò abba Poimen dicendo: “Che cosa devo fare?”. Gli disse l’anziano: “Quando Dio ci visita, di che cosa dobbiamo preoccuparci?”. Gli disse il fratello: “Dei nostri peccati”. Gli disse l’anziano: “Allora entriamo nella nostra cella e, seduti, facciamo memoria dei nostri peccati, e il Signore si unirà a noi in tutto”.

Lo stesso abba Macario disse: “Se rimproverando qualcuno ti lasci trascinare all’ira, soddisfi una tua passione. Per salvare un altro, infatti, non devi perdere te stesso”.

Disse ancora: “È meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza le carni dei fratelli!”.

Un anziano disse: “Ricchezza dell’anima è la temperanza. Acquistiamola con un pensiero umile, fuggendo la vanagloria, che è la madre dei vizi”.

Un anziano disse: “Nessuno senza fatica acquisisce la virtù; e se anche riesce ad acquisirla, non può custodirla in sé. È infatti a coloro che sono in lutto e hanno fame che è stato promesso il regno dei cieli (cf. Mt 5,3-4.6)”.

Un anziano disse: “Digiuna con senno e diligenza. Bada che il Nemico non minacci il guadagno del tuo digiuno. E credo forse che sia proprio per questo che il Salvatore ha detto: ‘Diventate abili cambiavalute!’, cioè riconoscete con precisione l’impronta del re. Ci sono infatti delle false impronte. La natura dell’oro è la stessa, ma la differenza sta nell’impronta. L’oro è il digiuno, la temperanza è l’elemosina; ma i pagani hanno impresso la loro immagine abusiva su tali pratiche, e tutti gli eretici si vantano di esse. Bisogna riconoscerli ed evitarli come falsificatori. Bada dunque di non subire qualche perdita incappando in loro senza esserti esercitato. Accogli con sicurezza la croce del Signore impressa attraverso le virtù, cioè una fede retta unita ad azioni sante”.

I padri del deserto, Detti. Collezione sistematica

Silenzio: comunicare altrimenti

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Il silenzio non è assenza di comunicazione, ma un altro modo di dire, di comunicare, e per questo rimane in una irrinunciabile correlazione con la parola. Il silenzio non è l’opposto della parola, ma è il contesto in cui la parola si iscrive, ciò che la contiene, appunto. È, per utilizzare un’immagine, il foglio bianco su cui la parola si staglia e che dà spessore al colore della parola. C’è tra la parola e il silenzio un doppio rapporto che li vivifica entrambi: si passa continuamente dal silenzio alla parola e dalla parola al silenzio. Essi si custodiscono a vicenda: il silenzio precede e segue la parola; esso è sempre “al di là della parola o in attesa della parola, ma comunque in relazione dialettica con la parola stessa”.

Innanzitutto il silenzio è ciò che genera la vera parola, è come il primo atto della comunicazione. Il silenzio, poi, custodisce e dà spessore alla parola. È un’occasione di interiorizzazione, insegna ad amare la parola detta o che vorremmo dire, “insegna ad amare la parola pensata”. Infine, il silenzio ricorda che la parola umana resta comunque limitata: non tutto può essere detto, e a volte non si può che tacere.

Il rapporto è però reciproco: se la parola ha bisogno del silenzio, anche quest’ultimo ha bisogno della parola. La fecondità del silenzio, la sua efficacia, è nella sua capacità di fare spazio alla parola che lui stesso poi deve portare e spiegare. Se il silenzio non si fa attenzione, tensione verso la parola, accoglienza, rischia di trasformarsi presto in luogo sterile. Tra il silenzio e la parola si deve instaurare una sorta di antagonismo, in cui nessuno dei due deve prevalere sull’altro e, istante dopo istante, sarà necessario chiedersi a chi dei due tocca, in quel frangente, avere la meglio, secondo quella regola aurea che Gregorio di Nazianzo ci offre laddove dice: “Parla solo se hai da dire qualcosa che valga più del silenzio”. E un detto della tradizione sufi sembra fargli eco: “Se la parola che stai per pronunciare non è più bella del silenzio, non dirla”.

Il prodigio del silenzio è giungere a parlare tacendo, a essere espressivi senza usare le parole, ad avere una vita silenziosamente eloquente … Il silenzio è un modo diverso di comunicare e, più in profondità, un modo diverso di essere... e di vivere. I padri del deserto l’avevano ben compreso quando consideravano il silenzio una forma di estraneamento. Il silenzio è quel linguaggio per cui, in un incontro, uno sguardo potrà bastare a dire ciò che le parole non possono più dire. È l’esperienza degli innamorati o degli amici.

Il silenzio affina lo sguardo e rende eloquenti i volti. Questi si fanno un invito costante rivolto all’altro perché venga a noi e dimori presso di noi; esprimono desiderio e attesa dell’incontro.

Il silenzio è in definitiva uno scambio di presenze, anziché di parole. Nulla più di uno sguardo o di un gesto silenzioso a volte sa narrare l’amore per una persona. Ricordiamo anche l’episodio dell’unzione di Betania (cf. Mc 14,3-9), dove una donna, senza proferire parola, si avvicina a Gesù e gli unge il capo di olio profumato. I discepoli parlano e protestano contro di lei, e anche Gesù parla per difenderla; la donna, invece, non dice una parola, neppure per difendersi dalle accuse: il suo gesto è più che eloquente, e non è possibile dire di più, neppure per spiegarsi di fronte a chi non l’abbia compreso... Essendo un linguaggio discreto, infatti, il silenzio a volte ingenera il timore che esso non venga compreso, che sia inefficace. Ma si tratta di una paura infondata, poiché ciò che è vero, anche se discreto, prima o poi è compreso. Se il linguaggio che usiamo ha in sé vita, anche se silenziosa, questa a suo tempo si rivelerà.

Il silenzio autentico è in definitiva un altro linguaggio; non è vuoto, incapacità di parlare o rifiuto; tutt’altro! Esso è abitato da una parola viva e vivace, che attende di essere detta, ma in altro modo; per questo, il silenzio vero è pregno di attenzione, di tensione e di accoglienza.

Sabino Chialà, Silenzi. Ombre e luci del tacere