Fede ad arte

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Tutte le immagini hanno uguale importanza? Assolutamente no. Alcune meritano di essere difese a qualunque costo dai cristiani, in quanto esprimono o ricapitolano ai loro occhi, in modo efficace e sintetico, quello che va professato e vissuto. Altre potrebbero essere tralasciate, e non sarebbe una grande perdita. Mi pare illuminante, comunque, lasciarsi guidare nel caso specifico da una delle più audaci innovazioni del concilio Vaticano II, nel quale si è parlato di “gerarchia delle verità”, “essendo diverso il loro nesso con il fondamento della fede cristiana”.

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L’anima della vita

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Con questa somiglianza il Nome benedetto ha creato l’uomo, e l’ha fatto dominare su miriadi di forze e su mondi senza numero. Li ha consegnati in suo potere perché li reggesse e dirigesse secondo i più piccoli movimenti delle sue azioni, parole e pensieri, e secondo i vari aspetti delle sue direzioni, sia verso il bene sia verso il suo contrario (non sia mai!). Poiché con le sue azioni, parole e pensieri buoni l’uomo sostiene e rafforza molte potenze e i santi mondi superiori, aggiungendo loro santità e luce, come sta scritto: “Porrò le mie parole nella tua bocca … per spiegare i cieli e fondare la terra” (Is 51,16). O, come hanno detto i nostri maestri: “Non leggere tuoi figli (banajikh) ma tuoi costruttori (bonajikh)”, perché essi mettono in ordine i mondi superiori, come un costruttore mette in ordine la sua casa, infondendo loro una grande forza.

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La chiesa ortodossa: tradizione e riforme

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La chiesa ortodossa ritiene di essere fedele alla tradizione apostolica e patristica. Essa situa se stessa nella continuità ininterrotta della chiesa primitiva, essa perciò non manca di ricordare continuamente di aver preservato inalterata e senza cambiamenti, sia nella lettera che nello spirito, la tradizione ereditata dai sette concili ecumenici del primo millennio e dai padri della chiesa indivisa …

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Chiedere perdono per costruire pace e giustizia

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Chi chiede perdono, e perché? A chi spetta concederlo? Per un cristiano, la richiesta di perdono per colpe commesse dai suoi “padri” non è frutto di una “strategia”, non è un’arma da usare per ottenere altrettanto dall’avversario, non è una sorta di “patteggiamento di pena”, ma è l’espressione di una consapevolezza, di una convinzione profonda che, illuminata dalla parola di Dio, porta a esclamare: “Anch’io e la casa di mio padre abbiamo peccato” (Ne 1,6), nasce da una convinta solidarietà con le generazioni che lo hanno preceduto nella fede e nella testimonianza cristiana. Nessun calcolo, quindi, nessun soppesare l’efficacia di una dichiarazione, nessuna pretesa di contraccambio, ma il dar voce a un cuore contrito, il sentirsi parte di una comunione di santi e di peccatori.

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Il poema della luce

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Se nella Bibbia la luce è legata al genere letterario del racconto, lo è altresì a quello della poesia. Vi è infatti qualcosa del mistero della luce, e soprattutto del mistero biblico della luce, che può dirsi solo poeticamente. La potenza della poesia è tale che, nello spazio e nel reticolo di qualche parola, un mondo si dischiude sotto i nostri occhi. Così il versetto 10 del salmo 36: “È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce”. Così Dio è la vita sotto la vita, l’acqua viva sotto la vita. O meglio, come si aggiunge nella seconda parte del versetto, è la luce della luce. Vedere la luce creata significa partecipare al dono di un Creatore che è lui stesso luce. Solo la poesia può osare una tale scorciatoia espressiva. Noi ci troviamo fra luce e luce, noi che “vediamo.

