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Nella bontà e nella mitezza

Leggi tutto: Nella bontà e nella mitezzaColui che è veramente Signore e creatore di ogni cosa, l'invisibile Dio, egli stesso mandò dai cieli la verità e la parola santa e incomprensibile agli uomini e la stabilì saldamente nei loro cuori; e non mandò, come alcuni potrebbero immaginare, un servitore, un angelo, un arconte, uno di coloro che reggono le realtà terrestri o di coloro ai quali è affidato il governo delle realtà celesti, ma lo stesso autore e creatore dell'universo, per mezzo del quale creò i cieli e racchiuse il mare entro i suoi confini ... è lui che Dio ha inviato agli uomini. Forse, come qualcuno potrebbe pensare, [fece questo] per imporre tirannia, paura, spavento? No di certo! Lo ha inviato, invece, nella bontà e nella mitezza, come un re che invia suo figlio re; lo ha inviato come Dio; lo ha inviato come uomo agli uomini; lo ha inviato per salvare, per convincere e non per costringere; la costrizione non si addice a Dio. Lo ha inviato per chiamare, non per accusare; lo ha inviato per amare, non per giudicare (cf. Gv 3,16-17) ...

Nessun uomo ha visto o ha conosciuto [Dio] (cf. Gv 1,18; 1Gv 4,12), ma egli stesso si è manifestato. E si è manifestato attraverso la fede, alla quale soltanto è consentito vedere Dio. Dio infatti, il padrone e il creatore di tutte le cose, colui che le ha fatte tutte e le ha disposte secondo un ordine, non solo si è mostrato pieno di amore per gli uomini, ma anche longanime. Sempre fu, è e sarà tale: benevolo, buono, senza ira e veritiero, il solo buono.

Avendo concepito un progetto grande e inesprimibile, lo comunicò soltanto al Figlio. Finché dunque conservava e custodiva nel mistero il suo sapiente proposito, sembrava non interessarsi di noi e non preoccuparsene. Ma quando lo ebbe rivelato attraverso il suo Figlio amato ed ebbe manifestato ciò che fin da principio era stato preparato (cf. Rm 16,25-26; Ef 3,4-12), ci offrì un tempo per ogni cosa: l'essere partecipi dei suoi doni, il vedere e il comprendere. Chi mai di noi se lo sarebbe aspettato?

(A Diogneto)

Vai al libro: Nuove letture dei giorni

Visitazione

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Cristo nel vangelo dice: Giovanni era una lucerna che arde e splende (Gv 5,35). Giovanni era come una lucerna sotto il moggio mentre era ancora racchiuso nell’utero di sua madre, ardeva del desiderio del suo Signore veniente ed esultava di pazza gioia all’incontro con lui (cf. Lc 1,44). Ma la lucerna che allora era sotto il moggio doveva essere posta sopra il candelabro, perché facesse luce a tutti coloro che erano nella casa (cf. Mt 5,15); ed essa, che prima illuminava solo il moggio, avrebbe irradiato su tutto il mondo nuovi fulgori. Non illuminava forse il suo moggio colui che, mediante lo Spirito santo, rivelò a sua madre la conoscenza di un così grande mistero? E da dove mi viene – disse Elisabetta – che la madre del mio Signore venga a me? (Lc 1,43). Chi ti indicò, o donna santa, che veniva a te la madre del tuo Signore? Non appena – disse – la voce del tuo saluto è giunta alle mie orecchie, il bambino ha esultato di gioia nel mio seno (Lc 1,44).
Ardeva dunque Giovanni, poiché dall’Altissimo era stato mandato un fuoco, per bocca di Gabriele, nel seno della Vergine, affinché tramite le parole della Vergine lo Spirito santo, venendo, infondesse ardore nel bambino e lo preparasse a essere lucerna per il Signore.

L’anima di Giovanni si sciolse quando Maria parlò.

Lo Spirito santo, che abitava pienissimamente nella Vergine, passò dalla Vergine su Giovanni, e da Giovanni su Elisabetta e Zaccaria. Perciò lo spirito di Maria esultò in Dio suo salvatore (cf. Lc 1,46-47) e subito, alla venuta di lui, Giovanni esultò nell’utero [della madre], ed esultò anche la madre. Profetarono il padre e la madre, tutti furono colmi di Spirito santo. Dal ventre di Maria fluiscono fiumi, poiché [egli] era una sorgente di acqua viva che zampilla per la vita eterna (Gv 4,14). Il fuoco dello Spirito santo infiammò con grande impeto tutti coloro che erano nella casa, poiché non vi era nessuno di loro che potesse sottrarsi al suo calore (Sal 18,7). Tutti ardono, tutti risplendono.

