Ringraziamenti finali di Enzo Bianchi

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

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Io vorrei semplicemente esprimere un grande ringraziamento innanzitutto al Signore. Non è difficile per noi riconoscere che il Signore ci accompagna in questi convegni, che il Signore ci custodisce e ci permette di rinnovare la fiducia gli uni negli altri, la fiducia nel confronto, nel dialogo, la fiducia nel poter camminare insieme verso una comunione più profonda che lo Spirito Santo prepara in ciascuno dei nostri cuori, nelle nostre comunità e nelle nostre chiese. Il ringraziamento al Signore è quello che noi esprimiamo sempre nella preghiera, perché ogni preghiera è eucaristia, è ringraziamento, per tutti i doni che il Signore ci fa. Ma di tutti i doni il più importante è il dono della sua misericordia, l’unico dono di cui abbiamo veramente bisogno. E se noi abbiamo la misericordia del Signore su di noi, diventiamo anche noi misericordiosi, a immagine del suo Nome santo e glorioso, e dalla sua misericordia traiamo la possibilità di essere operatori di pace. Al termine di questo XXII Convegno Ecumenico, il ringraziamento si lega forzatamente a una epiclesi, a una domanda di pace. Questa domanda noi la facciamo al Signore perché le nostre chiese sempre hanno bisogno della sua pace ma in questo momento ne hanno particolarmente bisogno. Alcuni interventi, alcuni contributi al convegno hanno certamente indicato una pista di meditazione perché noi diventiamo costruttori di pace, proprio accogliendo la nostra debolezza e riconoscendo il nostro peccato e invocando la misericordia del Signore. La pace non viene dalla forza, la pace non viene da nessuna superiorità, la pace non viene da nessuna grandezza mondana, la pace non viene da nessun potere e da nessun riconoscimento di questo mondo. L’uomo di pace, non dimentichiamolo, secondo il Vangelo è l’Adam debole, l’uomo per eccellenza: Gesù Cristo, che flagellato e incoronato di spine è presentato da Pilato come l’uomo vero, l’uomo che Dio ha sempre pensato, l’uomo che dà la vita per gli altri, l’uomo nel quale Dio stesso si è dato per tutti noi amandoci fino a consegnare suo figlio. Nelle nostre vite, come diceva l’archimandrita Sofronio, la pace è una forza di dolcezza e di mitezza, una mitezza e una dolcezza che possono essere accolte da ciascuno di noi, se noi sappiamo invocare il Signore. Allora la pace che vogliamo costruire nelle nostre comunità e nelle nostre chiese è una pace che tiene sempre davanti agli occhi la comunione, perché se noi cristiani non sappiamo vivere la comunione, non sappiamo cercare la comunione non sappiamo neanche darci la pace. Non dimentichiamo che al cuore di ogni nostra liturgia eucaristica di tutte le chiese il Signore che si fa presente in mezzo a noi fa come suo dono la pace: “La pace sia con voi”. Ecco la fonte della nostra pace. Ma nel quotidiano noi dobbiamo impegnare tutte le nostre energie e predisporre tutto nelle nostre vite perché lo Spirito Santo possa agire e possa ispirare pensieri e azioni di pace. Il nostro convegno è stato un incontro, credo che possiamo dire anche molto leale. Alcune volte ha anche toccato dei punti difficili e scottanti, che potevano essere causa di una certa contraddizione, ma non lo sono stati: abbiamo mantenuto la pace perché il Signore ha regnato al di sopra di noi e nei nostri cuori più dei nostri pensieri e delle nostre parole. Ed ecco allora questo convegno - che come tutti gli altri ha avuto la benedizione del Patriarcato ecumenico e del Patriarcato di Mosca, che ci hanno sempre sostenuto e incoraggiato, ma anche dalle altre chiese ortodosse - questo nostro convegno vuole essere sempre un’occasione di pace e di amicizia, qualunque tema sia alla nostra considerazione.

E allora permettetemi di concludere davvero con i ringraziamenti. I ringraziamenti sono sempre un insieme di nomi e possono sembrare sonoramente anche qualcosa di noioso, ma quando diciamo il nome di una persona noi lo diciamo in Dio e davanti a Dio e allora il nostro ringraziamento diventa qualcosa che possiamo seguire con convinzione, con il cuore, come una vera e propria epiclesi. Ecco allora, il ricordo del Patriarca di Costantinopoli Bartholomeos e del Metropolita delegato Athenagoras del Belgio, del Metropolita di Diokleia Kallistos, senza dimenticare l’arcidiacono John Chryssavghìs e l’archimandrita del Trono Ecumenico Athenagoras. Li ringraziamo. E la celebrazione della Divina Liturgia sta mattina, che non abbiamo condiviso però ci ha fatto sentire come l’unico battesimo ci faceva riconoscere Cristo presente come Risorto in mezzo a noi. Il Patriarca di Mosca Kiril, il Metropolita Zossìma, che è tornato con grande bontà in mezzo a noi, il Vescovo Kliment capo delegazione, con padre Alexei e padre Arsenij; i vescovi Filaret di Lviv e Galizia, delegato del Metropolita Onufrij della Chiesa ortodossa ucraina e il Vescovo Ilarij di Makariv; i monaci della lavra delle grotte; il Vescovo Stefan di Gòmel e Zlobin, dell’Esarcato di Bielorussia, ritornato in mezzo a noi per rappresentare il Metropolita Pavel. Ringrazio tutte le Chiese che hanno inviato i loro rappresentanti o messaggi di fraterna partecipazione, che voi troverete tutti sul sito internet della nostra comunità. E ci ha rallegrato molto il messaggio del Patriarca di Bulgaria, Neofìt, e del Santo Sinodo della Chiesa copta ortodossa.

I Vescovi che hanno frequentato il convegno e ci hanno visitato. La lista è lunga. Nomino quelli che sono qui: l’ArciVescovo Antonio Mennini, Nunzio apostolico in Gran Bretagna, il Vescovo di Volterra Alberto Silvani; poi i membri e delegati del Pontificio consiglio per l’Unità dei cristiani: padre Hyacinthe Destivelle, monsignor Andrea Palmieri e padre Milan Zust; padre Porfyrios decano di Balamand, rappresentante del Patriarca greco ortodosso di Antiochia Yuhanna, il Vescovo Andrej di Austria, delegato del Patriarca Irinej di Serbia, col fedele monaco Vassilj Grolimund, il Metropolita Serafim di Germania della Chiesa ortodossa romena, grande amico tanto fedele; il Metropolita Antonij dell’Europa centrale e occidentale e il Metropolita Dometian di Vidin del Patriarcato di Bulgaria; il Vescovo Grigorios della Chiesa ortodossa di Cipro e il Metropolita Ioannis di Thermopyli della Chiesa ortodossa di Grecia, la delegazione di Kalamàta, insieme ai monaci di Kardìtsa e ai professori di Atene e di Tessalonica; Melchìsedek, Vescovo di Pittsburgh, e Alexander, Vescovo di Toledo, della Orthodox Church of America, oltre a padre John Behr, decano dell’Istituto teologico St. Vladimir a New York. Grazie anche a padre Makaryan, rappresentante della Chiesa Apostolica Armena, al Vescovo Jonathan Goodall, rappresentante dell’Arcivescovo di Canterbury, al canonico Hugh Wybrew e a Michel Nseir delegato del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Ringrazio anche i membri del comitato scientifico, alcuni sono miei fratelli, mie sorelle, ma tra loro soprattutto, Michel Van Parys, Antonio Rigo, ed Hervè Legrand che ci offrono sapienza e discernimento. Ringrazio tutti i monaci d’Oriente e d’Occidente che sono qui. Noi monaci sentiamo sempre una comunione molto forte e la nostra vocazione straordinaria ci rende semplicemente poveri cristiani ma con il grande impegno di essere vigilanti e oranti per la Chiesa. Ringrazio gli interpreti e il tecnico di sala signor Panzìca e i suoi collaboratori. Tutti gli amici che fedelmente ritornano e accompagnano con la preghiera questi convegni.
E allora arrivederci all’anno prossimo. Intanto ancora una volta, con buona fedeltà dei miei fratelli e delle mie sorelle, sono usciti gli Atti del XXI Convegno: “Le età della vita spirituale”. Il tema del prossimo convegno lo sceglieremo in un prossimo comitato scientifico e le date le manteniamo, il prossimo anno saranno dal 9 al sabato 12 settembre. Il Signore davvero sia con voi adesso che ritornate alle vostre chiese, e non dimenticate che la nostra comunità vive una continua intercessione per ciascuna delle vostre chiese, d’Oriente e d’Occidente, chiedendo al Signore di affrettare il giorno in cui potremo celebrare un’unica eucarestia. Grazie a tutti. La nostra comunità vi ama e vi accompagna con la preghiera.

Per un'antropologia cristiana della pace

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

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PER UNA ANTROPOLOGIA CRISTIANA DELLA PACE

di Aristotle Papanikolaou

Nelle tradizioni ortodossa e cattolica, un’antropologia della pace è definita, molto semplicemente come théosis, deificazione o, come preferisco dire, quale comunione divino-umana. Tale comprensione della pace come théosis, tuttavia, può essere facilmente fraintesa nel senso di un’acquisizione di poteri fino a considerarsi una sorta di Zeus, poteri che consentirebbero di trascendere e trasformare i dissesti provocati dalla nostra finitezza. Anche tra i cristiani ortodossi la nozione di théosis è spesso applicata al monaco che ha poteri di divinazione o di guarigione, dando ancora una volta l’impressione che l’incarnazione della divina presenza sia manifestata soltanto in alcune condizioni di poteri sovraumani.

Se tuttavia ricordiamo il nome fondamentale di Dio per i cristiani, cioè che Dio è amore – cosa che tutti i cristiani condividono – allora la théosis stessa deve essere vista come capacità di amare come Dio ama, vedendo tutte le creature, anche quelle che sembrano meno amabili, così come Dio le vede. È questa la sfida del più grande comandamento: amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente e amare il prossimo come se stesso (cf. Mt 22,37-39). Quando è compresa nei termini del più grande comandamento, la théosis diventa più ordinaria, ironicamente più terrena, più evidente nelle banali, quotidiane attività della vita. Il più grande comandamento, comunque, è un paradosso: ci viene comandato di amare quando l’amore stesso non può prendere avvio dalla volontà. Non si può sicuramente volere che qualcuno ami uno che odia, ma soltanto far osservare che non ama come dovrebbe.

Leggi tutto: Per un'antropologia cristiana della paceI grandi spirituali delle tradizioni ortodosse e cattoliche comprendono la natura paradossale di questo comandamento; essi sanno che uno non può semplicemente voler amare come vuole non rubare o non dire menzogne. Nella misura in cui l’amore implica la volontà, l’amore stesso è anche affettivo, cioè coinvolge le nostre emozioni e i nostri desideri. In questo senso l’amore abbraccia la persona umana nella sua interezza, anima e corpo. Ciò che questi grandi spirituali capiscono inoltre è che l’amore è un apprendistato che richiede un esercizio per plasmare le nostre emozioni e i nostri desideri, e in questo modo, accresce la capacità della volontà di amare. L’esercizio comporta che si comprenda ciò che impedisce l’amore, ciò che fa entrare nella via dell’amare come ama Dio.

Uno degli ostacoli sulla via dell’amore identificato dagli spirituali è l’orgoglio. Gli spirituali comprendono bene che, a causa della nostra finitezza, gli esseri umani sono afflitti dal turbamento della paura. Siamo davvero terrorizzati dalla morte, ma questa paura della morte maschera un’altra paura che io credo più fondamentale ed è ciò che fonda il nostro orgoglio, è la paura di non avere una qualche importanza nel mondo. Il metropolita Ioannis Zizioulas esprime questo concetto con maggior eleganza come il desiderio di unicità e singolarità. La nostra paura di non aver importanza nel mondo ci porta ad affermare noi stessi in una modalità “divina”. Ciò che appare come amore di sé, orgoglio, in realtà è una forma di disprezzo di sé che quest’apparente amore di sé cerca di mascherare. E a causa di questo disprezzo di sé come amore di sé, cerchiamo di distruggere o negare chiunque o qualunque cosa minacci la nostra identità, minacci ciò che percepiamo come un aiuto a sentirci importanti. Questo tentativo di distruggere o negare l’altro che minaccia la nostra importanza si realizza nel confronto faccia a faccia con i genitori, i figli, gli amici, ma specialmente con lo straniero e il nemico. Lo vediamo anche a livello di gruppi; gli ortodossi stessi sono ben noti per quest’autoidentificazione negativa contro l’altro, specialmente nei confronti del cosiddetto “occidente”, la cui ultima forma è il tentativo di negare o distruggere il cosiddetto occidente ateo, antireligioso, liberale contrapponendogli i valori tradizionali e conservatori dell’ortodossia. Gli spirituali sanno bene che queste forme di affermazione dell’io, come forme di avversione di sé mascherate come amore di sé, sono radicate in sentimenti di paura, che alla fine conducono alla collera. Il sentimento della collera necessita di un oggetto e l’oggetto della collera di solito non è mai ciò per cui si prova collera; in verità la collera conduce all’oggettivazione, cosa che rende più facile trattare l’altro come un oggetto, non diverso da una pietra, rende facile distruggerlo con il martello di proiezioni arbitrarie. Lo si può vedere specialmente nei social media quando si proiettano in un semplice messaggio ogni sorta di significati che vengono impiegati per giustificare discorsi carichi di odio o di diffamazione o quando i teppisti si sentono autorizzati a far del male a qualcuno, normalmente non si chiedono se si sono comportati rettamente nei loro confronti. La sfida per imparare ad amare è apprendere a coltivare le nostre emozioni, i nostri desideri e, quindi, la nostra volontà in modo tale che avvertiamo di aver minor paura e collera nei confronti dei nostri genitori, figli, fratelli e sorelle, amici e, ancor più provocatoriamente, nei confronti dello straniero e del nemico.

Ci sono, comunque, altre condizioni nella vita che rendono difficile l’amore, che evocano sentimenti di paura e di collera ma non sono necessariamente sollecitati dall’avversione verso di sé come amore di sé. Una di tali condizioni è la violenza. La violenza che si abbatte su di noi o che noi commettiamo manda in frantumi un’antropologia della pace poiché rende difficile l’amore. Vorrei illustrare come la violenza ottiene questo effetto considerando tre particolari casi di violenza, due dei quali si riferiscono alla guerra e uno dei quali si riferisce a situazioni di povertà. Prima però vorrei definire un’antropologia della pace nei termini delle virtù, esaminando il modo in cui Massimo il Confessore comprende la vita spirituale come un apprendistato ad amare. Dopo aver descritto particolari condizioni di violenza, vorrei concludere ricordando come la comprensione che Massimo ha delle virtù può tanto illuminare quanto aiutarci a ricostruire un’antropologia della pace come accresciuta capacità di amare come Dio ama nell’esperienza e attraverso l’esperienza della violenza.

La pace della virtù

Negli scritti di Massimo il Confessore la comunione con Dio, che è una concreta presenza del divino, è simultanea con l’acquisizione della virtù. La virtù è una concreta théosis o deificazione. Come dice Massimo stesso nella sua seconda lettera, che è indirizzata a Giovanni: “E la divina e beata carità, che da queste facoltà e per mezzo di esse [con “esse” indica le virtù] viene creata, unisce a Dio e fa apparire colui che ama Dio”1. Nei suoi scritti ascetici Massimo analizza in particolare un percorso che va dalla manifestazione delle virtù attraverso pratiche ascetiche fino alla manifestazione della virtù delle virtù: l’amore. Per Massimo l’essere umano è creato per imparare ad amare ed è in lotta costante contro ciò che indebolisce la capacità d’amore.

La virtù, per Massimo, non è una costruzione del carattere fine a se stessa; non è uno stato in cui uno esibisce le proprie virtù come distintivi onorifici; non è semplicemente la base per una giusta decisione morale che fa mostra di sé all’interno di un particolare contesto. L’acquisizione delle virtù è la condizione preliminare per attivare l’umana capacità d’amore. Come dice Massimo nei suoi Capitoli sulla carità: “Tutte le virtù collaborano con la mente verso l’ardente amore divino”2. Massimo non si limita alle sole quattro virtù cardinali ma, in accordo con la tradizione patristica orientale, offre un più ampio catalogo delle virtù e dei vizi che corrisponde alle tre parti dell’anima: sensibile, irascibile e razionale. La chiave ermeneutica per la complessa descrizione della relazione tra virtù e vizi nella vita interiore dell’essere umano e nell’agire umano è “progredire nell’amore di Dio”3, che viene misurato in definitiva dal modo in cui ci si relaziona con gli altri, specialmente con quelli verso i quali proviamo ostilità o collera4. Come spiega Massimo: “Chi scorge nel proprio cuore traccia di odio verso qualsiasi uomo, per un qualsiasi errore, è completamente estraneo all’amore di Dio, poiché l’amore di Dio non tollera affatto l’odio per un uomo”5.