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Vedere più lontano

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I sensi resterebbero impotenti a metterci in movimento se un desiderio non li legasse al loro oggetto. La Bibbia presenta l’uomo come un essere di desiderio, assetato di felicità, assetato di Dio. Il desiderio è il motore che permette all’uomo, nel corpo e con il suo corpo, di innalzarsi a Dio, che è l’“oggetto” ultimo della nostra concupiscenza: “Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore non ha riposo finché non riposa in te”, canta Agostino. Massimo il Confessore non esita a dire che il desiderio dell’uomo troverà pace solo nel godimento di Dio, nell’esperienza sensibile di lui. Tale affermazione − che si radica nell’insegnamento della Bibbia − evidenzia l’unità fondamentale della persona chiamata, nella sua anima e nel suo corpo risorto, a godere di Dio. Dunque anche i sensi dell’essere umano non sono fatti per le mezze misure: così come il suo desiderio e la sua capacità di godimento, essi sono proporzionati a Dio. È appunto a livello di vocazione, questa nobilissima vocazione dei sensi corporei nel disegno di Dio, che si definisce il dramma del loro uso improprio. Se gli esseri umani si chiudono nel proprio godimento, scambiano i mezzi per il fine e si può allora dire con Paolo che “il ventre è il loro Dio” (Fil 3,19). È in questa capacità illimitata di bene o di male che risiede il bel rischio dell’uso dei sensi. Per questo è sempre necessario operare un discernimento. Bisogna distinguere due livelli: quello del corpo e della sensibilità da una parte, che aprono l’uomo all’incontro con l’altro e lo portano a compiere la sua vocazione, e quello della “carne” e della sensualità dall’altra, che possono rinchiuderlo nel godimento immediato e incentrato su di sé. Per non aver saputo discernere a sufficienza questi due livelli, talora si è confuso in modo grottesco − sia nella chiesa che fuori − ciò che aveva a che fare con il corpo con ciò che aveva a che fare con il peccato. È pur vero che il vocabolario del Nuovo Testamento stesso può apparire confuso. Quando si parla di “carne”, si parla della carne di Cristo (“Il Verbo si fece carne”: Gv 1,14), cioè di questa umanità nella sua condizione fragile di creatura, umanità che in Cristo diventa strumento di salvezza; o della “carne di peccato”, realtà astratta distinta dal corpo, nella quale si manifesta il peccato dell’uomo? È necessario conoscere questo retroterra biblico per interpretare correttamente i testi dei padri della chiesa e comprendere a quale “carne” si riferiscono. Per aver ignorato tale distinzione si è arrivati a sostenere che il cristianesimo propugna un “odio del corpo”, cosa che è un controsenso assoluto. L’accoglienza del sensibile nella vita spirituale è sempre stata oggetto di un animato dibattito all’interno della chiesa. È pertinente contrapporre fortemente i sensi spirituali ai sensi corporali? Non si potrebbe far emergere una continuità nel loro esercizio? Certo, qualcosa nei nostri sensi corporali qui sulla terra è legato alla figura di “questo mondo che passa” (cf. 1Cor 7,31), ma questo non ci impedisce di concepire un esercizio spirituale dei nostri sensi corporali, nella misura in cui Dio, che si è incarnato, da quel momento e per sempre si consegna in modo tale da essere percepito in maniera sensibile. Personalmente rimango nella convinzione che ogni mistica − anche le mistiche non cristiane, che tutte tendono verso l’unico mistero − è anticipazione della resurrezione finale dei corpi, la cui bellezza si offre già per un’esperienza di tutto l’uomo nel contatto con il corpo del Cristo risorto. Ed è proprio attraverso questo contatto, questo “corpo a corpo”, che l’uomo viene divinizzato. Questo presuppone una “trasfigurazione” dei nostri sensi corporali mediante la fede e il dono dello Spirito santo. Essi possono allora aprirsi alle realtà divine e vedere nel Cristo qualcosa di più di un semplice uomo; ma anche nella Scrittura santa qualcosa di più di semplici parole umane e nella creazione qualcosa di più di un dato materiale “in-significante”. Vedere più lontano, dunque, ma non vedere altro: è proprio vedendo Gesù di Nazaret che vediamo Dio, ascoltando le parole umane della Bibbia che ascoltiamo Dio.

Philippe Markiewicz, Ferrante Ferranti, Pietre vive

Pentecoste: un lievito di bontà

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Dopo la trasgressione di Adamo i pensieri dell’anima si sono dispersi lontano dall’amore di Dio volgendosi al mondo presente, mescolati a pensieri materiali e terreni. Ma come Adamo, mediante la trasgressione, accolse in se stesso il cattivo lievito delle passioni, così per partecipazione tutti quelli che sono nati da lui e tutta la razza di Adamo hanno parte a quel lievito. Il cattivo lievito delle passioni era stato impastato con la razza del vecchio Adamo.

