Ascensione: aurora che rischiara

Leggi tutto: Ascensione: aurora che rischiara

Come conosciamo il Signore? Chi è veramente per noi Gesù? Egli ci sembra sempre lontano, assente. Non è affatto evidente nelle nostre vite: non lo vediamo, non lo udiamo, non lo tocchiamo. E in fondo cosa accadrebbe anche qualora potessimo vederlo, udirlo, toccarlo? Egli sarebbe al di fuori di noi, sarebbe altro. Certo, lo è, ma lo sarebbe in maniera impenetrabile. E allora, rimarremmo nella nostra solitudine, nella nostra scissione. La miglior prova di questo è che gli altri non sono lontani, non sono assenti: li vediamo, li udiamo, li tocchiamo, eppure restano impenetrabilmente al nostro esterno, e ciascuno va avanti pian piano ma risolutamente nella propria solitudine e nella propria scissione. Se comprendessimo questa evidente realtà, comprenderemmo anche che il nostro Dio non sta sulle nuvole. L’immagine del “cielo” che viene spesso impiegata, soprattutto ai nostri giorni, è l’immagine di questo meraviglioso “Altro” che è il Dio vivente, il quale tuttavia non è altrove: è qui, eppure è totalmente altro. E comprenderemmo pure che il nostro Dio non è al di fuori della nostra condizione umana: è realmente in mezzo a noi, si è fatto carne. Quello che oggi siamo chiamati a contemplare è la meraviglia dell’uomo trasformato in lui. Questa festa dell’Ascensione è la grande festa della sua verità, di quella verità verso la quale lo Spirito di verità cerca incessantemente di condurci (cf. Gv 16,13), una verità insondabile, inesauribile, come l’amore con cui siamo amati: è la verità della sua condizione carnale, umana, umile … Egli è veramente colui che possiamo raggiungere e toccare al di là di ogni contatto, che possiamo ascoltare al di là di ogni suono, che possiamo vedere al di là di ogni visione. Perché? Perché si è abbassato fino ad assumere la nostra condizione, e la nostra condizione di schiavi: fino alla morte, e fino in fondo alla nostra morte. È questo che continua a scandalizzarci, che non sale dal fondo del nostro cuore, che non assomiglia a nulla di ciò che conosciamo. Ecco allora perché, in questa ascensione del Signore, nella sua esaltazione, c’è per noi un capovolgimento necessario da operare. Il Signore, infatti, non è lontano, non è assente. Lo si vede, lo si ode, lo si tocca. Egli è dentro di noi, non è altro. Ci penetra e noi siamo in lui. Non vi è più né solitudine né scissione.

Questo capovolgimento sta nel fatto che ciascuno di noi in verità può scoprire che la propria umanità non è più soltanto la propria. Nei suoi più piccoli dettagli, in tutte le sue pieghe, anche in quelle minime, nelle sue complicazioni o nelle sue piccole illuminazioni, la mia umanità è quella di Cristo. È lui ad assumerla, a farla sua. E io posso vederlo e scoprirlo solo perché la sua presenza sale, come il sole dell’ascensione, come un’aurora che rischiara a poco a poco anche il più piccolo anfratto della nostra terra, e che illumina da dentro questa dimora del Dio vivente costituita da ciascuno di noi.

La mia umanità non è più mia, è sua. Allora io chi sono? Che cosa sono? Ebbene, è la sua meraviglia, la sua divinità diremmo in termini tecnici, è la sua meraviglia a diventare la mia vita. Ecco lo sradicamento, la lacerazione necessaria della croce e della morte per passare alla vita: non essere più se stessi ma diventare lui, perché egli non si appartiene più ma ormai appartiene a noi. “Non sono più io a vivere”, dice Paolo, e ciascuno di noi è chiamato a riscoprirlo, “ma è Cristo che vive in me”. In fondo, il nostro capovolgimento non è altro che il movimento mediante il quale il Verbo adorabile del Padre è diventato nostro una volta per tutte; è il movimento stesso della sua umiliazione, di quell’umiltà che ci fa diventare grandi, di quell’abbassamento attraverso il quale veniamo innalzati. Ecco la verità compresa in ogni istante dell’ascensione del Signore. Noi viviamo la sua ascensione solo nella misura in cui viviamo la sua umiliazione.