Se le virtù sono una concreta deificazione, il presupposto per apprendere la virtù delle virtù, che è l’amore, allora il vizio danneggia la capacità d’amare. Massimo spiega che “scopo della provvidenza divina è unire mediante la retta fede e la carità spirituale quelli che sono stati variamente divisi dal male”6. Scrivendo innanzitutto a monaci, aggiunge che “il male che ti separa dal fratello” include “invidiare o essere invidiato, danneggiare o essere danneggiato, disprezzare o essere disprezzato e i pensieri che nascono dal sospetto”7. Massimo è inoltre accorto nel riconoscere che il vizio produce vizio, cioè che non è semplicemente l’atto del vizio che nuoce alla capacità di amare, ma è “l’essere stretto dalla morsa del vizio”. “Le cose che mettono fine alla carità sono queste: ad esempio disonore, danno, calunnia o riguardo alla fede o riguardo ai costumi; percosse, ferite o simili, e ciò sia che capiti a te sia a qualcuno dei tuoi parenti o amici”8. I vizi producono e sono tali emozioni affettive quali la collera, l’odio, la paura. Attraverso i suoi scritti, Massimo sta cercando sia di dare consigli sia di esortare a una forma di addestramento che può superare ciò che sono, in definitiva, emozioni corrosive, comunque giustificate.

È significativa anche l’analisi di Massimo riguardo al rapporto delle immagini con la coltura dei vizi e delle virtù. Secondo Massimo, ciò che spesso suscita e sviluppa un vizio sono immagini o pensieri che si presentano all’essere umano. Massimo spiega che “carità e padronanza di sé conservano la mente immune da passione rispetto alle cose e alle loro idee … tutta la lotta del monaco contro i demoni è per allontanare le passioni dalle idee”9. Massimo ammonisce anche: “Quando ricevi violenza da parte di qualcuno o sei oltraggiato in qualche cosa, allora guardati dai pensieri dell’ira, perché questi, separandoti dalla carità con la tristezza, non ti pongano nella regione dell’odio”10. In relazione alle immagini che suscitano il vizio, questa resistenza non consiste nel rimuovere l’immagine, ma nel disattivare il suo potere di evocare tali sentimenti di collera o di ostilità. Essere virtuoso è sperimentare dinanzi alle immagini emozioni e desideri che coltivano relazioni autentiche.

Nella misura in cui la virtù è connessa all’amore, le virtù costruiscono relazioni di intimità, fiducia, compassione, empatia, amicizia, condivisione, premura, umiltà e onestà; cose tutte quello che sono apparentemente minacciate dall’esperienza del vizio che distrugge le relazioni. Secondo Massimo, l’acquisizione delle virtù è un apprendimento che si realizza in e attraverso determinate pratiche che formano sia il corpo sia la vita interiore (l’anima) dell’essere umano; la virtù è una struttura dell’io quale apertura all’amore.

La disgregazione della violenza

Nella prossima parte della mia esposizione, vorrei suggerire che la comprensione di Massimo della virtù è particolarmente importante per illuminare l’esperienza umana della violenza concentrandomi sull’esperienza della guerra e della povertà.

Oggi negli USA è molto usuale ascoltare storie di guerra di soldati che sono stati in Vietnam, in Afganistan o in Iraq e che soffrono a causa di Disordini da stress post-traumatico. È preoccupante sentire storie di guerra di reduci; raccontano che non possono dormire con le loro mogli per paura che un incubo possa portarli a ferire fisicamente la moglie; che non sono in grado di dormire durante la notte a causa di un eccesso di vigilanza; che non sono in grado di stare all’aperto per timore che un rumore, quello di un uccello che canta o dell’acqua che scorre, possa scatenare modalità di guerra; di non essere capaci di entrare in spazi pubblici, come supermercati o ascensori; di avere sogni di mutilare i figli di qualcuno, di alienarsi amici e famiglie, di non essere in grado di mantenere un lavoro o anche di perdere il lavoro per timore degli spazi pubblici. Molti di loro finiscono per diventare barboni sulle strade americane – il 13% dei barboni negli USA sono reduci di guerra e il 20% della popolazione maschile di barboni è costituita da reduci di guerra. Sono tormentati da immagini demoniache e ricordi della guerra. L’alto indice di esperienza di sintomi di Disturbi post-traumatici da stress (PTDS) tra i reduci del Vietnam dimostra che gli effetti della guerra permangono nel corpo a lungo dopo una missione di guerra. Secondo Jonathan Shay, uno dei pionieri negli USA nel trattare i reduci di guerra sofferenti di Disturbo post-traumatico da stress (PTSD), il perdurare di tale stato avviene nella forma di: un atteggiamento ostile o diffidente dinanzi al mondo; ritiro dalla società; sentimenti di vuoto o di disperazione; sentimento cronico di essere “al margine” come se si fosse costantemente minacciati; estraniamento11. Ci sono molte, molte storie e statistiche che potrei citare a questo proposito, ma mi limiterò alla storia raccontata al radioprogramma “This American Life” concernente la vicenda del reduce John che stava litigando con la sua fidanzata a proposito dell’orario degli autobus. La discussione si accese a tal punto che John andò in colera ed entrò in quello che, in ambito clinico, viene chiamato “stato di follia”12. John prese un coltello e colpì più volte la sua fidanzata. Quando si risvegliò in ospedale, non riusciva a ricordare quello che aveva fatto e la prima cosa che chiese fu: “Ho ucciso mia figlia?” Non aveva ucciso sua figlia13. Questa storia e molte altre simili a questa rivelano che c’è un’ascesi alla guerra: sia attraverso l’addestramento ricevuto nell’esercito sia attraverso gli atteggiamenti assunti durante la guerra per esercitare il corpo alla sopravvivenza dinanzi a costanti minacce di violenza, la guerra è l’annientamento della virtù nel senso che ha un impatto negativo sulla capacità di un reduce di guerra di riprendere i rapporti con la famiglia, gli amici e gli estranei14.Oltre al Disturbo post traumatico da stress (PTSD), sta emergendo una nuova categoria al fine di distinguere una determinata condizione che è il risultato della partecipazione dei veterani alla guerra e che non è più considerata identica al Disturbo post traumatico da stress (PTSD), anche se molti sintomi sono simili. Questa condizione è detta “ferita morale” e si distingue dal Disturbo post traumatico da stress (PTSD) nel senso che non è prodotta da una reazione di paura15. “La ferita morale” si riferisce a una condizione nella quale il reduce di guerra sperimenta la sensazione profonda che siano state violate le sue credenze morali fondamentali. Può derivare dall’aver ucciso persone armate o disarmate, dall’aver torturato prigionieri, abusato di corpi morti o di non essere riusciti a prevenire azioni del genere; può manifestarsi, anche se in realtà i reduci di guerra non avevano la possibilità di evitare simili azioni. Nell’esperienza della ferita morale i reduci di guerra possono giudicare se stessi indegni, incapaci di vivere con un’azione che essi o esse hanno compiuto e che non è mai un’azione che si può cancellare. I sintomi sono simili a quelli del Disturbo post traumatico da stress (PTSD): isolamento, sfiducia negli altri, depressione, dipendenza, distacco emotivo e valutazione negativa di se stessi. Ho sentito innumerevoli storie di reduci di guerra che ammettono di aver paura a parlare di tutto quello che hanno fatto in situazioni di combattimento per timore che la persona a cui ne parlano li giudichi o le giudichi indegni d’amore. In un recente articolo del The New Yorker intitolato “Il ritorno”, si citano le parole di un reduce dalla guerra in Iraq:

Non voglio raccontarle sconcezze [si riferisce alla moglie]… Non voglio che sappia che suo marito, la persona che ha sposato, ha gli incubi per aver ucciso della gente. Mi fa sentire un mostro … Finirà per odiarmi … Quale razza di persona ha sogni come questi?16.

Massimo dice spesso che l’amore di sé è il più grande ostacolo sul cammino dell’apprendimento dell’amore. Nel caso della ferita morale, l’ostacolo non è tanto l’amore di sé quanto il disprezzo di sé privato di ogni maschera d’orgoglio.

Gli effetti della violenza sull’essere umano sono anche chiaramente visibili nei quartieri poveri delle grandi città degli USA (e immagino che sia così in tutto il mondo), dove la minaccia della violenza è costante. Un adolescente che viveva in un quartiere povero di Chicago, infestato da bande violente, lo descriveva come una zona quotidiana di guerra17. A questo proposito, una delle più difficili questioni che devono affrontare gli educatori negli USA riguarda il modo con cui educare i bambini nei quartieri più poveri che regolarmente si comportano peggio a confronto dei bambini nei quartieri della classe media o benestante.

Tanto per fare un esempio, Paul Tough ha recentemente edito il libro How Children Succeed: Grit, Curiosity, and the Hidden Power of Character (Come i bambini hanno successo: coraggio, curiosità e il misterioso potere del carattere), nel quale riporta modi di affrontare questo problema che si focalizzano sul carattere, come il recente lavoro e gli studi dell’economista James Heckman, che ha ricevuto il premio Nobel; questi ha recentemente pubblicato The Myth of Achievement Tests: The GED [General Education Development] and the Role of Character in American Life18 (Il mito del risultato del test: il GED [Sviluppo dell’educazione generale] e il ruolo del carattere nella vita americana). Tough descrive come gli educatori per decenni si sono focalizzati a improvvisare quelle che venivano chiamate “abilità cognitive”, che hanno a che fare con cose quali la lettura e la matematica. Vi sono studi che hanno mostrato che le abilità correlate al successo, come diplomi di college o un lavoro ben retribuito, corrispondono a quelle che sono chiamate “abilità non-cognitive”19. È lo sviluppo di abilità non-cognitive che consente lo sviluppo di abilità cognitive. Secondo James Heckman, i tipi di abilità cognitive e di carattere che sono “cruciali per il successo nella vita economica e sociale … includono perseveranza (coraggio) … fiducia, attenzione, autostima ed efficienza, resistenza agli eventi avversi, apertura all’esperienza, empatia, umiltà, tolleranza di opinioni diverse e l’abilità di impegnarsi attivamente nella società”20. Heckman elenca anche l’autocontrollo, che include controllo degli impulsi, gestione della collera, accettazione del ritardo della gratificazione, o riflessione prima di attuare una cattiva decisione – cose che Robert Merrihew Adams chiama le virtù strutturali21 e che ci ricordano la lista delle virtù di Massimo il Confessore.

Ciò che essi hanno ancora scoperto è che lo stress risalente a esperienze avverse durante l’infanzia, come ad esempio l’esperienza della violenza o la minaccia della violenza, possono prevenire il pieno sviluppo di abilità non-cognitive. Tough riporta dati che indicano che il 51% dei bambini che hanno sperimentato quattro o più eventi avversi risultano avere problemi di apprendimento o di comportamento22. Un trauma, in particolare, può interferire con un sano sviluppo del cervello, con la capacità di prendere decisioni, con la memoria e il tipo di pensiero consequenziale, necessario per risolvere problemi23. Se un bambino sta sperimentando la costante minaccia della violenza a casa propria, lo stress che tale minaccia genera può impedire lo sviluppo di una parte del cervello responsabile di abilità non-cognitive. Un altro modo in cui tale stress veniva spiegato è questo: se, in una foresta, ci si trova di fronte a un orso, la parte del cervello responsabile dell’aggressione si attiverà, e quella parte del cervello responsabile di abilità non-cognitive si disattiverà allo scopo di predisporre la persona alla risposta a uno stato di emergenza. A mio avviso, questo getta una nuova luce sul racconto dell’episodio in cui Serafino di Sarov mangia con gli orsi nella foresta, ma una simile risposta a uno stato di emergenza, in ogni modo, è destinata a essere rara. Per alcuni bambini che vivono in una situazione familiare nella quale la minaccia di violenza è costante, il cervello risponde come se il bambino si trovasse quotidianamente dinanzi a un orso. Se la risposta a uno stato di emergenza del cervello viene attivata ripetutamente, il cervello inaugura vie che progressivamente diventano radicate. Nelle situazioni quotidiane questo significa che è difficile per questi bambini imparare la lettura e la matematica in classe quando il cervello si trova costantemente in una modalità di risposta a uno stato di emergenza. Non è inusuale che tali bambini abbiano a scuola problemi di comportamento che spesso si manifestano in accessi di collera. Janine Hron, che è l’amministratore delegato del Crittenton Children’s Center (Centro per i bambini Crittenton), che ha sviluppato l’Head Start Trauma Smart (Sofferenza traumatica a partire dalla testa ?) negli USA, amplia questo punto:

Bambini che vivono eventi cronici avversi significativi diventano ipervigilanti … Le loro emozioni li sommergono. Hanno difficoltà a dormire, difficoltà a stare attenti in classe, sono iperattivi e finiscono per essere gettati fuori dalla scuola. Il numero di persone che stanno sperimentando questi traumi è realmente epidemico24.

Essere circondati dalla violenza o sperimentarla direttamente può effettivamente plasmare il cervello in modo tale da creare vizi di paura e di collera (ancora una volta, non necessariamente segno di amore di sé, ma piuttosto di disprezzo di sé), due dei vizi che Massimo dice fanno giungere alla via dell’amore. Questi vizi, tra gli altri, vanno pregiudicando l’abilità di stare in quel genere di relazione che non dovrebbe semplicemente permettere all’amore di esistere, ma il genere di relazione che dovrebbe permettere di apprenderlo. Ciò che è realmente straordinario in tutto questo, almeno per me, è il nesso tra quello che tutti questi studi stanno mostrando con tutto quello che Massimo dice a proposito dell’interrelazione tra la manifestazione delle virtù e ciò che considera (?) come contemplazione.

Verso un’antropologia della pace

Se seguiamo Massimo il Confessore, allora l’antropologia della pace è un’antropologia che afferma la capacità umana di comunione con Dio. Il movimento verso tale comunione con Dio – la théosis – è identico all’umano apprendimento dell’amore, a vedere l’altro come Dio lo vede, perfino lo straniero e il nemico. L’imparare come amare avviene attraverso l’acquisizione delle virtù che vengono manifestate attraverso pratiche ascetiche. Si potrebbe certamente affermare che le violente disgregazioni che avvengono nel corso della storia umana sono radicate nelle disgregazioni dell’essere umano provocate in modo particolare dai vizi della paura, della collera e dell’odio. Tali paura e collera sono spesso il risultato della violenza provocata da ciascuno, inflitta da qualcuno o afflitta a qualcuno o a qualche gruppo dal quale ci si sente aggrediti. Tanti sono posseduti dalla paura fin dalla nascita, sono in collera con qualcuno e odiano qualcun altro che, a un certo punto della storia, è stato la fonte di qualche forma di violenza. In un circolo vizioso di paura, collera e odio, l’identità si radica e si rafforza contro quelli che sono stati causa di violenza per il proprio popolo. Un esempio tra tanti altri: sono passati almeno ottocento anni dalla quarta crociata e non è raro che un ortodosso covi ancora odio per questa storia.

La descrizione dell’antropologia della pace di Massimo in termini di virtù illumina come la violenza può provocare, come Jonathan Shay afferma, una “perdita di carattere” nel senso di rendere difficile l’amore. Diventa difficile di fronte al nemico che ha fatto violenza a una persona o un popolo, ma diventa difficile per il soldato che sta sperimentando un Disturbo post traumatico da stress (PTSD) o un’offesa morale, o per quello che vive in povertà che si trova costantemente di fronte alla minaccia della violenza o la sperimenta di continuo; nella misura in cui tali esperienze di violenza nella guerra e nella povertà rendono difficili le relazioni. Il soldato evita il ristorante e il bar; il povero inveisce contro la famiglia, gli amici e gli insegnanti.

Sebbene la descrizione delle virtù di Massimo possa illuminare gli effetti della violenza sull’essere umano in quanto reprime la loro capacità di amare, e perciò di théosis, può sembrare che le pratiche ascetiche che Massimo raccomanda possano aver poco da offrire per far fronte a tale violenza. Cosa che non sarebbe corretta.

Per esempio, in risposta al problema degli effetti della violenza sull’apprendimento, il programma dell’Head Start Trauma Smart ha degli studenti impegnati in pratiche quali esercizi di respirazione per aiutare a controllare la collera e rendere capaci di imparare, creando perfino delle “stelle di respirazione” [strumento per insegnare ai bambini la respirazione profonda per aiutarli a rilassarsi], mostrando che i metodi di disciplina tradizionali basati sulla paura, sulle punizioni fisiche, sono inefficaci. Il programma si dedica anche a formare la comunità che attornia bambini che vivono esperienze avverse, come le guide degli autobus e i camerieri dei caffè, per sviluppare una rete di risposte appropriate per il bambino; in altre parole l’esercizio nella virtù si spinge al di là del bambino, concentrandosi in special modo sulla perspicacia. Ricorrendo al sistema di Achenbach come strumento standard di valutazione, l’Heard Start Trauma Outcome Report indica che un bambino che è sottoposto a terapia mostra un miglioramento delle reazioni emotive, dell’ansietà, dei disturbi somatici, del ritiro, della privazione di sonno, della vigilanza sull’aggressività, dello stress e del comportamento provocatorio di opposizione25.

Ciò che è interessante negli studi citati nel libro di Paul Tough è che viene mostrato come un corretto attaccamento al genitore o ai genitori può aiutare il bambino a reggere lo stress generato da situazioni avverse26. In altre parole, lo sviluppo di relazioni corrette grazie alle virtù può reagire ai vizi creati dall’esperienza o dalla minaccia della violenza. Ciò che più da speranza è che queste abilità non cognitive possono essere apprese anche da adulti; in altre parole, l’essere umano è stato creato in modo tale che queste abilità non cognitive possono essere apprese a qualunque età.