Pietro di Blois

Vai al libro: Padri della chiesa d’occidente, Un testo al giorno

Maria concepisce ascoltando e credendo

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Leggi tutto: Maria concepisce ascoltando e credendoDi’ [angelo] Gabriele, parla alla Vergine, perché possiamo udire. Egli dice: Non temere, Maria, poiché hai trovato grazia presso il Signore. Ecco, concepirai nel tuo ventre, e partorirai un figlio, e gli darai nome Gesù. Egli sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, il Signore Dio gli darà il trono di David suo padre, regnerà in eterno sulla casa di Giacobbe, e il suo regno non avrà fine (Lc 1,30-34).

Ecco, abbiamo udito l’annuncio, abbiamo udito il mistero dell’eterno disegno, abbiamo udito anche le parole della nostra liberazione; e abbiamo udito anche ciò che il re e profeta David dice a questa nostra regina, a questa sua figlia, a proposito di questo annuncio, quando dice: Ascolta, figlia, guarda e porgi l’orecchio, dimentica la tua gente e la casa di tuo padre, poiché il re ha desiderato la tua bellezza; egli, infatti, è il Signore tuo Dio (Sal 44,11-12). Ascolta, dice, figlia mia, della mia stirpe, della mia discendenza, nobiltà e gloria della mia stirpe, ascolta ciò che l’angelo dice, ciò che il messaggero celeste ti promette. Sii prudente, sii sollecita, ascolta con attenzione poiché sono cose grandissime quelle che ti vengono annunciate. Guarda, dunque, e comprendi, accogli la Parola nel cuore e nel tuo ventre: vergine concepirai e vergine partorirai, poiché entra in te dall’orecchio colui che da te nascerà. Egli, infatti, è la Parola, e via della Parola è l’orecchio. Non in altro modo, infatti, concepisce la beata vergine Maria, se non ascoltando e credendo. Se non avesse udito, non avrebbe creduto. Ascoltò e credette, e credendo concepì.
Ecco – disse – la serva del Signore. Mi avvenga secondo la tua parola (Lc 1,38). Questo fu il concepimento di Cristo, in questa maniera egli fu concepito, e in questa maniera la Parola si è fatta carne (Gv 1,14).

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Che cosa riempie il tempo?

Leggi tutto: Che cosa riempie il tempo?Anzitutto, c’è una pienezza nel tempo. Il termine pienezza, rimanda il nostro pensiero direttamente al concetto di misura, da dove è derivato: si dice infatti che qualcosa è pieno quando ha tutto quanto può contenere. Ora, “Dio ha fatto tutte le cose con misura” (Sap 11,20), e se tutte le cose, allora anche il tempo. Certo, lo stesso tempo è chiamato dall’Apostolo mensura temporis (Ef 4,13), la misura del tempo. Come dunque tutte le altre misure hanno la loro, così anche la misura del tempo ha la sua pienezza, quando riceve tanto quanto la sua capacità può contenere, e non di più. Così, il tempo è una misura: ha una capacità, e questa ha una pienezza. Cioè, esiste quella cosa che è la pienezza del tempo. Ma, niente è pieno al principio, e nemmeno lo è il tempo immediatamente. Venit plenitudo, viene, non subito, né direttamente, ma passo dopo passo, sempre più vicino. Riempie, prima un quarto, poi una metà, fino a che raggiunge l’orlo. E vi sono pure gradi, attraverso i quali esso viene. Ecce palmares posuisti dies meos, ecco, a palmi hai misurato i miei giorni (Sal 39 [38],6). Da questa parola palmares – è quanto osserva uno dei padri – un uomo può leggere il suo tempo nella sua stessa mano: c’è una somiglianza tra la mano di un uomo e il suo tempo. Come nella mano, visibilmente, c’è un’ascesa, e le dita continuano ad alzarsi, fino che giungono al vertice del dito medio; e quando sono arrivati lì, giù di nuovo per una simile discesa fino a che giungono al mignolo, che è il più basso di tutti. Così è del nostro tempo: continua a salire per gradi, finché giungiamo al pieno vertice della nostra età, e poi declina di nuovo, fino a raggiungere gradualmente il termine basso dei nostri giorni.