Il Signore non è lontano, egli è presente istante dopo istante, nelle nostre umanità. È altro da noi, certo, è Gesù, senza confusione, ma è la nostra umanità ad esser diventata sua … La nostra vera vita è nascosta nel Padre. È là che diverremo noi stessi se acconsentiremo a essere trasformati. È là che il nostro essere diverrà come una domanda, una richiesta essenziale, un gemito che raccoglierà in sé tutte le invocazioni degli uomini; un gemito che, mettendoci in comunione con gli altri, farà del nostro respiro secondo lo Spirito una continua intercessione.

Jean Corbon, La gioia del Padre. Omelie per l’anno liturgico dall’evangelo secondo Luca

Resurrezione: speranza resa possibile

Leggi tutto: Resurrezione: speranza resa possibile

La resurrezione è al cuore della storia, è il fondamento della fede, la realtà più essenziale e indispensabile che dà consistenza a tutto il resto, senza la quale tutto va a fondo. Nel contempo, sembriamo però aver paura della resurrezione: è troppo bello o troppo difficile o troppo lontano. Abbiamo paura di parlarne. E tuttavia se ne parliamo in modo sentito, con passione, l’essere umano si apre e il suo sguardo si illumina. Infatti l’essere umano ha dentro di sé una sete profonda di vita, di resurrezione, di assoluto. L’essere umano ha bisogno di un linguaggio pasquale, ha bisogno di farsi uno sguardo pasquale, ha bisogno della resurrezione di Cristo. E non soltanto, ma ha bisogno di sentire e provare la resurrezione di Cristo come una realtà vissuta e dunque possibile, verificabile a partire da una testimonianza, da una vita, dalla realtà concreta di tutti i giorni. L’essere umano ha bisogno di verificare nell’altro la verità della resurrezione di Cristo. Ha bisogno di scoprire e di sentire la speranza come qualcosa di possibile, perché qualcosa di vissuto. Ha bisogno di fare questa esperienza esistenziale della resurrezione di Cristo per interessarsi alla vita e alla propria resurrezione. Non sono i discorsi, né le parole a insegnarglielo … Ora, se c’è un luogo in cui il discorso deve cedere il posto alla realtà vissuta è proprio nell’eucaristia compresa come centro di resurrezione. È senza dubbio importante che l’eucaristia sia la manifestazione del Risorto nel segno del pane e del vino ma, in modo ancora più reale, sia luogo di resurrezione, cioè la manifestazione del Risorto nel segno dell’essere umano, nella sua azione, nella sua vita. Perciò è necessario che l’eucaristia fondi un senso, generi la vita, infonda la vita nell’essere umano, nella sua miseria, nella sua quotidianità, nella carne della sua esistenza. Qui si trova la verità, la verità del Risorto.

Se dovessi dire in poche parole che cosa è per me la resurrezione, direi che è quella realtà senza la quale la mia vita sarebbe priva di senso, una realtà che dà senso a tutta la mia vita e all’essere umano. È la capacità di sperare. Ancor meglio: è la speranza resa possibile; è una speranza audace. E ciò perché Gesù ha vissuto in sé l’intero dramma della morte, lasciandola entrare dentro di sé in tutto il suo orrore, per svuotarla di ogni senso e di ogni contenuto di morte, per fare sorgere dentro quella morte e nella sua totalità tutta la realtà della vita, così che davvero la morte non esista più, non abbia più consistenza … È stata costituita per sempre realtà dell’inutile o dell’assurdo. Ogni morte per avere senso non può che essere generatrice di vita. In questo senso è necessaria e indispensabile, come passaggio obbligato o come dono e accoglienza della vita. Sarà sempre possibile dar senso alla morte aprendola a una pienezza di vita. Questa pienezza di vita è sempre una ritirata delle potenze di morte. È quello che Cristo ha realizzato in sé, alla perfezione, in modo assoluto, una volta per tutte. Questo ci permette di sperare e di vivere la resurrezione oggi niente affatto come un mito o come una realtà semplicemente futura, ma come una presenza che non cessa di essere attiva, perché realmente vera e feconda.