Anche se vi erano numerose pratiche che permettevano l’acquisizione della virtù e perciò la capacità di relazioni di fiducia, intimità, profondità e amore, mi limiterò a un fatto che è una chiave per ogni ripristino della virtù sia nella letteratura psicologica sia in quella ascetico-mistica: la pratica del narrare la verità o della confessione. Tanto Jonathan Shay quanto Judith Herman, nella loro esperienza con le vittime del trauma, testimoniano la fondamentale verità che la guarigione non può avvenire prima che la vittima del trauma possa cominciare a parlare degli eventi traumatici. Raccontare la verità per se stessa non è sufficiente per la guarigione, ma è assolutamente necessario. Così la narrazione della verità del trauma non può cominciare prima che per la vittima sia stato costruito un ambiente sicuro e protetto, cosa che Herman definisce come fase di recupero27. Dire la verità riguardo al trauma della guerra può essere interpretato come una concretizzazione della virtù dell’umiltà, nel senso che rendersi vulnerabile è un requisito per aprirsi all’amore e all’essere amati. Il monaco cristiano del vi secolo, Doroteo di Gaza, paragona la vita cristiana alla costruzione di una casa:

Il tetto è l’amore, che è il compimento delle virtù così come il tetto lo è della casa. Poi, dopo il tetto, vi è il parapetto della terrazza ... Il parapetto è l’umiltà, perché corona e custodisce tutte le virtù. E come ogni virtù deve essere accompagnata dall’umiltà – come abbiamo detto che ogni pietra deve poggiare sul fango – così anche la perfezione della virtù ha bisogno dell’umiltà28.

La ricostruzione della narrazione deve avvenire in un contesto in cui vi siano altre persone, in una forma di comunità. Shay afferma che

guarire da un trauma dipende dalla condivisione del trauma: essere capaci di raccontare al sicuro la storia a qualcuno che ascolta e di cui ci si può fidare che la riferirà fedelmente agli altri nella comunità”29.

Riuscire a mitigare il potere demoniaco dipende dalla verità, anche se tale verità ha a che fare con l’esperienza del demoniaco, e questa verità ha bisogno di essere “condivisa”, detta e ascoltata da altri. Nel corso degli anni, Shay ha riscoperto che tale condivisione è più efficace quando la comunità stessa è costituita da quanti conoscono, direttamente o indirettamente, gli effetti del trauma della lotta. Più o meno come avviene tra gli alcolisti anonimi, il potere di guarigione della narrazione della verità non dipende semplicemente dal dire la verità, ma da chi l’ascolta30. L’effetto di rimbalzo della narrazione della verità dipende dal significato simbolico-iconico del fatto che qualcuno ascolta. Voglio dire chiaramente che quando raccomando la pratica ascetica della narrazione della verità, non sto presentando una ricetta: “dire la verità ed essere guarito”. La parola di verità detta in Gesù rende possibile una nuova relazione di intimità tra l’increato e il creato, la pratica ascetica della narrazione della verità ha il potere di formare un nuova via di relazioni di intimità e di fiducia anche per quelli che hanno sperimentato la violenza e la sofferenza da Disturbo postraumatico da stress (PTSD).

La narrazione della verità sarà particolarmente importante per elaborare il perdono che è esso stesso una manifestazione della virtù dell’amore, ma al cuore dell’offesa e attraverso l’offesa o il peccato, che spesso assumono la forma della violenza. È stato mostrato che per queste sofferenze dovute a offesa morale, parlarne o mettere a nudo ciò che affligge l’uno o l’altra, benché necessario, non è efficace allo stesso modo in cui può essere per quelli che soffrono di Disturbo post-traumatico da stress (PTSD). È chiaro che quelli che sono afflitti dalla disgregazione dell’offesa morale sono tentati in qualche forma di auto-perdonarsi.

Nel caso dell’offesa morale, e in molti altri esempi di violenza e di malvagità, il perdono si rivela non come un contratto – confesso semplicemente il mio peccato e Dio è obbligato a perdonare; questo non può essere preteso, né è oblio del male o della violenza. Perdonare è una condizione in cui si risponde diversamente al ricordo del peccato o della violenza. Non si può voler perdonare; si diventa perdono e questo diventare perdono si traduce in una relazione che non dimentica, nega o anche va al di là del male che c’è stato, ma una relazione che persiste al cuore del male e come effetto di tale male. Più ancora il perdono porta a un’intimità nella e attraverso la violenza o il peccato commesso, che normalmente sarebbe considerata impensabile.

L’amore che appare dopo l’esperienza della violenza, non lascia alle spalle questa violenza. Nel ricostruire ciò che della virtù è stato distrutto a causa della violenza, l’imparare ad amare da parte dell’essere umano non significa dimenticare o cancellare la violenza sperimentata; non significa neppure andare al di là dell’esperienza della violenza; è sempre un muoversi dentro e con l’esperienza della violenza, specialmente dal momento in cui qualsiasi forma assuma l’amore, avrà qualcosa a che fare con la violenza sperimentata. Come afferma in modo così eloquente la teologa anglicana Marylin McCord Adams: “Per superare la partecipazione all’orrore dentro alla vita della persona creata, Dio deve introdurla dentro la costruzione di quell’intima, individuale … beatifica personale relazione con Dio”31.

La speranza cristiana che sto illustrando afferma che la disgregazione attuata dalla violenza non rende impossibile l’amore, per quanto qualunque specie di amore non possa cancellare quello che è stato fatto. La violenza affermata come parte della narrazione propria di qualcuno è per sempre costitutiva di tale narrazione, anche se la tale narrazione non può essere ridotta a quell’esperienza di violenza. Il male o la violenza non sono necessari per amare, ma l’amore non è necessariamente una negazione dell’esperienza del male o della violenza. Si muove dentro, attraverso e con tali esperienze contrarie come se non permettesse alle nostre storie individuali e alla storia della creazione di essere ridotte a tali esperienze. Amore come perdono non si riferisce a una frontiera “al di là” di esperienze contrarie, come la violenza, ma a “un di più” in un certo senso costituito da tali esperienze ma non riducibile ad esse. Questo punto è importante di fronte a quelli che potrebbero sostenere che, alla luce del fatto che perdita e, quindi, lutto sono costitutivi dell’io, della nostra identità, che non c’è e non può esserci una cosa come l’amore. Un’antropologia della pace come amore, come perdono, come virtù è un duro lavoro; l’amore lo si impara, ma per il cristiano deve essere un apprendimento guidato dalla speranza che “né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né potenze, né altezza né profondità, né alcun altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,38-39).

1 Massimo il Confessore, Lettera sulla carità, a cura di L. Cremaschi, Magnano 1994, p. 15.

2 Id., Capitoli sulla carità 1,11, a cura di A. Ceresa Gastaldo, Roma 1963, p. 53.

3  Ibid. 2,14, p. 97.

4  Ibid. 1,71, p. 77.

5 Ibid., 1,15, 55.

6 Ibid. 4,18, p. 201.

7  Ibid. 4,19.21, pp. 201-203.

8 Ibid. 4,81, p. 231.

9 Ibid. 3,39.41, p. 163.

10 Ibid. 1,29, p. 59.

11 Cf. J. Shay, Achilles in Vietnam: Combat Trauma and the Undoing of Character, New York 1994, p. 169. Si veda anche: Id., Odysseus in America: Combat Trauma and the Trials of Homecoming, New York 2002. Sul trauma si veda anche il saggio classico di J. Herman, Trauma and Recovery: The Aftermath of Violence from Domestic Abuse to Political Terror, New York 1992.

12 Per una definizione dello “stato di follia” si veda J. Shay, Achilles in Vietnam, p. 80. In una brillante analisi dell’Iliade, Shay dimostra come Achille divenne pazzo furioso dopo la morte del suo amico Patroclo.

13 http://www.thisamericanlife.org/radio-archives/episode/59/life-after-death.

14 Per l’ascesi di guerra si veda: Lt. Col. D. Grossman, On Killing: The Psychological Cost of Learning to Kill in War and Society, New York; R. M. MacNair, Perpetration-Induced Traumatic Stress: The Psychological Consequences of Killing, Westport, CT 2002.

15 Sulla “ferita morale” si veda B. T. Litz et al., “Moral Injury and Moral Repair in War Veterans: A Preliminary Model and Intervention Strategy”, in Clinical Psychology Review 29 (2009), pp. 695-706; S. Maguen et al., “The Impact of Reported Direct and Indirect Killing on Mental Health Symptoms in Iraq War Veterans”, in Journal of Traumatic Stress 23 (2010), pp. 86-90; S. Maguen et al., “Killing in Combat, Mental Health Symptoms, and Suicidal Ideation in Iraq War Veterans”, in Journal of Anxiety Disorders 5 (2011), pp. 563-567; K. Drescher et al., “An Exploration of the Viability and Usefulness of the Construct of Moral Injury in War Veterans”, in Traumatology 17/1 (2011), pp. 8-13. Per considerazioni teologiche si veda W. Kinghorn, “Combat Trauma and Moral Fragmentation: A Theological Account of Moral Injury”, in Journal of the Society of Christian Ethics 32/2 (2012), pp. 57-74; R. Nakashima Brock e G. Lettini, Soul Repair: Recovering from Moral Injury after War, Boston 2012.

16 D. Finkel, “The Return: The traumatized veterans of Iraq and Afghanistan”, in The New Yorker, 9 settembre 2013, p. 36.

17 Cf. L. Jones e L. Newman, Our America: Life and Death on the South Side of Chicago, New York 1998, p. 170.

18 Cf. The Myth of Achievement Tests: The GED and the Role of Character in American Life, a cura di J. J. Heckman, J. E. Humphries e T. Kautz, Chicago 2014.

19 Ibid., p. 341. Si veda anche: P. Tough, How Children Succeed: Grit, Curiosity, and the Hidden Power of Character, New York 2012, XIX, pp. 148-175.

20 Ibid., p. 342.

21 R. Merrihew Adams, A Theory of Virtue: Excellence in Being for the Good, Oxford 2006, p. 37.

22 Cf. P. Tough, How Children Succeed, pp. 1-48, specialmente p. 17. Si veda anche N. J. Burke et al., “The Impact of Adverse Childhood Experiences on an Urban Pediatric Population”, in Child Abuse and Neglect 35/6 (June 2011), pp. 408-413. Cf. anche “The Adverse Childhood Experiences Study”, www.acestudy.org, ultimo accesso 15 maggio 2014.

23 Cf. P. Tough, “Teaching Children to Calm Themselves”, in The New York Times, 20 March 2014.

24 Ibid. Si veda anche S. P. Walker et al., “Inequality in early childhood: risk and protective factors for eatrly child development”, in The Lancet 378 (9799), pp. 1325-1338, specialmente . 1331 e S. P. Walker et al., “Child development: risk factors for adverse outcomes in developing countries”, in The Lancet 369 (9556), pp. 145-157, specialmente p. 152.

25 Ibid. Per i dati completi si veda l’Head Start Trauma Report 2013 http://www.saintlukeshealthsystem.org/head-start-trauma-smart (ultimo accesso 7 aprile 2014.

26 Cf. P. Tough, How Children succeed, pp. 31-48.

27 Cf. J. Shay, Odysseus in America, p. 168. Shay sta prendendo le distanze da Herman, Trauma and Recovery, New York 1992.

28 Doroteo di Gaza, Insegnamenti 14,151, in Id., Comunione con Dio e con gli uomini, a cura di L. Cremaschi, Magnano 2015, p. In precedenza Doroteo identifica l’umiltà al fango della casa dell’anima. “Il fango è l’umiltà perché viene dalla terra ed è sotto i piedi di tutti. Ogni virtù senza umiltà non è una virtù” (Ibid.).

29 Ibid., p. 4.

30 Sulla narrazione della verità negli alcolisti anonimi si veda A. Papanikolau, “Liberating eros: Confession and Desire”.

31 M. McCord Adams, Christ and the Horrors, Cambridge 2006, p. 47.

Francesco di Assisi, un testimone della pace

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

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FRANCESCO DI ASSISI: UN TESTIMONE DELLA PACE

di Panaghiotis Aristomenis Yfantis

1. Introduzione

Per introdurre il tema che mi è stato richiesto di trattare nell’ambito del presente convegno, vorrei accennare brevemente a quali potrebbero essere gli elementi fondamentali di una sua trattazione convenzionale. Una trattazione convenzionale di questo tema metterebbe in risalto come Francesco di Assisi (1181/2-1224) sia stato un ardente e instancabile araldo della pace, della rinuncia ai conflitti e del rifiuto della violenza, tanto da poter essere universalmente riconosciuto (e variamente strumentalizzato) come un precursore dei movimenti pacifisti contemporanei e delle varie forme di solidarietà sociale. Una trattazione più spirituale, ma ugualmente convenzionale, della pace francescana, mostrerebbe poi come Francesco avesse acquisito presto uno stato di pace interiore [1], cioè una forma d’imperturbabilità o impassibilità spirituale, che da una parte lo preservava o lo distoglieva dal coinvolgimento nelle vicende sociali e dall’altra gli consentiva di trovarsi in una comunione stabile e costante con le realtà celesti, essendo ormai diventato superiore o indifferente rispetto a quelle umane.

Il carattere convenzionale di questi due modi di trattare il tema consiste negli stereotipi che sono frutto dei principali approcci ermeneutici a Francesco, tra loro quasi contradditori: da un lato, quelli che cercano di strapparlo all’ambito del suo impegno ecclesiale rappresentandolo come un campione della lotta sociale o un ingenuo “trovatore” che canta la primavera dei sensi e delle passioni del Rinascimento umanistico, nel bel mezzo dell’inverno del Medioevo; e dall’altro lato, ci sono gli stereotipi che favoriscono e riproducono un’interpretazione statica della santità, talmente lontana dal realismo biblico e dal dinamismo relazionale della lotta spirituale da ignorare la vita reale o semplicemente da superarla con pii quanto inconsistenti surrogati.

Leggi tutto: Francesco di Assisi, un testimone della paceNel seguito dunque cercheremo di tratteggiare la presenza e la testimonianza di pace di Francesco attraverso specifiche tappe e scelte, che presuppongono altrettanti dilemmi o stadi della lotta spirituale. Come dimostrano le primitive fonti francescane [2], il santo di Assisi era un fedele osservante del vangelo poiché sapeva prima di tutto che la pace autenticamente cristocentrica presuppone quella “violenza” indispensabile e parimenti cristocentrica che è richiesta per entrare nel regno di Dio [3].

2. L’epoca, il temperamento e la conversione

Restando dunque fedeli alle fonti francescane e rispettando il contesto storico e anche la realtà di un uomo del XIII secolo, vale la pena prima di tutto notare che l’epoca in cui visse Francesco fu segnata da tensioni a tutti i livelli della vita politica, sociale, ecclesiale e spirituale. Nel seguito faremo riferimento a questi aspetti, allo scopo di inquadrare nel contesto storico appropriato l’esperienza di Francesco e il suo attivo coinvolgimento nelle vicende del tempo.

Francesco, come è stato affermato con argomenti convincenti, basati sugli eventi che segnano la sua vita giovanile, aveva un temperamento piuttosto impulsivo, “violento”, un “temperamento di un combattente” [4], che egli fino al momento cruciale della conversione dimostrava nei campi di battaglia: all’inizio, nel 1198 e nel 1199, nell’insurrezione sociale dei borghesi della sua città contro i feudatari locali e nella lotta civile che seguì – ricordiamo che egli, in quanto figlio di un ricco borghese, apparteneva alla classe media in ascesa – e poco più tardi, tra il 1202 e il 1209, nel conflitto tra Assisi e Perugia, doveva avevano trovato rifugio i nobili della sua città. In particolare, questo conflitto costerà al giovane cavaliere coraggioso e ambizioso l’esperienza della prigionia. Sfinito e abbattuto, intraprenderà una nuova spedizione militare, questa volta in Puglia, la quale tuttavia non andrà in porto, perché, come scrivono le fonti, una voce lo fermò a Spoleto, come un segno precorritore dell’imminente conversione [5].

La combattività e l’impulsività del carattere di Francesco, insieme alla sua indole estroversa e comunicativa e al suo coraggio [6], non scompariranno né diminuiranno dopo la sua conversione. Del resto, come sottolineano i maestri dell’antropologia ascetica, il pentimento e la vita spirituale non sradicano le passioni, poiché questo significherebbe una mutilazione psicologica ed esistenziale. Semplicemente, il pentimento riorienta la potenza che alimenta le passioni verso la pratica delle virtù. Ciò è confermato anche dal momento cruciale della conversione di Francesco. Come egli stesso confessa nel suo Testamento, il suo pentimento è legato a un drammatico atto di riconciliazione e presuppone anche un impressionante superamento di sé, ovvero una vittoria nella lotta che Francesco raggiunse non solo lasciandosi dietro la sua precedente vita di peccato ma anche la sua radicata avversione nei confronti dei lebbrosi, i quali al suo tempo non erano soltanto una minaccia ma erano anche caricati di un indelebile stigma sociale. Leggiamo: “Il Signore così diede a me frate Francesco di cominciare a far penitenza: essendo nei peccati, troppo mi sembrava amaro vedere dei lebbrosi, [2]. E lo stesso Signore mi condusse tra loro e feci loro misericordia. [3] E allontanandomi da loro, ciò che mi era sembrato amaro mi si trasformò in dolcezza nell’anima e nel corpo” [7]. Nello stesso passo l’attiva presenza di Cristo nell’evento della conversione già adombra il contenuto biblico della pace; ma su questo torneremo più tardi, focalizzando la nostra attenzione su altri passi dei suoi Scritti.