Allo stesso modo piacque al Signore nella sua discesa sulla terra patire per tutti, tutti acquistare con il proprio sangue e deporre un celeste lievito di bontà nelle anime credenti umiliate dal peccato, e così compiere in esse ogni giustizia dei comandamenti e tutte le virtù in crescente progressione finché non fossero impastate in una sola pasta nel bene e divenissero un solo Spirito con il Signore, secondo la parola di Paolo poiché, nell’anima tutta penetrata dal lievito dello Spirito divino, non può neppure formarsi una qualche idea del male e della malizia, come è detto: “la carità non pensa il male”. Senza il lievito celeste, cioè la potenza dello Spirito divino, l’anima non può essere fermentata dalla bontà del Signore e giungere alla vita.

Se uno impasta la farina senza mettervi del lievito, può ben impastarla, amalgamarla e lavorarla con ogni cura, ma l’impasto è azzimo e sgradevole da mangiare; se invece vi si mette del lievito, esso attira a sé tutto l’impasto e tutto lo fa lievitare … E ugualmente con la carne: se la si tratta con ogni cura ma non la si sala con il sale che distrugge i vermi e fa scomparire il cattivo odore, puzza, va in putrefazione e non può essere utilizzata per gli uomini. Allo stesso modo supponi che l’umanità intera sia la carne o la pasta, che il sale e il lievito siano la divina natura dello Spirito santo che proviene da un altro mondo: se nell’umana natura umiliata non vengono deposti e impastati il celeste lievito dello Spirito e il buono e santo sale della divinità provenienti da quell’altro mondo e da quell’altra patria, l’anima non muterà il cattivo odore della malizia e non sarà lievitata separandosi dalla pesante malvagità priva di lievito.

Per quanto grandi cose l’anima si immagini di fare da se stessa, quale che siano il suo zelo e la sua sollecitudine, se confida soltanto nelle proprie forze e ritiene di riuscire perfettamente nel suo intento senza la collaborazione dello Spirito, di molto si inganna. Non è idonea alle dimore celesti, né al regno, se ritiene di conseguire la perfetta purezza da se stessa con le sue sole forze, senza lo Spirito. Se l’uomo trascinato dalle passioni, dopo aver rinnegato il mondo, non si avvicina a Dio e non crede con speranza e pazienza di ricevere un bene estraneo alla propria natura, cioè la potenza dello Spirito santo, e se il Signore non infonde dall’alto la vita divina nell’anima, quest’uomo non sperimenterà la vera vita, non si riavrà dall’ebbrezza delle cose materiali; la luce dello Spirito non brillerà nella sua anima ottenebrata, né vi farà risplendere il santo giorno. Costui non sarà mai risvegliato dal profondissimo sonno dell’ignoranza così da giungere a conoscere Dio in verità per la potenza di Dio e l’energia della grazia.

Se l’uomo non è reso degno mediante la fede di ricevere la grazia, non è adatto né pronto per il regno; e di nuovo, se ricevuta la grazia dello Spirito, non se ne discosta in nulla né le reca offesa con la sua negligenza e le sue azioni malvagie e se così perseverando in una lunga lotta non rattrista lo Spirito, potrà giungere alla vita eterna. Come si avvertono le energie del male provenienti dalle passioni – la collera, la concupiscenza, l’invidia, il torpore, i pensieri malvagi e gli altri disordini – così occorre avere percezione della grazia e della potenza di Dio nelle virtù – nella carità, nella mitezza, nella bontà, nella gioia, nella leggerezza e nell’esultanza divina – affinché l’anima possa essere resa somigliante ed essere congiunta alla natura buona e divina, alla dolce e santa energia della grazia. Se la nostra buona disposizione, dopo aver dato prova nel corso del tempo e degli anni di progredire e di crescere, rimane sempre unita alla grazia e risulta accetta, dimora sempre di più nello Spirito con tutta se stessa e così, fatta santa e pura per opera dello Spirito, diventa degna del regno.

 Pseudo-Macario, Spirito e fuoco. Omelie spirituali