Raymond Johanny, L'eucaristia, cammino di resurrezione

La speranza ha risposto

Leggi tutto: La speranza ha risposto

Dio non viene all’“umanità” in astratto; il perdono chiama in causa un passato particolare. La grazia non crea un futuro “astratto”: la nuova identità della vita nello Spirito rimane singolarmente particolare. Paolo lo spiega in termini di diversità dei doni dello Spirito (cf. 1Cor 12,4-30), una visione di complementarietà nella quale vita comune e vocazione particolare non costituiscono una minaccia l’una per l’altra. La nuova identità viene specificata come un occupare un posto unico, “non trasferibile”, nella comunità, e il legame interno alla comunità è mantenuto dalla comunicazione e dallo scambio della grazia tra questi punti unici. Potremmo dire che la comunità vive nello scambio non solo di carismi, ma di storie, di memorie. Il mio passato particolare si pone, nella chiesa, come una risorsa per le mie relazioni con i fratelli e le sorelle. Il mio carisma, il dono consegnatomi perché lo offra alla comunità, è il mio io, in definitiva; la mia storia ritornatami per darmi un posto in quella rete di scambio, la ragnatela di doni, che è la chiesa di Cristo. Il mio io esiste per essere dato via nell’amore, non perché sia privo di valore, ma perché è sommamente prezioso, perché mi è offerto dalla mano di quel Dio che mi ritorna la mia memoria. A partire dalla mia vicenda, lo spirito di Gesù risorto costituisce le mie possibilità attuali di comprensione, compassione e condivisione di me stesso. La mia identità di persona che ama nella comunità ha il colore particolare degli amori in cui ho già lottato, fallito, imparato e mi sono pentito: essi compongono il motivo per cui il mio amore attuale è in questa “chiave” o “modalità” piuttosto che in altre, l’irriducibile specificità del mio dono.

“Ama il tuo prossimo in quanto te stesso”: ama in quella modalità che emerge dal passato che è tuo e di nessun altro, partendo da quel processo in cui hai imparato ad accettarti. Comincia a vedere il tuo io come un dono, amalo come un dono, dalla mano di Dio, e impara come anche il prossimo sia un dono, per se stesso o se stessa, e per te. L’umanità “caduta” è come una catena di mutua deprivazione, furto con scasso: qui ora vediamo come l’umanità “redenta” rovesci questo sistema in una catena di mutuo dono, scambio di vita. E il perno è apprendersi come dono, permettendo che esso venga ritornato – per quanta sia, all’inizio, la pena o la vergogna – dal Cristo risorto, udendo il proprio vero nome dalle sue labbra.

“Gesù le disse: ‘Maria’. Lei si voltò e gli disse in ebraico: ‘Rabbunì’ (che significa maestro)” (Gv 20,16). Qui, con rara intensità e sobrietà, Giovanni riunisce per noi i momenti del riconoscimento (o ricordo) di sé e del riconoscimento (o ricordo) di Dio … A Maria viene offerto il suo nome, la sua identità, il nome che la specifica come quella persona con quella particolare storia. E in tale contesto, il proferimento del nome ristabilisce una relazione di fiducia e riconoscimento: Maria improvvisamente vede l’estraneo come colui che in passato l’ha chiamata per nome, ha accettato e affermato la sua identità …

Ma se la speranza, pur mortalmente ferita, è ancora capace di volgersi indietro verso il corpo abbandonato, c’è ancora una scoperta da fare … Quando egli la chiama per nome, lei “si volge” un’ultima volta verso il riconoscimento: Rabbouní; lei, “essendosi volta”, lei “colei che si è volta”, ancora e ancora, verso una speranza sempre più fievole, scopre ora che la speranza ha risposto. Volgersi, sempre daccapo, al nome, alla figura, al ricordo di Gesù, anche quando non può che sembrare astratto e remoto, sfocia quantomeno nel sapere con assoluta chiarezza che è ancora lui a chiamarci alla nostra singolare identità … La conversione è il rifiuto di accettare che la perdita sia la definitiva verità umana. Come qualcosa che cresca sottoterra, anche noi contestiamo il buio e ci spingiamo ciecamente verso l’alto in cerca di luce, verità, casa: ovvero il luogo, la relazione in cui non siamo perduti, in cui possiamo trarre vita da radici che affondano profondamente nella sicurezza. Maria ritorna ciecamente alla tomba, e trova il proprio io, la propria casa, il proprio nome. Maria non è morta perché Gesù non è morto.

 Rowan Williams, Resurrezione. Interpretare l’evangelo pasquale

Il trionfo della vita

Leggi tutto: Il trionfo della vita

La resurrezione di Gesù non è un evento specifico riguardante solo la sua persona e la sua sopravvivenza. È l’evento che dà senso alla nostra storia e al nostro mondo. Esso introduce nell’evoluzione una breccia che rivela il suo trovarsi interamente sotto il segno dell’amore di Dio. Si possono discernere nel cosmo dei segni che annunciano la disgregazione dell’universo, ma non si può dubitare dell’avvenire di un mondo di cui fa parte il corpo di Cristo risorto. I legami che ci uniscono a lui non permettono che noi abbiamo un avvenire diverso … Niente potrà separaci dall’amore di Dio tranne il mistero della nostra libertà, perché l’amore non si comanda ed esige una libera risposta; ma allora, separandoci da Dio che è la vita, creiamo il nostro proprio nulla.