Ma, quale che sia il modo in cui ciò accade, come capita spesso, la discesa è improvvisa, scendiamo a capofitto senza gradi, ce ne andiamo in un momento, eppure resta sempre vero che alla nostra pienezza non arriviamo se non per gradi.

Ora, questa venuta ha un quando venit, un tempo nel quale essa viene qui. Quanto al tempo c’è un lungo momento in cui possiamo dire, nondum venit hora, il tempo non è ancora giunto, mentre la misura è tuttora in fase di riempimento. Così, alla fine, c’è pure un tempo in cui possiamo dire, venit hora, il tempo è ora giunto, quando la misura è piena. Cioè: c’è un tempo in cui il tempo giunge a essere pieno, come nel giorno, quando il sole giunge alla linea meridiana; nel mese, quando giunge al punto di opposizione con la luna; nell’anno quando arriva al solstizio; nell’uomo quando egli arriva alla pienezza degli anni: perché questa è la pienezza del tempo che l’Apostolo dichiara nei tre versetti precedenti (cf. Gal 4,1-3).

E quando è quel quando, quello in cui il tempo giunge alla sua pienezza? Quando misit Deus, quando Dio lo invia, poiché il tempo riceve il suo riempimento da Dio. Di per sé il tempo è solo una misura vuota, non contiene niente. Molti giorni e mesi scorrono sulle nostre teste, dies inanes, dice il salmista (cf. Sal 78 [77],33); menses vacui, dice Giobbe (Gb 7,3): giorni vuoti, mesi vacui, senza niente che li riempia. Ciò che riempie il tempo, è una qualche cosa memorabile che Dio vi riversa dentro o, come dice il testo, qualcosa che invia per riempirlo con essa. È il misit Deus, Dio inviò, e così il tempo arriva a essere più o meno pieno, secondo ciò che Dio manda per riempirlo.

Vai al libro L. Andrewes, Dio è diventato uomo

Inizi

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Leggi tutto: IniziNel cammino che da Abramo porta a Gesù (cf. Mt 1,1-16) la vita si incrocia con una promessa non travolta neppure dalle tortuosità di genealogie prossime a smarrirsi nella selva delle deviazioni. Nella catena delle generazioni appaiono anelli strani: “Giuda generò Fares e Zara da Tamar” (v. 3), vale a dire da sua nuora che si finse prostituta perché il suocero portasse a compimento quanto aveva rifiutato di fare suo figlio Onan (cf. Gen 38); “Salmon generò Booz da Rachab” (v. 5), la prostituta di Gerico che, tradendo il suo popolo, si schierò con gli ebrei conquistatori (cf. Gs 2,8-21; 6,17); “Booz generò Obed da Rut” (v. 5), la moabita che lo sedusse nella notte sull'aia (cf. Rt 3,1-18); “Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Uria” (v. 6), ciò avvenne quando entrò e consolò Betsabea per la morte del piccolo nato da un adulterio coperto con l'assassinio (cf. 2Sam 11; 12,15-24). Successione di generazioni che giunge fino a Giuseppe lo sposo di Maria, “padre non padre” di Gesù.

Vari sono i motivi che si ritrovano in questa genealogia scandita in tre gruppi di quattordici generazioni ciascuno. Il loro numero complessivo, quarantadue, può essere letto all'insegna di un'incompiutezza - sei per sette - che attende il proprio completamento giubilare in Gesù. Oppure si può scorgere nel quattordici il valore numerico del nome ebraico di Davide, riferimento centrale dell'intera genealogia nella sua veste di luogo sorgivo della promessa messianica. Tuttavia il senso piano e inestirpabile della genealogia è di presentarsi come un cammino disteso nel tempo che consente a Gesù di diventare pienamente partecipe della nostra itinerante umanità. Quasi a voler dire che nel mezzo del cammin di nostra storia ci ritrovammo in una grotta oscura resa improvvisamente luminosa da una nascita.

In nessun altro periodo dell'anno la liturgia parla con tanta intensità il linguaggio dell'attesa come nei giorni antecedenti al Natale, la solennità che celebra una venuta. Quali sono i motivi profondi che inducono a ricordare l'avvento di Gesù con le parole proprie dell'attendere? Si tratta di una domanda pertinente e tuttavia ancora debole; qui, infatti, si tocca un nucleo che va al di là dell'ambito liturgico per conficcarsi al centro della fede. La risposta all'interrogativo si snoda lungo due itinerari: per accogliere e comprendere Gesù Cristo bisogna rivivere la lunga attesa della venuta del figlio di Davide; questa prima via si incrocia, però, con una seconda: l'accoglimento di Gesù Cristo introduce e fonda, a sua volta, un attendere. La liturgia dell'Avvento si muta in invito a rendere meno sbiadito l'intreccio tra memoria e speranza posto al cuore della fede.