3. Rottura familiare, tensioni ecclesiali e abbandono alla volontà di Dio

Rimanendo nello stesso periodo della vita di Francesco, cioè negli anni critici delle sue scelte fondamentali, troviamo di nuovo la violenza interiore per l’acquisizione dell’altra pace. Pregando di fronte al Crocifisso di San Damiano, nei dintorni di Assisi, Francesco riceverà da Cristo il comando di ricostruire la sua Chiesa che rischia di andare in rovina [8]. Francesco inizialmente accoglie il comando in modo letterale e comincia a ricostruire le chiesette abbandonate della zona. Il padre di Francesco sarà infastidito dal comportamento di suo figlio, che egli ha predestinato come successore nell’impresa familiare, e la rottura definitiva non tarderà. Francesco si denuderà davanti al vescovo di Assisi, rinnegando qualunque legame con il padre naturale e abbandonandosi nelle mani di quello celeste. I lettori della narrazione biografica di solito si fermano alla drammaticità quasi teatrale della scena, che culmina nel gesto ugualmente toccante del vescovo che ricopre il corpo nudo di Francesco con il suo manto, quasi anticipando la relazione che la Chiesa avrà con il santo. Tuttavia, dietro a tale drammaticità, emergono clamorosamente la risolutezza e la violenza dell’uomo che rivendica e proclama la propria parentela con Cristo [9]. E qui la scelta spirituale ha un carattere violento e combattivo, che conduce in modo doloroso alla pace interiore: attraverso la sua volontaria ricerca della condizione di orfano e la simbolica uccisione del padre, Francesco si abbandona alla divina volontà e al riparo della “Madre Chiesa” [10].

Il significato simbolico della frase rivoltagli personalmente dal Crocifisso di San Damiano, associato ai brani biblici sulla vita apostolica che ascoltava durante la divina liturgia, condurranno Francesco alla scelta forse più importante della sua vita: la fondazione di una comunità , la quale fino quasi alla fine della sua vita avrebbe costituito lo spazio per eccellenza dove ricercare e ottenere la pace. Ciò nonostante, anche questa decisione presupponeva una scelta difficile e anche una determinazione, che Francesco difese con forza e risolutezza ignorando i pericoli. È l’epoca in cui la Chiesa istituzionale in occidente guarda con diffidenza ogni nuovo tentativo di vita comunitaria, a causa dei vari movimenti laicali che, con il pretesto di un ritorno all’ethos evangelico e dell’insufficienza o indifferenza del clero, arrivavano al punto di negare il valore dei sacramenti e la struttura gerarchica del corpo ecclesiale. I biografi di Francesco fanno riferimento ai sintomi di un clero che vive nell’inerzia, ma anche all’incapacità del monachesimo tradizionale dell’epoca nel corrispondere alla sua missione. Sapendo che l’oriente segue il momento più buio della notte, essi presentano con accenti drammatici questo paesaggio cupo che in molti fa da prologo alla presenza spirituale del protagonista della biografia, e che certamente a suo modo ha plasmato il modo in cui egli ha inteso e vissuto la pace. Scrive in proposito Celano, che Francesco “guardava con preoccupazione il vecchio mondo imbrattato (cf. Ap 22,11) nel sudiciume dei vizi, gli ordini (sacri) insensibili agli esempi degli apostoli e, mentre la notte dei peccati era a metà del suo corso (cf. Sap 18,14-15), era imposto il silenzio alle sacre discipline; quand'ecco, all'improvviso, emerse sulla terra un uomo nuovo (cf. Ef 4,24), e all'apparire subitaneo di un nuovo esercito, i popoli furono ripieni di stupore davanti ai segni (cf. Mc 16,20) della rinnovata età apostolica. È ora d'un tratto portata alla luce (cf. Gb 9,11) la perfezione già sepolta della Chiesa primitiva, di cui il mondo leggeva sì le meraviglie, ma non vedeva l'esempio. Perché dunque non si potrà dire che gli ultimi saranno i primi (cf. Mt 19,30), quando ormai si sono, mirabilmente, trasformati i cuori dei padri nei figli, e quelli dei figli nei padri? O si potrà forse misconoscere il compito così celebre e famoso dei due Ordini, e non ritenerlo come presagio di qualcosa di grande che debba accadere tra breve? Di fatto, dal tempo degli apostoli non fu mai proposto al mondo insegnamento così autorevole, così mirabile” [11].

La parentela tra la religio novella dei Frati minori e gli altri movimenti laicali dei predicatori itineranti (tra di essi i Valdesi, gli Umili e anche i Catari) può essere individuata nella richiesta comune di “risveglio evangelico” [12]; tuttavia la loro differenza più importante, che mostra la determinatezza e l’ardire di Francesco, e che è direttamente connessa con il nostro tema, è la sua irremovibile decisione di restare fedele alla Chiesa e di rifondarla dall’interno con la predicazione della penitenza e l’esempio personale [13], evitando la tentazione di sostituirla. Infatti, anche se lottò per conservare il carattere laicale del suo movimento, rifiutando così di sottomettersi a una delle tre regole del monachesimo tradizionale, secondo le esplicite decisioni del Concilio Lateranense IV (1215) [14], volle ricevere l’approvazione pontificia della “forma di vita” (forma vitae) dei Minori. Francesco era sicuro che, nonostante la giustificata diffidenza e l’ostilità della gerarchia, lui e i suoi frati portavano un’altra testimonianza di pace e di unità, dimenticata ma durevole. Un cronachista dell’epoca commenta in proposito: “Però, se osserviamo attentamente la maniera di vivere della Chiesa primitiva, dobbiamo concludere che non tanto  aggiunse una nuova Regola, quanto piuttosto rinnovò quella antica, rialzò quella che giaceva per terra, e ravvivò la religione che era quasi morta, in questa sera del mondo avviato al tramonto, mentre urge il tempo del figlio della perdizione. Ed ha così preparato nuovi atleti per lo scontro con i tempi dell’Anticristo pieni di pericoli, premunendo e rafforzando la sua Chiesa” [15].

4. La pace cristocentrica come riconciliazione tra cielo e terra e le fondamentali scelte bibliche e sociali

Ancora negli Scritti di Francesco si può constatare come la pace per lui non sia la negazione della violenza e l’assenza di guerra, cioè un bene impersonale e astratto. Al contrario, essa ha una chiara base cristocentrica, che affonda le sue radici nell’opera salvifica del Dio-Uomo, la quale si ripete nella divina eucaristia – che costituiva il centro della vita comune della comunità dei frati. Nella sua Lettera all’ordine scrive, citando la Lettera agli Efesini: “Pertanto, scongiuro tutti voi, fratelli, baciandovi i piedi e con tutto l'amore di cui sono capace, che prestiate, per quanto potete, tutta la riverenza e tutto l'onore al santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo, nel quale tutte le cose che sono in cielo e in terra sono state pacificate e riconciliate [16] a Dio onnipotente” [17]. E in un’altra sua lettera, questa volta ai fedeli, sembra incapace di esprimere la sua riconoscenza per la pace e l’unità che Cristo ha inaugurato con il proprio sacrificio [18] e per le quali egli ha pregato il comune Padre celeste [19]: “Oh, come è santo e come è caro, piacevole, umile, pacifico, dolce, amabile e desiderabile sopra ogni cosa avere un tale fratello e un tale figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, il quale offrì la sua vita per le sue pecore, e pregò il Padre dicendo: "Padre santo, custodiscili nel tuo nome, coloro che mi hai dato nel mondo; erano tuoi e tu li hai dati a me[20].

Francesco intende la pace innanzitutto in modo biblico: si tratta della riconciliazione tra Dio e l’uomo, tra cielo e terra, tra il di qui e l’al di là, tra l’adesso e il sempre, che Cristo ha inaugurato con la sua incarnazione. Anzi, nella seconda versione della Lettera ai fedeli, Francesco colloca la pace che viene dal cielo tra il rispettoso ossequio e la carità [21]. Il klimax è evidente: il timore di Dio e l’osservanza dei suoi comandamenti generano la “vera pace” come riconciliazione con il Creatore, per dare frutto in opere di carità.

Francesco evidenziò il cristocentrismo che attribuiva al contenuto e ai frutti della pace con la sua esplicita confessione che lo stesso Cristo gli rivelò il saluto di pace [22], che tanto sorprese i suoi contemporanei, e il contenuto della sua predicazione, su cui ritorneremo fra poco.

Su questo canovaccio biblico s’inquadrano agevolmente e si comprendono pienamente le evidenti connotazioni sociali del messaggio francescano della pace.

La scelta del nome del movimento francescano [23] può rimandare ai “fratelli più piccoli” della parabola biblica [24], ma è anche un’evidente riferimento ai minores dell’epoca, cioè a coloro che erano economicamente deboli, che insieme ai lebbrosi e agli emarginati rendevano sensibili agli occhi di Francesco gli aspetti sociali del Gesù storico [25], e per questo egli li amava, si prendeva cura di loro e si sforzava di farsi loro simile. Parimenti biblica e allo stesso tempo sociale è la demonizzazione del denaro [26] e la difesa della povertà e della rinuncia a qualunque preoccupazione materiale [27]. Quando il vescovo di Assisi notò che la vita dei Minori era oltremodo dura a causa della povertà, Francesco gli rispose con franchezza ma anche in modo fedele alla Bibbia: “Messere, se avessimo dei beni, dovremmo disporre anche di armi per difenderci. È dalla ricchezza che provengono questioni e liti, e così viene impedito in molte maniere tanto l'amore di Dio quanto l'amore del prossimo” [28].

5. La pace come impresa ascetica

Nell’Ufficio della Passione del Signore che Francesco compose mettendo insieme diversi versetti biblici, ripeterà che la pace è e resta un dono celeste, e tuttavia la sua accoglienza e la sua messa a frutto presuppongono la “buona volontà”, cioè la libertà dell’uomo [29]. Questo brano a cui ci riferiamo collega da una parte l’elemento biblico, il dono della pace, con l’elemento ascetico, la sua accoglienza da parte dell’uomo, che ci occuperà in questa sezione.

Infatti, per quanto la riconciliazione tra Dio e l’uomo sia stata realizzata “una volta per tutte” (hapax) nell’evento Cristo, la sua assimilazione determina per ogni fedele una lotta di tutta la vita, per accordare la propria volontà con il disegno eterno di Dio per la salvezza e il riconoscimento della verità [30], di quella verità che libera [31] e riporta la persona umana al suo originario splendore teandrico. Francesco con ogni probabilità non conosceva la frase di Crisostomo che dice che la mentalità carnale è inimicizia con Dio [32], e tuttavia con la sua vita manifesta l’aspetto opposto, che cioè la pace con Dio e anche la riconciliazione con la propria identità cristocentrica interiore si ottiene con l’automortificazione ascetica [33], con la purificazione e con la conseguente pratica delle virtù.

E qui l’acquisizione della pace in Cristo come amicizia con Dio, e per estensione con se stessi e con il prossimo, presuppone uno spirito di lotta e una tenacia, alquanto inadeguate rispetto a una comprensione mondana o antropocentrica della pace come assenza di guerra, o anche alla rappresentazione romantica stereotipata di Francesco come un ingenuo “trovatore”. Raffigurando concretamente la sua relazione organica con la lunga tradizione ascetica della Chiesa indivisa, Francesco organizza una forma di vita basata appunto sull’autobnegazione [34], ovvero sulla sottomissione dell’io, delle passioni della gola, dell’avidità, dell’ambizione e dell’amore del potere e, ovviamente, sulla lotta contro le tentazioni carnali, la quale giunge fino all’odio del corpo per il bene dell’anima [35]. Non è un caso che la prima Regola che Francesco sottopose per l’approvazione a Roma sia stata respinta a motivo della sua durezza.

Le primitive fonti francescane fanno ampiamente riferimento alle costanti ascetiche che contribuivano a plasmare la fisionomia spirituale dello stesso Francesco e dei suoi primi discepoli, e mostrano come egli avesse chiara coscienza che la pace che egli perseguiva passava attraverso la fornace della lotta spirituale contro la carne amica del peccato, contro i demoni e contro il mondo. Secondo il racconto dei biografi di Francesco, tutti i primi frati indistintamente si dedicavano a una dura ascesi e osservavano digiuni estenuanti e continui [36], mentre lo stesso Francesco – che aveva l’abitudine di chiamare il suo corpo “frate asino” – di fronte a un violento assalto delle tentazioni carnali, fu costretto a immergersi tutto nudo nella neve, per domarlo [37] (tra parentesi, esattemente nello stesso modo affrontò il demone della fornicazione uno dei pionieri dell’esperienza ascetica orientale, come ci informa Palladio nella Storia lausiaca [38]).

Possiamo rintracciare un’elementare fondazione teorica di queste esperienze di Francesco nei suoi stessi Scritti. Nella sua Regola non bollata, utilizzando lo schema antitetico a lui caro tra corpo e anima fa riferimento alla necessità “di disprezzare e mortificare la carne e di ricercare l’umiltà e la pazienza e la pura e semplice e vera pace dello spirito”, che culminano nel “divino timore, nella divina sapienza e nel divino amore del Padre, del Figlio e dello Spirito santo” [39]. Nella stessa direzione si muovono anche i suoi riferimenti espliciti alla beatitudine biblica dei “pacifici”. Francesco sottolinea che “sono veri pacifici coloro che in tutte le contrarietà che sopportano in questo mondo, per l’amore del Signore nostro Gesù Cristo, conservano la pace nell’anima e nel corpo” [40]. In una sua altra Ammonizione, identifica la pace con la pazienza e l’umiltà che deve dimostrare il frate che lotta nell’ora della prova, delle tentazioni o della sua infermità [41], mentre deve dimostrare un sostegno senza mormorazioni nell’ora difficile vissuta dal fratello [42]. Per il vero asceta, la conferma della sua maturità spirituale e della sua pace interiore avviene attraverso le prove, e non solo sul piano individuale ma anche nella sua relazione con il prossimo. In molti passi degli Scritti, dove Francesco descrive le relazioni tra i frati, insiste sulla necessità di evitare le contese e le liti [43] e di perseguire costantemente la carità [44], la tolleranza [45], la solidarietà [46] e la compassione [47].

Tutte queste esortazioni potrebbero essere considerate alla stregua di un moralismo convenzionale o di un autonomo codice di comportamento. E tuttavia, l’ethos ‘agonistico’ di Francesco rimane autentico perché, senza mai diminuire il valore dell’ascesi, non arriva mai ad assolutizzare le opere ascetiche, e perché con la sua posizione equilibrata insegna che l’ascesi è un mezzo prezioso, ma non può competere né sostituire la meta che è l’amore sacrificale, il superamento dell’individualismo, l’umiltà, in una parola la “pace in Cristo”. In uno degli episodi più commoventi conservati dalle fonti primitive, un frate durante la notte cominciò a gridare: “Muoio, fratelli miei, muoio di fame!”. Francesco chiese subito che si apparecchiasse la tavola e, interrompendo il suo austero digiuno, cominciò lui stesso a mangiare e anzi invitò a questo “dovere di carità” anche gli altri frati, perché il loro fratello affamato non provasse vergogna [48]. L’autenticità di una tale pace, che è forgiata attraverso la trasformazione ascetica del fedele, è attestata anche dall’insistenza di Francesco sull’umiltà, la virtù somma che sola può domare il narcisismo spirituale, che tende sempre insidie in modo nascosto ai gradi più elevati della scala delle virtù, per far cadere a terra il fedele che sta lottando. Alla prospettiva di questa “pace in Cristo” che si può sperimentare attraverso uno stile di vita ascetico bisognerà collegare anche la “vera e perfetta letizia” la quale, secondo Francesco, consiste nella pienezza interiore e anche nella gioia che il frate prova perfino quando lo maledicono, lo disprezzano o lo respingono [49].

6. Consolidamenti spirituali e pratici: predicazione, riconciliazione con la creazione e glorificazione

Parallelamente all’istanza costante dell’acquisizione e della custodia della pace interiore attraverso l’ascesi, e quei momenti di pienezza nella relazione con Dio e con i suoi frati, Francesco non ignora il dovere profetico e apostolico della testimonianza per la pace. Questo contenuto non è connesso semplicemente con la rivelazione divina relativa al saluto di pace, ma anche con un grande dilemma che Francesco dovette affrontare quando, nei primi anni della sua conversione, mentre aveva attorno a sé pochissimi discepoli, si interrogò se doveva seguire la vita contemplativa della preghiera e della solitudine o la via nuova e piena di pericoli della predicazione continua. Alla fine, con l’aiuto di Dio e il consiglio di Chiara, scelse la seconda via, quale perpetua condizione di vita e componente fondamentale della forma di vita francescana [50]. Il caratteristico saluto, come ci informano le fonti, a volte in modo allusivo, a volte in modo più esplicito, era indissolubilmente legato al contenuto della predicazione. Il primo biografo di Francesco racconta di lui: “Il valorosissimo soldato di Cristo passava per città e castelli annunciando il Regno dei cieli, la pace, la via della salvezza, la penitenza in remissione dei peccati; non però con gli artifici della sapienza umana, ma con la virtù dello Spirito (1Cor 2,4)” [51]. È probabile che l’autore caratterizzi Francesco come soldato per influenza dalla terminologia tipica degli ordini cavallereschi dell’epoca [52], con cui evidentemente l’Ordine dei Minori non presenta quasi nessuna analogia, tanto nella struttura quanto nelle priorità spirituali. E tuttavia, la similitudine rimane felice non solo a causa del quasi ironico gioco di parole, ma anche perché rimanda alla violenza e alla combattività della prima giovinezza cavalleresca e militare di Francesco, la quale ora è posta semplicemente a servizio di uno scopo radicalmente opposto.