Non è soltanto l’avvenire del nostro mondo, ma anche il nostro presente che è implicato dalla resurrezione di Cristo. Già oggi essa è vittoria sulla morte, è denuncia da parte di Dio di tutte le forze di distruzione. Al cuore della nostra storia Dio si è manifestato come colui che assicura il trionfo della vita, dell’amore e del perdono sulle forze del male. Messo a morte in odio a tutto ciò che rappresentava, Gesù nella sua resurrezione consacra la vittoria di un’umanità che ha fatto fiducia al Padre e alla riuscita del suo progetto di divinizzazione dell’uomo. A questo punto appare in piena luce quello che potrebbe essere il nostro fondamentale peccato: il rifiuto dell'avvenire che Dio ci offre

Quando noi pensiamo alla nostra resurrezione la situiamo spontaneamente alla fine dei tempi: e tuttavia, c’è continuità fra il nostro oggi e l’eternità cui Dio ci chiama. Il che significa che ci devono essere nelle nostre vite delle esperienze di morte e di resurrezione tali da aiutarci a intravedere l’avvenire che Dio ci mette davanti …

Nelle nostre vite noi siamo confrontati a delle morti parziali che vengono a minare il nostro orgoglio e la nostra sufficienza; anche noi possiamo conoscere momenti di solitudine e di agonia in cui tutto sembra abbandonarci. Non possiamo allora far altro che ripetere a nostra volta: “Se è possibile, passi via da me questo calice!”. E forse per molto tempo sarà questa l’unica nostra preghiera. Se abbiamo il coraggio di proseguire e di arrivare a dire: “Se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà”, potremo allora rialzarci e sarà come una resurrezione

“Voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io” (Gv 17,24). Di fronte a quest’appello alla resurrezione non siamo del tutto sprovvisti di esperienze che ci permettano di percepire come per anticipazione a quale rinascita ci chiama la nostra speranza. La nostra personale esperienza e quella dei santi ci offrono dei segni tangibili della potenza dello Spirito che trasfigura le nostre vite.

 Michel Rondet, Chiamati alla resurrezione

Fratellanza e sorellanza

Leggi tutto: Fratellanza e sorellanza

La “rivoluzione della tenerezza”, di cui parla papa Francesco, inizia naturalmente nel mezzo delle nostre relazioni quotidiane, ma riguarda poi soprattutto in modo del tutto specifico l’altro, e cioè chi è “fragile” o “debole”, gli esclusi e la terra. La fraternità si traduce qui in forma assolutamente concreta in un impegno per l’“inclusione sociale dei poveri” e per l’“ecologia integrale”; nella Laudato si’ papa Francesco parla pertanto anche di “fraternità universale”.

Una simile traduzione richiede il dialogo sociale … capacità di ascolto che è il nucleo di una mistica della fratellanza e sorellanza. Infatti senza un simile ascolto e una correlata visione contemplativa, senza un simile vedere e ascoltare che non si accontenta di analizzare la situazione, ma sempre di nuovo da capo osa “trasformar[la] in sofferenza personale” (LS 19), non è possibile un agire etico di lunga durata … “Sorellanza e fratellanza” sono in gioco affinché la complessa varietà pentecostale possa trasformarsi in unità e totalità; cosa che tuttavia riesce soltanto se tale fratellanza si radica contemporaneamente nello spazio delle nostre relazioni quotidiane e nell’amore di Dio che cerca la felicità degli altri. Non un approccio unidimensionale, ma soltanto unafine sensibilità stilistica e un pensiero stilistico possono svelare, approfondire e trasmettere questa mistica nascosta nella “fratellanza e sorellanza”.

La riforma della chiesa, ardentemente desiderata da papa Francesco, si basa su queste pochissime e in fondo semplici caratteristiche protocristiane. Come mostra il primo capitolo della Evangelii gaudium, l’“uscita da sé verso il fratello” che costituisce la fraternità è il movimento fondamentale spirituale-pneumatico che definisce essenzialmente non solo la chiesa e i “discepoli missionari”, ma anche il nucleo di ogni umanità. Soltanto se si cerca di vivere tutto ciò in modo credibile internamente alla chiesa, esso può anche venire scoperto e stimolato come già presente nello spazio della società e recepito come richiesta profetica del cristianesimo, rivolta tuttavia sempre anche al cristianesimo.