In alcune brevi, quanto intense, meditazioni sull'Avvento, il biblista Raymond Brown afferma che senza riferirsi alla storia e all'attesa di Israele, testimoniata dalla Scrittura, nulla si può dire di Gesù figlio di Davide e Figlio di Dio.

Vai al libro: P. Stefani, È Natale ancor

Perchè i miracoli?

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Leggi tutto: Perchè i miracoli?Il primo miracolo compiuto da Gesù al capitolo 1 del vangelo, la guarigione del lebbroso, contiene una frase decisamente bizzarra, di cui abbiamo due versioni negli antichi manoscritti. Il lebbroso arriva e dice: “Se lo vuoi, puoi purificarmi”. Gesù, “mosso da profonda compassione”, dice: “Certo che lo voglio. Puoi essere purificato”. Secondo molti antichi manoscritti, tuttavia, Gesù fu “agitato da rabbia profonda” quando proferì quelle parole. A prescindere da quale lezione si scelga (ed entrambe hanno validi argomenti a sostegno), il punto è che Gesù sta compiendo un miracolo perché è mosso, agitato. Che sia a causa della compassione per le sofferenze di una persona, o della rabbia dinanzi alla presa che hanno la malattia e il pregiudizio sul lebbroso emarginato dalla società, egli, palesemente, non sta compiendo un miracolo per provare qualcosa.

E il tema che attraversa il vangelo nella sua interezza potrebbe essere sintetizzato molto semplicemente così: Gesù non compie mai miracoli per provare qualcosa o per uscire vincitore da una disputa. Sì, è vero, in un certo senso la storia della guarigione del paralitico mostra Gesù intento a compiere un miracolo onde dimostrare qualcosa, ma quel qualcosa è per l’appunto il fatto che non è il miracolo a costituire la questione centrale. Il miracolo è operato per spostare l’attenzione dalla guarigione alla promessa del perdono, per rafforzare l’idea che se un miracolo è strabiliante e difficile, ancor di più lo è il perdono dei peccati.

Quando i miracoli hanno luogo, allora, sono frutto dell’immediatezza della compassione o addirittura della rabbia, rabbia per il modo in cui la malattia rende prigioniere le persone, ma anche rabbia per come la bigotteria religiosa non sa lasciar trapelare la promessa di liberazione. Al capitolo 3, nella storia della guarigione di un uomo dalla mano inaridita, si dice che i nemici di Gesù lo guardano con attenzione per vedere se compirà un atto di guarigione in giorno di sabato, e che Gesù prova pena e rabbia per la visione distorta dei bisogni e delle priorità dell’uomo palesata da un siffatto atteggiamento; la sua rabbia è dovuta al fatto che la possibilità di condannare un maestro discusso risulta più importante del ripristino della capacità di guadagnarsi da vivere di un essere umano. Marco ricorda inoltre che quando Gesù fa ritorno nella propria città natale non è in grado di compiere alcun miracolo significativo. Egli viene preso in giro e respinto dai suoi concittadini, ma non risponde cercando di avere la meglio sui loro argomenti mediante miracoli. Ci viene detto che avvengono solo poche guarigioni non appariscenti, tutto qua; nessuno spettacolo (cf. 6,5).

Ancora una volta, allora, il miracolo è posto in prospettiva. Si dà per scontato che Gesù è davvero un guaritore e un esorcista, e che i miracoli che compie sono reali. Ma ciò che egli stesso si rifiuta di fare è basare la propria autorità su “segni e meraviglie”. La storia del paralitico è decisamente eloquente in proposito. È quasi come se Gesù stesse dicendo che circolano molti che fanno miracoli, guariscono ed esorcizzano, e così era davvero nel mondo in cui egli visse: un gran numero di guaritori carismatici erravano per il Medio oriente a quanto pare, e in questo senso Gesù era una figura familiare sul proscenio del Mediterraneo dell’epoca. Gesù sembra scoraggiare i suoi uditori dal trattarlo come un esponente di tale categoria semplice e familiare – un ulteriore guaritore carismatico – e pare sfidarli a riconoscere cosa vi è di unico nella sua missione

Vai al libro: R. Williams, Il Dio di Gesù nel Vangelo di Marco

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