Infatti, il già ambizioso cavaliere che con zelo si gettava armato nelle battaglie, adesso ormai guidava un picoclo esercito, armato con la semplicità della sua parola, la preghiera [53] e le sue buone opere [54] cercando di seminare in nome di Cristo la riconciliazione tra le città italiane che si dilaniavano a vicenda [55]. L’intensa memoria del “nuovo evangelista” (novus evangelista) [56] della pace sarà mantenuta viva anche dal lontano erede alla guida dell’ordine, nonché biografo “ufficiale” di Francesco, Bonaventura, il quale annota: “In ogni sua predica, all'esordio del discorso, salutava il popolo con l’augurio di pace, dicendo: ‘Il Signore vi dia la pace![57]. Aveva imparato questa forma di saluto per rivelazione del Signore, come egli stesso più tardi affermò. Fu così che, mosso anch’egli dallo spirito dei profeti, come i profeti annunciava la pace, predicava la salvezza e, con le sue ammonizioni salutari, riconciliava in un saldo patto di vera amicizia moltissimi, che prima, in discordia con Cristo, si trovavano lontani dalla salvezza” [58].

Qui la la testimonianza della pace è il traboccare dell’amore e della pienezza interiore nella forma di un invito a una vita di amore e di riconciliazione. Soprattutto, si tratta di un invito aperto, che non è limitato soltanto ai cristiani che sembrano aver perso la loro bussola spirituale, ma anche ai non cristiani. I relativi precetti dello stesso Francesco sono contenuti nel capitolo 16 della Regola non bollata che reca come titolo: “Di coloro che vanno tra i Saraceni e gli altri infedeli”. In questo capitolo Francesco sottolinea che i frati devono comportarsi “spiritualmente” davanti agli infedeli e distingue due modi o piuttosto due atteggiamenti interiori dei frati, che mostrano l’influenza determinante del contenuto di pace della predicazione sulla modalità della sua espressione. Il primo modo consiste nell’evitare le contese e le liti verbali e nella semplice confessione della fede cristiana. Il secondo consiste nell’annuncio della parola divina, con discrezione, affinché gli ascoltatori possano credere ed essere battezzati [59]. Anzi, sapendo che l’impresa della predicazione tra gli infedeli può risultare fatale, lo stesso Francesco si affretta a ricordare ai suoi fratelli che colui che rimane fedele fino alla fine sarà salvato [60]. Celano sottolinea in proposito che la predicazione francescana tra gli infedeli ha un duplice movente: “la salvezza del prossimo e il desiderio del martirio” [61]. Tuttavia, come nota uno studioso contemporaneo, tenendo conto che il testo fa riferimento anche alla sottomissione dei predicatori ai destinatari dell’annuncio, “l’unico martirio” che Francesco desiderava, “era la perfetta testimonianza” [62]. Sempre sulla base dei testi e anche delle descrizioni della sua unica [63] esperienza missionaria in Egitto [64], noi vorremmo aggiungere che il suo unico scopo era la perfetta testimonianza della pace in Cristo.

7. La riconciliazione con la creazione

Una manifestazione della personalità e della testimonianza di Francesco non meno impressionante e ugualmente commovente è quella che riguarda la creazione. Come sottolineano le relative fonti biografiche e secondo l’analisi degli studiosi contemporanei, nell’atteggiamento di Francesco nei confronti della creazione si può individuare il significato più pregnante del termine latino innocentia, che rimanda in modo evidente alla condizione della giustizia primordiale [65]. Tuttavia, nonostante la sua giustificazione biblica, l’interpretazione particolare della pace con la creazione che Francesco elabora rimane nei limiti di una innocua ma statica passività. In altre parole, ignora l’atteggiamento militante del cristiano che difende attivamente tutte le creature senza distinzione proprio perché ciascuna di esse, anche quella più disprezzata, calunniata, pericolosa o insignificante, costituisce una testimonianza vivente della libertà creazionale e dell’amorevole provvidenza di Dio.

Dietro al toccante racconto del celebre accordo tra Francesco e il lupo [66], che minacciava gli abitanti di Gubbio, non è difficile discernere le conseguenze dei dissodamenti intensivi che avevano scacciato gli animali dal bosco e dal loro ambiente naturale, evidentemente allo scopo di accrescere il profitto. Anche se Francesco rimprovera il lupo perché assale gli uomini, tuttavia la soluzione che gli propone, cioè di rimanere in città e di accettare il nutrimento dai suoi abitanti, mostra di riconoscere all’animale quei diritti che Dio gli aveva concesso ma di cui gli uomini lo hanno privato. Press’a poco seguendo la stessa logica, Francesco cerca di imporre a tutti gli uomini l’obbligo, nel giorno di Natale, di offrire del cibo non solo ai poveri, ma anche agli uccelli e agli animali che si trovavavo nella mangiatoia accanto a Cristo neonato [67]. Altrove, ancora, leggiamo dell’insistenza e degli argomenti teologici con cui egli strappò una torma di tortore alle mani di un tale che aspirava a venderle, e dopo egli costruì loro un nido perché facessero compagnia ai frati come animali domestici [68]. Nessuno però deve dimenticare che questo suo atteggiamento assolutamente positivo nei confronti della creazione ha un contenuto eminentemente teocentrico. Per questo, mostrava un amore particolare nei confronti di alcuni animali, come le allodole [69], che gli ricordavano i fratelli umili, o un agnello che se ne stava tranquillo tra i cinghiali, perché gli ricordava il Cristo in mezzo ai farisei e ai membri del sinedrio [70], e invocava la riconoscenza naturale degli animali irrazionali nei confronti del Creatore allo scopo di dare una lezione o criticare gli uomini dotati di ragione, che avevano dimenticato la loro origine divina e il loro traguardo spirituale. Il suo amore profondo verso la creazione spesso combina in modo mirabile il suo temperamento poetico con la riconoscenza verso Dio. Allora, ogni cosa si trasforma in occasione e invito alla lode del comune Creatore: il vento e gli uccelli, i fiori e la luce della luna, perfino la stessa morte [71], che lo porterà vicino allo Sposo amato.

8. Conclusioni

Se uno ascolta con attenzione la testimonianza francescana della pace, ha la sensazione di poter seguire mentalmente le tappe spirituali dell’asceta italiano, dalla sua drammatica conversione fino al compimento della sua vita in Cristo. Le fonti mostrano come il suo cammino verso l’acquisizione e la diffusione della pace e della riconciliazione sia stato erto, pieno di difficoltà e di fatica, una salita verso il Golgota della sua consumazione sacrificale sulla croce. Il dono divino della riconciliazione si è consolidato con la purificazione ascetica dalle passioni e la rappacificazione con il prossimo, per poi dilatarsi in compassione attiva e in amore verso tutta la creazione intera. Tuttavia, neppure gli ultimi momenti di Francesco sono stati privi di tensioni. Due anni prima della sua morte, egli si ritira dalla guida dell’ordine, e sente con sofferenza gli scricchiolii della divisione che minano l’unità della comunità. Un gelido mattino, sul monte della Verna, dove si è rifugiato per dedicarsi all’ascesi e alla preghiera, il suo corpo è adornato con le cinque piaghe del Crocifisso. Il compimento spirituale di Francesco possiede lo stesso carattere doloroso, ‘agonistico’ e sacrificale che la sua intera vita ha avuto. Per questo costituisce anche la conferma dell’unica sua meta: la sua unione con l’unico datore e garante della vera pace e riconciliazione.

La testimonianza dell’esperienza, dell’ascesi, della lode e dell’amore di Francesco somiglia a un abbraccio aperto, disposto a stringere tutti e tutto, dal momento che tutto si è trasformato in realtà fraterna: i cristiani, gli uomini di altre religioni, gli animali, i fiori, l’aria e le pietre. Per questo costituisce anche un precoce e durevole esempio di dialogo interreligioso e intercristiano. Lo “spirito di Assisi” dal 1986 [72] fino ad oggi continua a dare un senso palpabile alle istanze del dialogo ecumenico e a mantenere viva la speranza dell’unità nell’amore tra i cristiani. In nome di questo spirito francescano si può comprendere non solo il ruolo eminente che il santo italiano cattolico-romano occupa nell’ambito di un convegno di spiritualità ortodossa, ma anche lo stentato tentativo di un teologo greco-ortodosso di balbettare la sua lontana ma sempre preziosa e durevole testimonianza sulla pace.

[1] Allo “stato della pace” fa riferimento anche uno dei più appassionati studiosi di Francesco. Cf. Th. Matura, Francesco parla di Dio. Studi sui temi degli Scritto di San Francesco, Milano 1992, p. 15.

[2] Per le necessità del presente studio utilizzo l’ultima edizione compatta in italiano delle primitiva fonti francescane che includono gli scritti che la ricerca contemporanea attribuisce a Francesco, e le restanti primitive fonti francescane, che si estendono cronologicamente dalla sua morte fino circa al termine del XIV secolo. Cf. Fonti Francescane. Scritti e biografie di san Francesco d’Assisi. Cronache e altre testimonianze del primo secolo francescano. Scritti e biografie di santa Chiara d’Assisi. Testi normativi dell’Ordine Francescano Secolare, a cura di E. Caroli, Padova 2004 (d’ora in poi FF).

[3] Cf. Mt 11,12.

[4] Ε. Leclerc, “Francesco, uomo di pace”, in La spiritualità di Francesco d’Assisi, a cura dei redattori di Evangile aujourd’hui, trad. it. Maria Vimercati e E. Branca, Milano 1993, p. 322.

[5] Per le esperienze di guerra di Francesco cf. Tommaso da Celano, Vita Seconda: FF 584-587, pp. 364-366.

[6] Per una penetrante analisi del profilo psicologico di Francesco, basata sulle relative fonti, cf. R. Zavalloni, La personalità di Francesco d’Assisi. Studio psicologico, Padova 1991

[7] Testamento, FF 110, p. 99.

[8] Tommaso da Celano, Vita Seconda 10: FF 593, p. 369

[9] Cf. Mt 10, 37-38; 12,50. Si veda la Lettera ai fedeli (II): FF 184, p. 135.

[10] Sul tema cf. indicativamente K. Esser, Temi Spirituali, trad. di una Clarissa del Monastero di Milano, Milano 19813, pp. 139-188.

[11] Tommaso da Celano, Trattato dei miracoli di san Francesco, FF § 822, p. 517.

[12] Cf. M.-D. Chenu, La teologia nel xii secolo, Introduzione di I.Biffi, a cura di P. Vian, Milano 19922, pp. 289-307.

[13] Cf. in proposito Tommaso da Celano, Vita Prima, ΧVI: FF 609-611, pp. 377-378.

[14] Cf. Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di G. Alberigo, G. L. Dossetti, P.-P. Joannou, Cl. Leonardi, P. Prodi, Bologna 1996 (edizione bilingue), p. 242.

[15] Giacomo da Vitry, Historia Occidentalis, 1 II, cap. 32: FF 2215, p. 1464.

[16] Col 1,20.

[17] Lettera a tutto l’Ordine I: FF 217, pp. 147-148.

[18] Cf. Gv 10,15.

[19] Cf. Gv 17, 6.

[20] Lettera ai fedeli (I): FF 178a, p. 132. Rintracciamo un brano simile in una delle lettere di Chiara: “Lui per tutti noi sostenne il supplizio della croce, strappandoci dal potere del  Principe delle tenebre, che ci tratteneva avvinti con catene in conseguenza del peccato del primo uomo, e riconciliandoci con Dio Padre” (Lettera prima ad Agnese di Boemia 12: FF 2863, p. 1806).

[21] Lettera ai fedeli (II): FF 179, p. 134.

[22] Testamento: FF 121, p. 101. Cf. anche il celebre saluto di pace che Francesco include nella concisa e autografa Benedizione a frate Leone: FF 262, p. 177.

[23] Cf. indicativamente Compilazione di Assisi 101: FF 1640-1642· Specchio di Perfezione 26: FF 1710-1711, p. 1028-1029.

[24] Cf. Mt 25.

[25] Cf. indicativamente Αngelo Clareno, Cronaca delle sette tribolazioni, I, 8, FF 2116, p. 1388.

[26] Cf. Mt 6,24.

[27] Cf. Mt 6,25-30.

[28] Leggenda dei tre Compagni 35: FF 1438, σ. 816. Commentando questo preciso brano della Vita di Francesco, un pensatore russo fa notare che l’asceta italiano era sicuro che “la proprietà è madre della guerra, mentre la povertà della pace” (D. Merežkovskij, Francesco d’Assisi, trad. it. L. Malavasi, pref. di P.-C. Bori, 1996, p. 143).

[29] Ufficio della Passione V: FF 303, p. 216.

[30] Cf. 1Tm 2,4.

[31] Cf. Gv 8,32.

[32] Cf. Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera agli Efesini 5, PG 62, 40-41.

[33] Ammonizioni X, ΧΙV: FF 159, 163 p. 113, 114.

[34] Per le varie accezioni dell’autoabnegazione nell’esperienza di Francesco, cf. anche K. Esser, Temi Spirituali, pp. 37-65.

[35] Lettera ai fedeli (I), 1: FF 178/1, p. 131.Cf. Lettera ai fedeli (II), 195: FF 195, p. 82: “Dobbiamo avere in odio i nostri corpi con i vizi e i peccati”. Sul conflitto tra corpo e anima negli Scritti di Francesco cf. C. Paolazzi, Lettura degli “Scritti di Francesco d’Assisi, Milano 19922, pp. 171-180.

[36] Tommaso da Celano, Vita Seconda 21: FF 607, p. 376.

[37] Tommaso da Celano, Vita Seconda 116: FF 703, p. 440.

[38] Cf. Palladio, Storia lausiaca 38,11 (ed. G. J. M. Bartelink, Milano 1990): “Il demone della lussuria lo tormentò [i. e. Evagrio] gravemente, com’egli stesso ci raccontava; e per tutta la notte d’inverno rimase nudo nel pozzo, di modo che le sue membra si fecero di ghiaccio”.

[39] Regola non bollata ΧVI: FF 49, p. 78

[40] Ammonizioni ΧV: FF 164, p. 114.

[41] Regola bollata X: FF 104; Ammonizioni ΧΙΙΙ: FF 162, p. 114.

[42] Cf. Cantico di frate sole: FF 263, p. 180; «Audite Poverelle»: FF 263a, p. 183.

[43] Cf. indicativamente Regola non bollata ΧΙ: FF 46-37, pp. 72-73.

[44]  Cf. indicativamente Regola non bollata VII: FF 26, p. 68.

[45] Ammonizioni XΙ, FF 160, p. 113

[46] Cf. indicativamente Regola non bollata Χ: FF 34-35, p. 72.

[47] Cf. indicativamente Ammonizioni XVIII, FF 167-168, pp. 115.

[48] Tommaso da Celano, Vita Seconda 22: FF 608, p. 377

[49] Della vera e perfetta letizia: FF 278, pp. 193-194

[50] Fioretti XVI: FF 1845, pp. 1159-1160

[51] Tommmaso da Celano, Vita Prima 36: FF 382-383, p. 274

[52] Cf. la nota relativa del curatore dell’opera particolare nel volume: FF, p. 274, n. 66.

[53] Tommaso da Celano, Vita Seconda 163:FF 747, pp. 468-469.

[54] Regola non bollata XVII:FF 46, p. 77; cf. Regola bollata IX::FF 99, pp. 95-96.

[55] Secondo la testimonianza di un suo contemporaneo, Francesco nel 1222, mentre preciaca nella piazza di Bologna, con le sue parole “perseguiva la cessazione del conflitto e la fondazione di nuove condizioni di pace” (Tommaso da Spalato, Historia Pontificium Salonitanorum et Spalatensium, MHG, Scriptores XXIX, 580. Cf. FF 2252, p. 1482).

[56] Tommaso da Celano, Vita Prima 89:FF 476, p. 309

[57] Gv 14,27.

[58] Bonaventura, Leggenda maggiore ΙΙΙ, 2: FF 1052, p. 615. Cf. Leggenda minore ΙΙ Lezione II: FF 1340, p. 758.

[59] Regola non bollata ΧVI, 6-7:FF 43, pp. 75-76. I “due modi” della predicazione agli infedeli sono stati tralasciati dal capitolo corrispondente della Regola bollata: cf. Regola bollata XII, FF 107-109a, p. 98.

[60]

[61] Tommaso da Celano, Vita Seconda 152: FF 736, σ. 462. Πρβλ. Bonaventura, Leggenda maggiore IX: FF 1172, p. 667.

[62] D. Solvi, «Ι Fioretti di san Francesco”, Vita Minorum 84 (2013), p. 115.

[63] Secondo le fonti erano state programmate anche altre campagne missionarie di Francesco che però non furono realizzate. Cf. in proposito Celano, Vita Prima 55-56: FF 417-420, pp. 286-288.

[64] Sul suo viaggio in Egitto che culminò nel celebre incontro con il Sultano di Babilonia Melek-Al-Kamel, cf. Celano, Vita Prima 57:FF 421-423, p. 288; Bonaventura, Leggenda maggiore IX, 8:FF 1173-1174, p. 668-669. Per un confronto sintetico delle testimonianze storiche su questo argomento, cf. F. Cardini, Francesco d’Assisi, Roma 20016, pp. 195-198

[65] Cf. indicativamente Celano, Vita Seconda CXXIV-CXXV: FF 750-751, pp. 470-472. Cf. Bonaventura, Leggenda maggiore VIII, 1: FF 1134, p. 654.

[66] Fioretti ΧΧΙ: FF 1852, p. 1170-1172.

[67] Specchio di perfezione 114: FF 1814, p. 1114.

[68] Fioretti ΧΧΙΙ: FF 1853, pp. 1172-1173.

[69] Specchio di perfezione 113: FF 1813, pp. 1113-1114.

[70] Tommaso da Celano, Vita prima 76: FF 456, p. 301.