Se la mistica della fraternità inizia con la percezione e l’ascolto dell’altro, di ciò che è fragile ed escluso, nella chiesa questo si mostra nel fatto che tutti possono partecipare al dialogo di fede … Qui si colloca il punto saliente di una vita ecclesiale in stile nuovo: papa Francesco fa chiaramente capire che il senso della fede vale anche per coloro che non trovano parole e non dispongono degli strumenti adeguati per esprimere con precisione la loro esperienza di fede, ma colgono intuitivamente le “realtà divine” per una “certa connaturalità” con esse.

L’“uscire da sé verso gli altri” non solo caratterizza propriamente una dinamica cristiana indotta dalla sacra Scrittura, ma costituisce il nucleo dell’autentica umanità. Pertanto parlo anche di un processo in cui la chiesa viene interrogata rispetto alla sua umanità: soltanto se essa assume e ascolta davvero queste richieste, può rivendicare profeticamente tale umanità anche nella società, e mai senza altri attori. Per la prima volta nei testi di papa Francesco ci si congeda in questo modo definitivamente dal rapporto classico tra chiesa e società a favore di una fraternità mai garantita, sempre minacciata dalla violenza e da realizzare ogni volta di nuovo. In primo piano non sta dunque la questione della verità (anche se questa non è mai esclusa); infatti, al posto di un’autodifesa apologetica, la chiesa offre risorse spirituali molto specifiche, con le quali le nostre società, proprio qui in Europa, potrebbero superare le crisi che le scuotono. La chiesa viene in questo senso intesa per così dire come “rabdomante” missionaria che rintraccia con sensibilità spirituale ciò di cui si parla nel vangelo come già presente nell’altro.

Christoph Theobald, Fraternità. Il nuovo stile della chiesa secondo papa Francesco

La debolezza di Dio: amarci

Leggi tutto: La debolezza di Dio: amarci

Dio, nel suo amore, ha sempre avuto un unico progetto per l’uomo, un progetto di vita beata. Creandolo a sua immagine, lo destinava all’immortalità, cioè alla partecipazione della sua vita eterna: così l’avevano compreso i padri della chiesa.

Tuttavia, nato dalla terra, l’uomo era sottomesso alla morte che assoggetta tutto ciò che comincia a essere; egli non poteva entrare in Dio se non a condizione di rinascere dall’alto (cf. Gv 3,3), se l’accettava liberamente. Come ci ha creati tutti in Cristo, per mezzo di lui e in vista di lui (cf. Col 1,16), così Dio ha deciso da sempre di strapparci alla morte e di aprirci un accesso fino a lui attraverso la resurrezione di Cristo, di cui aveva previsto che la perfetta obbedienza al suo disegno di amore avrebbe effuso la sua grazia sulla moltitudine degli uomini (cf. Rm 5,15.19).

La resurrezione di Cristo dispiega dunque la sua potenza di liberazione dalla morte nella storia umana fin dal suo inizio; essa è inserita nell’immagine di Dio che noi portiamo come una chiamata, una promessa, un pegno, una grazia, un dinamismo che apre lo spirito dell’uomo su un’alterità assoluta, che orienta le sue scelte di vita verso una trascendenza infinita, che sollecita la sua libertà nel senso del disegno creatore. La salvezza secondo la Scrittura è vista come una storia d’insieme, un’opera globale: è la vittoria della vita sulla morte, che è il senso della creazione; è la riuscita del disegno divino relativo all’umanità in quanto totalità … Il disegno del Dio insieme creatore e redentore, padre comune degli uomini, ha racchiuso questa solidarietà in uno solo, nell’evento indivisibile dell’uomo Gesù, la cui resurrezione lotta vittoriosamente contro il peccato fin dall’origine dei tempi e la cui morte rigenera il mondo fino alla fine dei tempi. La fede che associa morte e resurrezione all’atto creatore restituisce fiducia nella salvezza del mondo …