[71] Cantico di frate sole: FF 263, pp. 179-180.

[72] Cf. P. A. Yfantis, «La pace come esperienza di Dio e impegno spirituale. Una riflessione ortodossa sullo “spirito di Assisi” venticinque anni dopo», in Vita Minorum 82 (2011), pp. 105-116.

La pace interiore e l’amore per il nemico: san Silvano dell’Athos

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

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di Sr MAGDALENE di Maldon

Molti commentari patristici parlano delle beatitudini come di una sequenza di livelli progressivi. La nostra beatitudine è molto lontana in questa progressione. Analogamente, l’amore per il nemico è il punto più alto della scala dell’amore. Il monaco russo Silvano (1866- 1938) visse e insegnò questo amore a un grado molto raro. L’archimandrita Sofronio, suo discepolo, rileva che quello che il suo padre spirituale Silvano insegnava, se da un lato echeggia la tradizione passata, dall’altro getta nuova luce sul comandamento già “nuovo” di Cristo.

“Saranno chiamati figli di Dio”. Predicare la pace come la chiesa la annuncia, renderà certo i suoi predicatori simili al Figlio di Dio: nella sua sofferenza così come nella sua gloria. Padre Sofronio ci ricorda che “coloro che veramente predicano la pace di Cristo non dovrebbero mai perdere di vista il Golgota … L’amore per il nemico non è accettato dal mondo e così lungo i secoli il mondo ha perseguitato la vera chiesa”. È triste ammetterlo, ma Silvano lo sperimentò nel suo stesso monastero, benché egli mettesse in pratica ciò di cui parlava e non potesse essere accusato d’ipocrisia. In un’occasione, il motivo del disincanto fu la mancanza di discernimento nel predicatore. Scrive Silvano: “Il Signore dice: Beati gli operatori di pace. E io pensai: ‘Dedicherò una parte del mio tempo all’esichia, ma cercherò anche di portare la pace tra gli uomini. Così andai a sedermi accanto a un fratello inquieto di mente, lo schimonaco ***, e conversando con lui cercai di persuaderlo a vivere in pace con tutti e a perdonare tutti. Per un po’ di tempo mi sopportò, poi mi si rivoltò contro con tale violenza che dovetti scappare dalla cella e riuscii a malapena a sfuggirgli. … Allora compresi che dobbiamo cercare la volontà di Dio … e non inventarci ascesi di testa nostra” (Silvano dell’Athos, Nostalgia di Dio, Qiqajon 2011, p. 236). In un’altra occasione, Silvano fu accusato di slealtà verso la chiesa russa perseguitata, quando chiese di pregare per i nemici della chiesa. “‘Il nemico perseguita la santa Chiesa’, tu dici: ‘Devo forse amarlo?’. La mia risposta è questa: la tua povera anima non ha ancora cominciato a conoscere Dio … e quanto Egli desideri che tutti gli uomini si pentano e siano salvati. Lo Spirito Santo … insegna all’anima ad amare i suoi nemici. L’unico nostro pensiero deve essere che tutti debbano essere salvati. L’anima si rattrista per i suoi nemici e prega per loro perché si sono allontanati dalla verità e i loro volti si volgono verso l’inferno. Questo è l’amore per i nostri nemici.”

Così Silvano si rese conto che persino in una comunità monastica può regnare l’inimicizia. “Pur vivendo in comunità, molto spesso noi perdiamo la grazia, poiché non abbiamo imparato ad amare i nostri fratelli secondo il comandamento del Signore. Se tuo fratello ti offende, e tu vai in collera, lo condanni o lo detesti, ti accorgerai che la grazia è fuggita da te e la pace se n’è andata. Per avere pace nell’anima noi dobbiamo imparare ad amare chi ci ha offeso … Non può esserci pace per l’anima se essa non prega il Signore con tutte le sue forze per il dono dell’amore verso tutti gli uomini”. “Chi non ama i suoi nemici non troverà mai pace, nemmeno se fosse posto in paradiso”.

Leggi tutto: La pace interiore e l’amore per il nemico: san Silvano dell’AthosQuando era ancora novizio, san Silvano ebbe la visione del Cristo; con tutto il suo essere sperimentò l’umile amore di Cristo. Incominciò a pregare per il mondo intero come per se stesso. In questo stato l’anima non distingue tra amico e nemico. “Se noi amiamo i nostri nemici, non ci sarà posto nella nostra anima per l’orgoglio, poiché l’amore a somiglianza di Cristo non mette nessuno sopra l’altro”. Quanto più qualcuno vive nell’ombra del male, tanto più la persona colma di grazia avrà pietà di lui. Questo è il modo in cui l’amore divino si riflette nell’anima umana. “Chi non ama i suoi nemici non può arrivare a conoscere il Signore e la dolcezza del suo Santo Spirito. Lo Spirito Santo ci insegna ad amare i nemici, affinché l’anima ne abbia pietà come se fossero suoi figli”. “Quando l’anima placa la sua passione e diventa umile, il Signore le dona la sua grazia, e allora essa prega per i nemici come per se stessa, e versa calde lacrime per il mondo intero”.

“L’uomo che ama i suoi nemici presto arriva a conoscere il Signore nello Spirito Santo, ma della persona che non ama i suoi nemici io non desidero scrivere. Eppure deve essere compatita, poiché vive tormentando se stessa e gli altri, e non conoscerà il Signore”. Cristo e gli apostoli insegnano che l’amore dei nostri fratelli è la prova per capire quanto reale e quanto profondo sia il nostro amore per Dio. San Silvano mostra che la prova della nostra conoscenza della verità sta nell’atteggiamento che abbiamo verso coloro che ci hanno offeso o sono spietati verso la chiesa. “Ci sono uomini che desiderano la distruzione, il tormento dei loro nemici o dei nemici della chiesa nel fuoco dell’inferno. Pensano in questo modo, perché non hanno imparato l’amore divino”. Così, nella confusione dei raggruppamenti ecclesiastici e degli scismi, l’amore dei nemici diventa anche un criterio ecclesiologico: la vera chiesa è la chiesa perseguitata che prega per i propri nemici, e non quanti con falso zelo, “non secondo una retta conoscenza” (Rm 10,2), organizzano rivolte e persino guerre contro i nemici della verità. La conoscenza di Dio viene dall’amore dei nemici e conduce all’amore dei nemici: i due aspetti sono inseparabili. San Silvano afferma che affidarsi alla provvidenza di Dio è il modo per custodire un’inviolabile pace dentro di sé. In realtà, la pace interiore è l’unica pace inviolabile e da essa deriva la pace esteriore. I pensieri determinano la vita. Al tempo stesso, San Silvano mostra che qualunque siano le circostanze esterne, la pace interiore è preservata se noi “ci attacchiamo alla volontà di Dio”. “Se un uomo mormora contro il suo destino, ripetendo che ‘questo non è giusto’, ‘questo è male’, non conoscerà mai la pace nella sua anima, anche se digiuna e trascorre molto tempo in preghiera”. Non si tratta di fatalismo, poiché come afferma san Giovanni Crisostomo, “la rassegnazione non è fede”. Né si tratta di un distacco quietista o analogo a quello dello yoga. San Silvano ci ricorda continuamente che la nostra lotta spirituale è più dura di ogni battaglia fisica. Silvano ha impegnato la sua preghiera, perché avvenissero dei cambiamenti: per il riscatto dei prigionieri, per il risanamento dei malati, per la salvezza dall’inferno. La preghiera segna la differenza tra il fatalismo e la fede. Ma come afferma Silvano, non è semplicemente la quantità di preghiera che conta. “Anche se un uomo prega molto, e digiuna, ma non ha amore per i suoi nemici, non conoscerà pace nell’anima. Io non sarei nemmeno capace di scrivere di queste cose, se lo Spirito Santo non mi avesse insegnato ad amare”.

San Silvano spesso ripete il legame tra pace, l’amore del nemico e l’umiltà. “Dove c’è orgoglio non ci può essere grazia, e se noi perdiamo la grazia perderemo al tempo stesso sia l’amore di Dio sia la confidenza nella preghiera. L’anima è allora tormentata da pensieri cattivi e non comprende che deve umiliarsi e amare i suoi nemici, poiché non c’è nessun altro modo di essere graditi a Dio”. “L’anima dell’uomo umile è come il mare. Se getti un sasso nel mare, per un momento turberà la superficie e poi scenderà nel fondo. Così le afflizioni scompaiono in fondo al cuore dell’uomo umile, poiché la forza del Signore è con lui”. San Silvano comprese più chiaramente il potere dell’auto-abbassamento dopo che il Signore gli insegnò a “tenere la sua mente all’inferno senza disperare”. Quando Silvano ricevette questa parola dal Signore, provò pace e sollievo (spesso egli dice “il riposo”) nella sua anima. Gli umili non sono turbati se sono trattati male: né possono essere posti più in basso di quanto essi stessi ritengano di essere. Ancora una volta, questo grado di auto-abbassamento è un alimento solido, non adatto ai lattanti.

Ma in tutti i gradi di ascesi, “se uno tra di voi ha perduto la grazia e le cose gli diventano difficili, se si pente il Signore gli darà la sua pace. Se un popolo o una nazione sono nelle avversità, tutti devono pentirsi e allora il Signore ristabilirà ogni cosa”. “O Signore, manda a noi il dono dello Spirito santo, affinché percepiamo la tua gloria, e viviamo sulla terra nella pace e nell’amore. E fa che non ci siano né malvagità né guerre né nemici, ma che solo l’amore regni: allora non ci sarà più bisogno di eserciti, né di prigioni, e la vita sarà facile per ognuno sulla terra”. Questo è forse il punto più esplicito in cui Silvano suggerisca una via d’uscita dai conflitti militari. La sua soluzione non si pone sul piano terreno o psicologico, anche se implica conseguenze a ogni livello. Silvano era fermamente convinto che la soluzione al male era la custodia dei comandamenti di Cristo. Da giovane aveva compiuto il servizio militare e come monaco non si occupò mai di politica.

L’amore del nemico non è naturale per l’uomo decaduto; è un dono della grazia, e la grazia è accresciuta quando noi benediciamo coloro che ci maledicono. “La grazia di Dio non abita nell’uomo che non ama i suoi nemici … Oh Signore, come tu stesso hai pregato per i tuoi nemici, così insegna anche a noi, nel tuo spirito Santo, ad amare i nostri nemici”.

Noi tutti possiamo cominciare a praticare questo amore. “Se tu non puoi amare, allora almeno non insultare o maledire i tuoi nemici, e le cose già andranno meglio; ma se un uomo maledice e fa del male ai suoi nemici, è chiaro che uno spirito cattivo vive in lui, e se non si pente, quando muore andrà nel luogo dove abitano gli spiriti cattivi. Che il Signore preservi ogni anima una tale sciagura!”.

“T’imploro, mettiti alla prova. Quando un uomo t’insulta o disonora la tua persona, se prende ciò che è tuo, o perseguita la chiesa, prega il Signore dicendo: ‘O Signore … abbi pietà dei tuoi servi, e volgi i loro cuori al pentimento’, e allora tu avrai coscienza della grazia nella tua anima. Per cominciare, costringi il tuo cuore ad amare i nemici, e il Signore, vedendo la tua buona volontà, ti aiuterà in ogni cosa, e l’esperienza stessa dimostrerà la via. Ma l’uomo che pensa con malizia male dei suoi nemici, non ha in sé l’amore di Dio, e non conosce Dio … Quando sei in grado amare i tuoi nemici, sappi che una grande misura della grazia di Dio abita in te, benché io non dica ancora grazia perfetta ma sufficiente per essere salvato”.

“Il Signore ci ha chiesto di amare i nostri nemici, e l’uomo che ama i suoi nemici è come il Signore. Ma noi possiamo amare i nostri nemici soltanto per la grazia dello spirito Santo, e così non appena qualcuno ci insulta, preghiamo Dio per lui, e allora persevereremo nella pace dell’anima e nella grazia di Dio”. Questo “ma” meriterebbe un approfondimento che non abbiamo il tempo di svolgere qui: non è possibile osservare il comandamento dell’amore senza Cristo; obbedire è amare.

Noi siamo chiamati a imitare Cristo. “Cristo ha pregato per coloro che lo stavano crocifiggerlo: Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno (Lc 23,34). Se noi vogliamo custodire la grazia, dobbiamo pregare per i nostri nemici”. Se qualcuno è capace di pregare per il suo offensore e lo fa entrare nel suo cuore, nessun altro potrebbe esserne escluso. Così l’amore per il proprio nemico implica l’amore universale. San Silvano impiegò decenni a pregare piangendo per tutti gli uomini come per se stesso, mostrando che colui che raggiunge la misura della pienezza dell’età di Cristo ama con il suo immutabile amore.

Comunicato stampa iniziale

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

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COMUNICATO STAMPA INIZIALE

“Beati coloro che si adoperano per la pace” (Mt 5,9): la Divina Liturgia ortodossa ripete costantemente questa beatitudine inattuale, che non cessa oggi di interpellare la coscienza di ogni cristiano e l’azione di tutte le chiese.

Il consueto appuntamento ecumenico che si terrà presso il monastero di Bose dal 3 al 6 settembre 2014, desidera porsi in ascolto del vangelo della pace, che chiede ai cristiani di essere un fermento di riconciliazione e di pace tra le donne e gli uomini contemporanei.

La speranza della pace annunciata in Cristo non è un’utopia estranea a un mondo dominato dalla logica del potere e del conflitto, ma è un evento nella storia, che s’incarna in ogni tempo in uomini e donne di pace e riconciliazione.

Come ricorda p. Enzo Bianchi, Priore di Bose e presidente del comitato scientifico del convegno, la pace ha una dimensione teologica e rivelativa: occorre intraprendere un itinerario per discernere le radici della violenza e offrire le ragioni di un’autentica educazione alla pace, nell’ospitalità del diverso, nell’operosità della riconciliazione, nella fatica del perdono.

In oltre vent’anni d’ininterrotta attività, il Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa è diventato un punto di riferimento internazionale per il dialogo ecumenico e lo studio della tradizione spirituale dell’oriente cristiano, secondo una visione ampia del dialogo interculturale e interreligioso, che include l’Europea orientale, l’Ucraina, la Russia e il Medio Oriente.

Lo scambio, a livello scientifico, culturale ed ecclesiale, tra studiosi e ricercatori provenienti da tutto il mondo, operatori ecumenici e rappresentanti delle diverse confessioni, si propone di approfondire le ragioni della pace in un pluralismo di approcci rispettoso della diversità, e insieme capace di riscoprire nella propria tradizione le ragioni dell’accoglienza dell’altro.

Alcune tappe scandiranno questo percorso: l’ascolto e lo studio della Scrittura, l’esperienza liturgica, le parole sulla pace nei padri della Chiesa, l’insegnamento dell’esperienza monastica e spirituale dell’Oriente cristiano, la testimonianza dei martiri.

Aristotle Papanikolaou (New York) avvierà i lavori del convegno con una riflessione su una possibile antropologia cristiana della pace. I biblisti Michail G. Seleznev (Mosca) e Christos Karakolis (Atene) indagheranno come l’Antico e il Nuovo Testamento parlano della pace: a volte le parole dei salmi ci scandalizzano per la loro violenza, ma occorre interpretarli come invocazione della giustizia di Dio, che si compie nel Cristo. La pace è dono del Cristo risorto (Gv 20,19-21), egli è la “nostra pace” (Ef 2,14). È il mistero celebrato nella Divina Liturgia, epiclesi di pace, cui è dedicata la relazione del vescovo Andrej Čilerdžić (Vienna), delegato del patriarca di Serbia Irinej. Se gli uomini operano la giustizia e fanno misericordia, la pace abita la terra, come non si stancano di ripetere i padri d’Oriente e d’Occidente, il cui messaggio sarà approfondito nelle relazioni di Porphyrios Georgi (Balamand, Libano), Darija Morozova (Kiev), John Behr (New York), Symeon Paschalidis (Tessalonica).

Se i padri della Chiesa privilegiarono l’aspetto spirituale della pace rispetto alla sua dimensione politica e sociale, pensare la pace resta una sfida aperta per la teologia contemporanea. La tradizione della santità in Oriente e in Occidente offre una risposta a questa ricerca come stile di vita capace di narrare un’altra possibilità di abitare il mondo e immaginare un futuro di pace per l’umanità lacerata da antagonismi economici, sociali, religiosi.

È quello che si propone la sezione “Testimoni di pace”, introdotta dalla riflessione di Cyril Hovorun (Yale) su come articolare pace cristiana e riconciliazione umana. Saranno ascoltate le vicende di autentici operatori di pace antichi e moderni, monaci e laici: san Francesco di Assisi (Panagiotis Yfantis, Tessalonica), il santo vescovo armeno Nerses di Lambron del xii secolo (Adam Makaryan, Etchmiadzin), san Silvano dell’Athos (sr. Magdalene, Maldon, Essex), Nikolaj Nepluev (Natalija Ignat’ovič, Mosca), il patriarca Atenagora di Costantinopoli (Athenagoras Peckstadt, metropolita del Belgio), il presbitero bulgaro Stefan Zankov, pioniere del movimento ecumenico (Viktor Mutafov, Sofia), padre André Scrima, grande testimone del dialogo tra le religioni (Anca Manolescu, Bucarest).

I cristiani nel mondo sono chiamati a un’esistenza di riconciliati, per tradurre la novità della pace cristiana nell’oggi della storia. Gli interrogativi pressanti che ci sono consegnati dal tempo che viviamo saranno affrontati nella Tavola rotonda coordinata da Jim Forest, segretario internazionale della Associazione ortodossa per la pace, cui prenderanno parte Amal Dibo (Beirut), Pantelis Kalaitzidis, (Volos), Aleksandr Ogorodnikov (Mosca) e Konstantin Sigov (Kiev).

La giornata conclusiva del Convegno, grazie alle relazioni di John Chryssavgis (Boston) e del metropolita di Diokleia Kallistos Ware (Oxford), cercherà di offrire indicazioni concrete: la pace non è solo un evento interiore, ma implica la custodia di tutto il creato, un’azione e un impegno nel mondo. Le conclusioni del convegno sono affidate a Michel Van Parys, abate dell’Abbazia di San Nilo di Grottaferrata. “Chi ci insegnerà la bellezza della pace?”, si chiedeva san Basilio il Grande, rispondendo: “L’artigiano stesso della pace”, che ha “stabilito la pace con il sangue della sua croce tra le cose del cielo e della terra (Col 1,20)”. Diventare artefici di pace significa esercitarsi a vedere la bellezza della pace e viverla, per ritrovarne la forza di attrazione e dilatare la speranza di pace nel mondo.

Particolarmente ricca la presenza dei delegati delle Chiese. Delegato del patriarca Bartolomeos I di Costantinopoli è il metropolita Athenagoras del Belgio, mentre l’archimandrita Athenagoras Fasiolo rappresenterà il metropolita d’Italia Ghennadios. La delegazione del patriarcato di Mosca è guidata dal vescovo Kliment di Krasnoslobodsk, insieme all’igumeno Arsenij (Sokolov) e a padre Aleksej Dikarev; ai lavori parteciperà anche l’arcivescovo Zosima di Vladikavkaz e Makhachkhla. La Chiesa ortodossa ucraina è rappresentata dai vescovi Ilarij di Makariv, vicario di Kiev, dal vescovo Filaret di Leopoli e Galizia, dall’archimandrita Filaret (Egorov) e dagli ieromonaci Leontij (Tupkalo) e Dosifej (Michailiuk); la Chiesa ortodossa bielorussa dal vescovo Stefan di Gomel e Žlobin e da padre Nikolaj Bolochovskij; la Chiesa ortodossa serba dal vescovo Andrej Čilerdžić (Vienna), la Chiesa ortodossa romena dal metropolita Serafim di Germania, e da padre Atanasie Rusnac; la Chiesa ortodossa bulgara dai metropoliti Dometian di Vidin e Antonij (Mihalev) dell’Europa occidentale. Per la Chiesa di Cipro sarà presente il vescovo Gregorios di Mesaorias e per quella di Grecia il metropolita Ioannis di Thermopylon; per la Chiesa ortodossa d’America i vescovi Alexander di Toledo e Melchisedek di Pittsburgh. Il Patriarcato di Antiochia sarà rappresentato da padre Porphyrios (Giorgi); la Chiesa Apostolica Armena da padre Adam (Makaryan); la Chiesa d’Inghilterra dal vescovo Jonathan Goodall di Ebbsfleet.

Per la Chiesa Cattolica saranno presenti l’arcivescovo Antonio Mennini, Nunzio Apostolico nel Regno Unito, i vescovi Gabriele Mana di Biella, Marco Arnolfo di Vercelli, Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, Pier Giorgio Debernardi di Pinerolo, Alberto Silvani di Volterra, e p. Hyacinthe Destivelle, delegato del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani.

Il dottor Michel Nseir rappresenterà il Consiglio ecumenico delle Chiese.

Parteciperanno inoltre ai lavori S.E. Aleksandr Avdeev, ambasciatore della Federazione Russa presso la Santa Sede e S.E. Aleksandr Nurizade, console della Federazione Russa a Milano

Significativa la presenza di numerosi monaci e monache d’Oriente e Occidente.

Leggi tutto: Comunicato stampa inizialeNel corso del Convegno sarà presentato il volume Le età della vita spirituale che raccoglie gli Atti del Convegno dello scorso anno con contributi di: A. Arjakovsky, J. Behr, I. L. Bosch, S. P. Brock, A. Desnickij, P. Giorgi, M. Hamam, V. Karaghiannis, A. Louth, A. Mainardi, M. Marković, A. Papathanasiou, S. Paschalidis, A. Pleşu, N. Russell, K. Sigov, V. Thermos, M. Van Parys, M. Vasilijević, P. Vassiliadis, M. Želtov.

La fede cristiana entra nella storia degli uomini e delle donne, svela il senso del passare del tempo, trasmette una speranza che attraversa la catena delle generazioni: discernere questa totalità di senso nel passaggio da un tempo all’altro della vita significa imparare a vivere l’oggi, assumere la responsabilità dell’età adulta per progettare un futuro nuovo.

Il progetto del XXII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa è stato elaborato dal Comitato scientifico composto da: Enzo Bianchi (Bose), Lino Breda (Bose), Sabino Chialà (Bose), Lisa Cremaschi (Bose), Hervé Legrand (Parigi), Adalberto Mainardi (Bose), Antonio Rigo (Venezia), Luigi d'Ayala Valva (Bose), Michel Van Parys (Grottaferrata).

Relatori

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

RELATORI


ENZO BIANCHI

CYRIL HOVORUN

KALLISTOS DI DIOKLEIA 

ARISTOTLE PAPANIKOLAOU

PANAGHIOTIS YFANTIS

JIM FOREST

MICHAIL G. SELEZNEV

ADAM MAKARYAN

AMAL DIBO

ANDREJ DI AUSTRIA

Sr MAGDALENE di Maldon

PANTELIS KALAITZIDIS

CHRISTOS KARAKOLIS

NATALIJA IGNATOVICH

ALEKSANDR OGORODNIKOV

PORPHYRIOS GEORGI

ATHENAGORAS DEL BELGIO

KONSTANTIN SIGOV

DARIA MOROZOVA

VIKTOR MUTAFOV

MICHEL VAN PARYS

JOHN BEHR

ANCA MANOLESCU

 

SYMEON PASCHALIDIS

JOHN CHRYSSAVGIS

 


ARISTOTLE PAPANIKOLAOU, New York

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Per un’antropologia cristiana della pace

Sintesi
Sarà discusso il modo in cui il pensiero della Chiesa d’Oriente sulla virtù e in particolare la virtù del perdono, sia in grado di offrire risorse per illuminare e trasfigurare l’esperienza umana della violenza, che potenzialmente può innestarsi nell’aspirazione dell’uomo alla theosis – la comunione divino-umana. Un’antropologia della pace intesa in termini di theosis non significa aggirare l’esperienza della violenza, ma è una comunione con Dio e il prossimo, che potenzialmente include chi perpetra la violenza e si realizza in, attraverso, con e a partire dall’esperienza della violenza. La pace come comunione divino-umana non è la negazione del fatto della violenza, che rimane eternamente una parte della narrazione sia della vittima sia del carnefice, ma ne disinnesca il potenziale divisivo.

Biografia
Aristotle Papanikolaou è nato e cresciuto e Chicago, Illinois. È co-fondatore e Senior Fellow al Fordham’s Orthodox Christian Studies Center e al Center for the Study of Law and Religion presso l’Università di Emory. Nel 2012, ha ricevuto il premio di eccellenza per l’insegnamento universitario in discipline umanistiche. È appassionato di letteratura russa e di musica bizantina . Le sue aree di conoscenza comprendono la teologia ortodossa orientale, la teologia trinitaria, e la religione nella vita pubblica. Al momento sta elaborando uno studio sulla relazione tra antropologia teologica, violenza e virtù etiche. La sua ricerca esplora in particolare la rilevanza del dire la verità (confessione) per comprendere cosa significhi essere umani. La ricerca è parte di un progetto interdisciplinare e si concentra sull’effetto affettivo del dire la verità, cioè sull’impatto del dire la verità sull’ambito delle emozioni e dei desideri umani, e su come questo impatto sia condizionato dalla presenza o meno di particolari uditori. Ha ricevuto il premio Sabbatical Grant for Researchers dal Louisville Institute per il suo progetto The Ascetics of War (L’ascetica della guerra), che esplora la rilevanza della nozione ortodossa orientale di virtù e il ruolo del dire la verità per eliminare gli effetti affettivi della guerra sulla persona umana. Dalla prospettiva della antropologia teologica, è interessato alla questione di come il dire la verità possa illuminare la comprensione dell’identià, del peccato, della virtù, della comunicazione della grazia, una comprensione relazionale dell’individuo e la nozione ortodosssa di theosis (divinizzazione).

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MICHAIL G. SELEZNEV, Mosca

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I Salmi: violenza, riconciliazione e pace

Sintesi
Le immagini dei salmi biblici spesso sono spesso violentemente sconcertanti: “Quando leggiamo certi salmi, l’odio ci avvampa il volto, come il calore della stufa” (Lewis). Il grado di quest’odio che avvampa il volto è molto maggiore che nelle opere dell’antichità classica (“pagana”!). Non è un caso, per esempio, che all’epoca delle guerre di religione in Francia i salmi furono adottati come inni di battaglia da una delle parti in conflitto. Come si combinano queste immagini nella vita del cristiano? Infatti, il salterio è il fondamento della nostra preghiera liturgica, personale e comunitaria! Saranno sviluppati alcuni temi. L’esegesi allegorica dei salmi. Origene interpretò allegoricamente il salmo 136/137: le parole “Beato chi sfracellerà i tuoi bambini sulla roccia”, significano che bisogna spezzare le proprie inclinazioni peccaminose sulla pietra del Logos. L’aspetto emozionale dei salmi. La supplica che diviene grido. Lewis sui Salmi. La teoria di René Girard. Nella mitologia (al di fuori della Bibbia) la violenza collettiva è rappresentata dal punto di vista di chi usa violenza, la voce della vittima non si sente. Noi non sentiamo i lamenti e le maledizioni dei più sfruttati e oppressi. I salmi deprecatori – per la prima volta nella storia – danno voce alle vittime, ai “capri espiatori”. I Salmi nel contesto della Bibbia come un tutto. I Salmi come grido e domanda, la cui risposta sta al di là del Salterio. Analogia con il libro di Giobbe.

Biografia
Michail Georgievič Seleznev, nato a Mosca nel 1960, linguista e filologo, si è formato all’Università Michail Lomonosov di Mosca, dove si è laureato presso il dipartimento di Linguistica strutturale e applicata (1982), ha conseguito il dottorato presso la stessa Università in scienze filologiche nel 1986. Ha frequentato periodi di specializzazione all’Università di Amsterdam (1994-1995) e Gerusalemme (2000-2001). Tra il 1991 e il 2010 è stato il redattore capo della Società biblistica russa, e in tale veste tra il 1996 e il 2010 ha diretto il progetto della traduzione in russo contemporaneo dell’Antico Testamento. Dal 1999 è docente presso l’Istituto delle culture orientali e antiche dell’Università statale umanistica russa, e dal 2010 è professore di Biblistica presso il Dottorato interecclesiastico “Santi Cirillo e Metodio” del Patriarcato di Mosca (Ss Cyril and Methodius School of Post-Graduate and Doctoral Studies).

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ANDREJ DI AUSTRIA, SVIZZERA E MALTA, Vienna

Leggi tutto: RelatoriLa pace nella Divina Liturgia

Sintesi
Partendo dalla constatazione che la pace non soltanto è la “madre di tutti i beni” come afferma Giovanni Crisostomo ma è lo scopo principale di tutta l’economia di salvezza realizzata da Cristo nella sua vita terrena e celebrata sacramentalmente nell’eucarestia, l’intervento analizza il ruolo che l’invocazione della pace ha nel contesto della divina liturgia ortodossa, soffermandosi in particolare sulla “litania di pace” iniziale, sui vari momenti in cui il vescovo (o presbitero) che presiede la celebrazione proclama “Pace a tutti!”, sul bacio di pace (con cui la pace non è solo invocata, ma anche realizzata, celebrata e sperimentata tra i fratelli), e sull’inizio dell’anafora eucaristica. La pace di cui si parla nella Divina liturgia ha sempre tre dimensioni: pace con se stessi, con il prossimo e con Dio: se essa richiede la libera accoglienza dell’uomo, non è però innanzitutto una realizzazione umana, ma un dono gratuito di Dio, in Cristo, il «Principe della pace».

Biografia
Il vescovo Andrej (Čilerdžić) è nato il 21.08.1961 a Osnabrück (Germany), secondo figlio del protopresbitero stavroforo Dobrivoje Čilerdžić. Ha iniziato gli studi presso la Facultà di teologia ortodossa della Chiesa ortodossa serba a Belgrado nel settembre 1981 e si è laureato il 25 marzo 1986. Ha emesso I voti monastici nel monastero di Dečani il 7 gennaio 1987, nelle mani del suo padre spirituale (allora ieromonaco, e adesso vescovo Irenej di Bačka). È stato ordinato ierodiacono l’8 marzo 1987 nella chiesa di S. Saba a Dusseldorf (Germania), dall’allora ordinario vescovo Lavrentije dell’Europa Occidentale. Dal 1992 è stato membro della comunità del Monastero dei Santi Arcangeli a Kovilj, nella diocesi Bačka. Dal 1993 al 2005 ha lavorato come segretario dell’ufficio per le relazioni inter-ecclesiali del Santo Sinodo dei vescovi della Chiesa ortodossa serba a Belgrado. Dal 2008 in qualità di studente PhD e scienziato associato, è stato coinvolto in una ricerca sulla ecclesiologia ortodosssa presso l’Istituto per la teologia ortodossa dell’Università di Monaco. Nel 2011 è stato eletto vescovo vicario del Patriarca serbo, con il titolo di vescovo di Remesiana. La santa Assemblea dei vescovi della Chiesa ortodossa serba lo ha eletto vescovo della diocesi di Austria-Svizzera e Malta con sede a Vienna, nella sessione regolare del 24 maggio 2014. Ha preso parte a molte conferenze ecumeniche e internazionali, a dialoghi e dibattiti teologici in Europa, Africa e Asia. È stato l’inviato della Chiesa ortodossa serba presso il Consiglio Ecumenico delle Chiese presso la Conferenza delle Chiese europee a Ginevra. Durante la guerra civile di Yugoslavia dal 1992 al 1995, e nel 1999 era conosciuto tra il popolo come il padre spirituale degli orfani di guerra, degli invalidi e dei rifugiati, dei quali egli si predeva cura come membro del monastero di  Kovilj e chierico del Patriarcato di Serbia, in cooperazione con le istituzioni ecclesiastiche di Grecia, Germania, Austria, Italia e Francia. 

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CHRISTOS KARAKOLIS, Atene

Leggi tutto: RelatoriLa pace, dono del Cristo risorto (Gv 20,19-21)

Sintesi
In modo paradossale per la logica intramondana, il sacrificio volontario di Gesù Cristo costituisce la sua vittoria definitiva contro le forze antidivine del “mondo”, come è dimostrato dall’evento della resurrezione. Nella sua prima manifestazione di fronte ai suoi discepoli il Signore Risorto dona loro la sua pace, ed è proprio questa pace il presupposto per l’invio in missione dei discepoli nel “mondo”, allo scopo di condurlo alla fede in Cristo e di conseguenza alla salvezza.

Biografia
Christos Karakolis è nato a Salonicco nel 1968. Laureato in teologia presso l’Univerisità Aristotele di Salonicco (1986-1990), ha frequentato studi post-laurea in Nuovo Testamento presso le Università di Regensburg (1991-1992) e di Tübingen (1992-1996). Ha ottenuto il dottorato in Nuovo Testamento sotto la guida del prof. Ioannis Karavidopoulos presso l’Univerisità Aristotele di Salonicco nel 1996. Dopo essere stato lettore e assistente in Nuovo Testamento presso le Facoltà di Teologia sociale (1998-2005) e di Teologia dell’Università di Atene (2005-2013) è ora, dal 2013, professore associato in Nuovo Testamento presso la Facoltà di Teologia dell’Università di Atene. Tra le sue attività internazionali è stato Visiting Scholar presso l’Istituto di Teologia Ortodossa all’Univeristà di Monaco (2007-2009) e Visiting Lecturer presso l’Istituto di Studi Cristiani Ortodossi a Cambridge (2010) e ha tenuto lezioni presso l’Università di Regensburg (2012-2013).

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PORPHYRIOS GEORGI, Balamand

Leggi tutto: RelatoriPace e operatori di pace nei commenti dei padri

Sintesi
La conferenza, ripercorrendo i testi dei padri della chiesa, mostra come, secondo il loro pensiero, la pace cristiana non è un fatto puramente morale o sociale, ma è prima di tutto un evento spirituale e ontologico. La pace per i padri trova anzitutto sostanza e verità nella persona storica di Cristo: è lui la “nostra pace”, come dice l’Apostolo (cf. Ef 2,13-18). Nella sua economia di salvezza, infatti, egli ha fatto dono alla creazione intera di una pace che “è al di là di ogni intelligenza” (Fil 4,7).
Questa pace è anche “pace dello Spirito santo”, poiché è la presenza dello Spirito che dona all’uomo la possiblità di superare il suo ego limitato e di realizzare una vera riconciliazione con Dio e con la sua creazione. Per accogliere però tale pace donata da Cristo nello Spirito santo, l’uomo deve porsi sulla via della conversione (metanoia): in questo senso la pace presuppone necessariamente la “guerra” interiore e spirituale per la purificazione dalle passioni e dai vizi che dividono l’uomo. La pace di Cristo secondo i padri non trova spazio nel mondo e nella storia, ma può essere realizzata nella chiesa e grazie alla chiesa, concepita come autentico “laboratorio di pace”, in cui in cui vengono generati i santi come veri pacifici e artefici di pace.