Il peccato è ogni sottrarsi o resistere al disegno di Dio, è tutto ciò che deteriora e divide l’immagine di Dio che tutti noi portiamo in modo solidale, e poiché questo disegno è il nostro bene e la nostra felicità, e questa immagine è la nostra dignità e la nostra unità, Dio si ritiene offeso da tutto ciò che attenta al bene e alla felicità degli altri, alla dignità e all’unità dell’umanità. Noi non avremmo il potere di offendere Dio se egli non avesse la debolezza di amarci; il peccato è la rottura della solidarietà tra coloro che Dio ama di un unico e medesimo amore. Ecco perché l’evangelo erige l’amore del prossimo all’altezza dell’amore di Dio (cf. Mt 22,39) e mostra nel perdono delle offese e nell’amore anche nei confronti di coloro che ci fanno del male la conformità suprema al comportamento di Dio creatore verso le sue creature, che egli ritiene tutte ugualmente suoi figli: “Amate i vostri nemici ... per essere figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti ... Voi dunque siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste (Mt 5,44-45.48).

Joseph Moingt, Gesù è risorto! Storia e annuncio

Qualcosa di non noto!

Leggi tutto: Qualcosa di non noto!

Questo, è il corpo. Una parte del corpo, un corpo affaticato e indebolito. Il piede, corpo con incrostazioni di fango e di escrementi, corpo insudiciato dal contatto con il suolo polveroso della Palestina. Lavare il piede, si tratta di ciò che sta in basso, di ciò che tocca fare all’inferiore, al subalterno, allo schiavo, anche alla donna, in una gerarchia indiscussa e indiscutibile, che per il racconto di Giovanni il Teologo viene a “sollecitare” – nel senso di scuotere, di agitare –.

Se nel racconto sinottico dell’ultima cena Gesù dice: “Questo è il mio corpo”, qui il Vangelo di Giovanni mostra il corpo. A cominciare da quello di Gesù, che viene esibito, letteralmente messo a nudo. Carne consegnata, prima della sua morte. Sì, alla lettera, Gesù nudo, Gesù denudato, o meglio – e questo diventa decisamente scioccante – Gesù che si denuda. Là dove, durante l’ultima cena, il Gesù dei sinottici diceva: “Questo è il mio corpo”, il Vangelo di Giovanni sembra dire: “Questo, è il corpo”, e mostra quel corpo. Ce lo mette sotto gli occhi, in modo tale che lo spessore del corpo sia percepibile dai sensi, che rientri nella sfera sensibile.

Il corpo nudo del Figlio di Dio che si offre allo sguardo, quel corpo nudo sarebbe forse ancora tollerabile se si limitasse a fare questo: mostrarsi. Ma no, tocca pure. Lava. Lava dei piedi e li carezza … Gesù non riprende, di fatto, una prassi già consolidata? Non compie un gesto privo di significato particolare, che corrispondeva a una semplice attenzione igienica – si rammenti che a quel tempo ci si spostava in sandali, su strade fangose –, e che inoltre esprimeva l’accoglienza? Volendo... è un’interpretazione possibile. Tuttavia non bisogna dimenticare un dettaglio dell’episodio raccontato da Giovanni.

Il testo afferma che Gesù si alzò “durante la cena” (Gv 13,2), dunque al cuore del pasto, per lavare i piedi dei discepoli... Si tratta qui di un modo di procedere a dir poco singolare. I piedi degli invitati si lavavano al loro arrivo e non a metà pasto. A questo scarto dalle consuetudini ne segue un altro, sul quale generalmente tutti insistono molto: il Maestro qui prende il posto dello schiavo (o della donna) e procede personalmente alla lavanda dei piedi. Ma il primo scarto, che riguarda il momento insolito in cui il gesto viene compiuto, non è meno rilevante: esso spiazza il lettore rispetto alle sue aspettative e lo porta a chiedersi quale significato abbia ciò che sta avvenendo e che manifestamente non si inscrive nell’ordine del già noto (cioè la lavanda dei piedi come prassi igienica e come gesto di accoglienza).

Se la scena della lavanda dei piedi, nel Vangelo di Giovanni, evoca e rende presente quell’orizzonte conosciuto, essa non si esaurisce in esso … È stupefacente il fatto che Gesù, non soddisfatto di compiere un gesto così singolare e, per certi versi, scioccante, abbia anche inteso istituirlo come prassi comunitaria: “Vi ho dato un esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi” (Gv 13,15). Gesù ha compiuto un gesto, poi ha chiesto che si continuasse a farlo dopo di lui; ha lavato i piedi dei discepoli, arrischiando un atto che non poteva non assumere un carattere enigmatico, e poi ha comandato ai discepoli di fare lo stesso, sul suo esempio, alla sua maniera.

 François Nault, La lavanda dei piedi