Biografia
Il diacono Porphyrios è decano dell’Istituto di Teologia «San Giovanni Damasceno» presso l’Università di Balamand e professore associato di teologia dogmatica presso il medesimo Istituto. È anche visiting professor in numerose facoltà teologiche internazionali, in particolare, presso la Facoltà di Teologia dell’Università Aristotele di Slaonicco in Grecia, presso l’Università di Stato «Alexandru I Cuza» di Iasi, e presso l’Università «Lucian Blaga» di Sibiu in Romania. È ben noto come prolifico studioso che ha preso parte a numerosi convegni internazionali dedicati al cristianesimo antico e alla teologia tardo-bizantina, a dialoghi inter-cristiani, alla teologia, e al pensiero ortodosso contemporaneo. Ha pubblicato molti libri, in particolare una trilogia di conferenze tenute a Balamand a partire dal 2007. La sua tesi dottorale La resurrezione e la vita: l’escatologia di san Gregorio Palamas  è stata adottata come libro di testo per i corsi universitari di patrologia presso l’Università di Salonicco.

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DARIA MOROZOVA, Kiev

Leggi tutto: RelatoriLa riconciliazione nella Chiesa: san Clemente Romano

Sintesi
Scarse sono le notizie sicure su San Clemente di Roma. È accertato che sia l’autore della prima lettera di Clemente ai Corinzi, scritta al fine di portare la pace nella chiesa di Corinto lacerata dai conflitti. La tradizione della Chiesa custodisce molte più informazioni su San Clemente, la cui figura è, in modo molto diverso, legata alla memoria di moltissime comunità cristiane e vicine al cristianesimo. Clemente è da un lato l’eroe dell’affascinante Vita, del martirio e di altri testi agiografici, dall’altro l’autore delle lettere pseudo clementine, e ancora l’autore delle opere letterarie antico slave; è il Clemente di Gregorio di Tours, della Leggenda aurea e della saga islandese: tutti questi personaggi sono significativamente diversi l’uno dall’altro, ma al tempo stesso a modo loro esprimono l’idea del santo vescovo operatore di pace. Particolarmente interessante su questo piano è il culto antico russo di San Clemente al quale sarà dedicata una particolare attenzione nella nostra relazione. L’attività missionaria dei santi Cirillo e Metodio, strettamente legata alla ritrovamento delle reliquie del santo papa Clemente, sarà considerata come importante fattore nello stabilimento di questo culto e come una nuova interpretazione della sua personalità e delle sue idee.

Biografia
Daria Morozova è nata nel 1981 a Kiev, in Ucraina. È membro dell’istituto di ricerca e casa editrice “Dukh i Litera”(“Spirit and Letter”). Si è laureata presso l’Università Nazionale “Kyiv-Mohyla” nel 2008, e nel 2010 ha difeso una tesi sul tema: “L’uomo e l’ambiente secondo la tradizione ascetica bizantina”. Al momento sta lavorando alla sua tesi di dottorato in teologia (“L’antropologia e la scuola antiochena, e la sua eredità nella tradizione ortodossa orientale”). I suoi interessi di ricerca comprendono la patrologia greca, il cristianesimo in Siria, la medicina bizantina, la dossologia, e gli antichi canti ecclesiastici.

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JOHN BEHR, New York

Leggi tutto: RelatoriLa pace tra le Chiese: sant’Ireneo di Lione

Sintesi
La conferenza esamina l’attività di s. Ireneo di Lione tra le comunità cristiane di Roma nel promuovere la pace tra le chiese facendo appello alla tolleranza e alla diversità. È stato un momento eccezionale nella storia della cristianità, perché in Ireneo vediamo, per la prima volta, un’esposizione esplicita e autoconsapevole dell’ortodossia, fatta però in un modo aperto alla polifonia della sinfonia della salvezza divina; questa visione, come vedremo, ha guidato Ireneo nella sua attività di portatore di pace nei conflitti tra le comunità di Roma, spingendolo a considerare le differenze nella pratica come una testimonianza dell’unità nella fede.

Biografia
P. John Behr è decano del Seminario di St Vladimir’s Seminary e professore di Patristica. Tiene corsi di patristica, dogmatica ed esegesi biblica al Seminario, e alla Fordham University, dove è Distinguished Lecturer in Patristics. P. John proviene dall’Inghilterra, anche se la sua famiglia è di origine russa e tedesca – attiva nella chiesa da entrambe le parti. Dal lato russo, suo nonno fu inviato a Londra nel 1926 dal Metropolita Evlogij per svolgervi il ministero presbiterale; suo padre, anch’egli presbitero, fu ordinato dal Metropolita Anthony (Bloom), come anche suo fratello (Monastero di San Paolo sul Monte Athos) e suo cognato (Ss. Cirillo e Metodio, Terryville, CT). I suoi nonni materni si incontrarono al seminario universitario di Karl Barth a Basilea, e servirono nella Chiesa Luterana, dove suo nonno fu pastore luterano. Dopo essersi laureato in filosofia a Londra nel 1987, p. John ha trascorso un anno di studio in Grecia. Ha completato un Master in Studi Cristiani orientali presso la Oxford University, sotto la direzione del vescovo Kallistos (Ware), che è stato anche supervisore della sua tesi dottorale, che è stata esaminata da Andrew Louth e Rowan Williams, poi Arcivescovo di Canterbury. Mentre lavorava al dottorato, è stato invitato come Visiting Lecturer al Seminario di St Vladimir nel 1993, dove è stato membro permanente della facoltà dal 1995, e professore ordinario dal 2001. Prima di diventare decano nel 2007, è stato direttore editoriale della rivista St Vladimir’s Theological Quarterly. Dirige tuttora la Popular Patristics Series per la casa editrice SVS Press. I suoi primi lavori sono stati su temi ascetici e antropologici, con attenzione particolare a Ireneo di Lione e Clemente di Roma. Dopo aver dedicato quasi un decennio della sua ricerca al secondo secolo, p. John ha iniziato la pubblicazione di una serie di volumi sulla formazione della teologia cristiana, e ora ha raggiunto il quinto e il sesto secolo. Ha recentemente completato l’edizione, la traduzione e l’introduzione dei testi di Diodoro di Tarso e di Teodoro di Mopsuestia. Ha anche pubblicato una presentazione sintetica della teologia dei primi secoli, centrata sul mistero di Cristo.

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SYMEON PASCHALIDIS, Tessalonica

Leggi tutto: RelatoriConflitto e riconciliazione: i padri del deserto

Sintesi
Nella conferenza si presenta lo schema bipolare “conflitto-riconciliazione (pacificazione)” come emerge attraverso l’insegnamento dei padri, e in particolare dei padri “neptici”, nelle loro opere ascetiche e nelle raccolte degli Apoftegmi. Nella tradizione patristica il concetto di pace e di riconciliazione, sensibilmente diverso dal significato mondano della pace, si estende a questi tre ambiti:

- Il conflitto e la riconciliazione dell’uomo con Dio, quale si esprime nell’evento primordiale della Caduta e della riconciliazione del mondo con Dio per mezzo dell’incarnazione del Verbo, evento che è perpetuamente vissuto dalla Chiesa attraverso la Liturgia di pace.
- Il conflitto e la pace tra i fratelli, pace che supera i criteri convenzionali ed esteriori della pace del mondo e si eleva a un livello spirituale, cooperando insieme ad altre virtù spirituali, quali l’amore, l’umiltà e la giustizia.
- La pace di Dio dentro di noi, che vince la ribellione della natura umana e le sue passioni, e i conseguenti turbamento e agitazione che esse provocano all’uomo, e rende l’uomo di Dio “pacifico”, qualità che si caratterizza come un elemento specifico dei cristiani.
La pace in Cristo progressivamente diventa perfetta e insieme all’amore costituisce il più alto bene spirituale che riporta l’uomo alla condizione paradisiaca.

Biografia
Symeon Paschalidis è nato a Salonicco nel 1967. Dopo I suoi studi di teologia presso l’Università Aristotele di Salonicco, di paleografia greca presso l’Istituto Patriarcale di Studi Patristici, e di lingua bulgara presso l’Università Kliment Ohridski di Sofia, ha ottenuto il master e il dottorato in teologia presso l’Università Aristotele di Salonicco (1998). È attualmente professore associato di patristica e agiografia presso la Facoltà di Teologia dell’Università Aristotele di Salonicco. È direttore del Programma di Studi Post-Universitari della Scuola di Teologia Pastorale e Sociale e del Centro Ss. Demetrio e Gregorio Palamas. È membro dei consigli di amministrazione dell’Istituto Patriarcale di Studi Patristici, del Centro per la Ricerca Bizantina dell’Università Aristotele di Salonicco (2008- 2010, è stato eletto presidente del Centro dal senato accademico per gli anni 2012-2014) e del Centro per la Custodia dell’Eredità Athonita (KEΔAK) del Ministero di Macedonia e Tracia. Collaboratore esterno dell’Istituto per la Ricerca Bizantina della Fondazione Nazionale Greca per le Ricerche (Atene) e del Mount Athos Center (Salonicco).

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CYRIL HOVORUN, Yale

Leggi tutto: RelatoriPace cristiana e riconciliazione umana. Il dilemma di libertà umana e coercizione nelle relazioni tra stato e chiesa

Sintesi
La conferenza esamina la storia e gli attuali problemi delle relazioni chiesa-stato riguardo al tema della coercizione. L’autore sostiene che la comprensione cristiana della libertà umana è la chiave per affrontare questo argomento. L’approccio dell’autore include sia la tradizione teologica orientale che quella occidentale. Parte dalle posizioni fondamentali di S. Giovanni Crisostomo e Agostino, fa una breve retrospettiva attraverso il Medioevo e la Riforma e arriva alle considerazione moderne sulla violenza, quando quest’ultima viene esercitata dallo stato nei confronti della chiesa. La conclusione è che hanno velore etico e spirituale soltanto quelle azioni e decisioni umane che sono compiute attraverso il libero assenso della persona. Ogni coercizione che viola la libertà umana priva le azioni umane di valore morale.

Biografia
L’archimandrita Cyril Hovorun è research fellow presso l’Università di Yale. Ha lavorato per il Patriarcato di Mosca come presidente del Dipartimento per le Relazioni Esterne della Chiesa Ortodossa Ucraina, come primo assistente del presidente del Comitato per l’Educazione della Chiesa Ortodossa Russa, e vice-rettore della Scuola Post-Universitaria e Dottorale della Chiesa Ortodossa Russa. In rappresentanza della chiesa Ortodossa Russa, ha partecipato ad alcuni dialoghi ecumenici, tra cui quello con la Chiesa Cattolica, Luterana e Anglicana e con le Chiese Orientali. Padre Cyril ha insegnato in Russia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Cina, e altre nazioni. Il suo principale ambito di interesse è la patristica post-calcedonese. Attualmente lavora su “Ecclesiologia e teologia pubblica”.

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PANAGHIOTIS YFANTIS, Atene

Leggi tutto: RelatoriSan Francesco di Assisi

Sintesi
La relazione presenta la testimonianza di Francesco intorno alla pace attraverso i testi del medesimo e le primitive fonti francescane, e in rapporto con le sfide esterne della società e con le tensioni intraecclesiastiche dell’epoca. In altrettante sezioni sono sviluppati: il contenuto biblico della pace francescana, i presupposti ascetici per conseguirla e viverla e le sue varie espressioni nelle relazioni del santo con Dio stesso, con il prossimo e con l’intera creazione.

Biografia
Panaghiotis Yfantis è nato ad Atene nel 1966. Ha studiato teologia (1983-1987) presso la Facoltà di Teologia dell’Università di Atene. Ha frequentato studi post-universitari presso l’Istituto di studi Ecumenici “San Nicola” di Bari (1988-1990) con specializzazione in storia della chiesa. Nel 1993 ha vinto il “Premio delle Lettere e delle Arti” dell’Accademia di Atene per la ricerca storica su “Il contributo del Sacro Monastero della Grande Grotta a Kalavryta nella vita nazionlae e spirituale della Grecia fino alla fine della II Guerra Mondiale”. Dal 1995 al 2006 ha lavorato come professore di teologia nelle scuole secondarie, e dal 2004-2006 come professore presso la Accademia Superiore Ecclesiastica di Creta. Nel 2004 ha ottenuto il dottorato con la tesi: “La teologia di Francesco di Assisi: un approccio critico ortodosso” presso la Facoltà di Teologia dell’Università Aristotele di Salonicco. Dal 2010 è professore associato presso la Facoltà di Teologia dell’Università Aristotele di Salonicco. Tra I suoi interessi di ricerca vi è lo studio del monachesimo e della letteratura ascetica sia della tradizione orientale che occidentale, e lo studio comparato della teologia e spiritualità ortodossa e occidentale, dal tempo del Grande Scisma fino a oggi. Tra gli altri testi importanti, ha tradotto in greco le fonti letterarie dell’antica tradizione francescana.

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ADAM MAKARYAN, Etchmiadzin

Leggi tutto: RelatoriSan Nerses di Lambron e la sua dottrina della pace

Sintesi
Nerses di Lambron è uno degli uomini ecclesiastici e teologi illustri della Chiesa apostolica armena del XII secolo. Nei suoi scritti troviamo sviluppata un’estesa dottrina sulla pace, in particolare nell’Oratio e nell’Interpretazione della liturgia. Secondo quest’insegnamento, la concezione della pace può essere classificata come pace ecclesiale, corporale e spirituale e pace nella relazione tra uomo e Dio.
Le spiegazioni di Nerses sono basate sulla comparazione allegorica con gli eventi della Bibbia e anche sull’interpretazione della Sacra Scrittura. Nel pensiero di questo grande teologo armeno molte sono le somiglianze con gli insegnamenti dei teologi della Chiesa cattolica. Nerses di Lambron accentua l’importanza della pace tra le nazioni cristiane e le chiese, criticando le divisioni nelle controversie che non sono espressione del comandamento del Signore dell’amore cristiano. Per la pace materiale, secondo questo teologo, sono necessari dei re con una vita pia. Secondo la sua opinione, la pace tra Dio e l’uomo non può essere ottenuta senza realizzare la pace tra gli uomini, che è il segno della pace nelle relazioni tra l’uomo e Dio.

Biografia
Adam Makaryan ha studiato teologia al Seminario teologico della Sede Madre della Chiesa armena di Santa Etchmiadzin, dove ha insegnato esegesi del Nuovo Testamento dal 2002 al 2006. Dal 2010, è membro del concilio teologico della Sede Madre ed è nel consiglio della Società biblica Armena. Attualmente padre Adam è segretario della Catholicos di tutti gli armeni.

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Sr MAGDALENE DI Maldon

Leggi tutto: RelatoriLa pace interiore e l’amore per il nemico: san Silvano dell’Athos

Sintesi
Silvano del Monte Athos († 1938) ha vissuto e insegnato l’amore per il nemico a un livello raramente raggiunto nella tradizione ascetica. L’archimandrita Sofronio, suo discepolo ed editore dei suoi scritti, rileva che mentre nell’insegnamento del suo maestro sono ben visibili echi della tradizione passata, egli sa mettere sotto una luce nuova il comandamento di Cristo. La nostra presentazione farà ricorso alle parole di san Silvano per illuminare diversi aspetti del tema dell’amore per il nemico, in particolare alla luce della beatitudine “Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio”. Alcuni di questi aspetti sono: predicare la pace; amare i nemici della chiesa; vivere in una comunità; preservare la pace dentro di noi.
Colui che ama i suoi nemici arriva a conoscere il Signore, e il Signore insegna l’amore per i nemici; c’è un movimento circolare che non è analizzato teoricamente da san Silvano, ma che merita particolare attenzione. San Silvano stesso ritorna spesso sullo stretto legame tra pace, amore del nemico e umiltà.
L’amore dei nemici è un dono della grazia. Tuttavia è anche un comandamento. Che cosa potremmo fare se non ci fosse stato consegnato il comandamento dell’amore?

Biografia
Sister Magdalen è una monaca ortodossa del monastero di San Giovanni il Precursore vicino a Maldon in Essex (Inghilterra), fondato dall’archimandrita Sofronio nel 1959. Padre Sofronio era uno stretto discepolo di san Silvano (1866-1938) al monastero di San Panteleimon sul Monte Athos, e l’insegnamento di San Silvano è alla base della vita della Comunità. Suor Magdalen è diventata ortodossa in giovinezza ed è entrata nella Comunità nel 1975, dopo aver studiato teologia all’Università di Londra. Tiene regolarmente conferenze ed è autrice di vari libri e pubblicazioni.

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NATALIJA IGNATOVICH, Mosca

Leggi tutto: RelatoriSiamo pacifici e saremo tuoi figli. La fraternità operaia di Nikolaj Nepluev (1851-1908)

Sintesi
La fraternità dell’Esaltazione della Santa Croce fu fondata da Nikolaj Nepluev in Ucraina alla fine del xix secolo. Il suo punto focale era la necessità del pentimento e l’unione dei cristiani. Secondo Nepluev l’autentica opera per la pace è mettere pace tra gli uomini e Dio, e attraverso ciò raggiungere la pace tra gli uomini. Il suo frutto è l’unità fraterna per le buone opere nella pace.
Non è un caso che la comunità fu chiamata fraternità di lavoro dell’Esaltazione della Santa Croce: il lavoro era particolarmente importante. Una fattoria esemplare incarnava la prospettiva cristiana sulla società, sull’ecologia e sul lavoro.
Nel primo decennio del xx secolo, quando le idee rivoluzionarie avevano crescente importanza, Nikolaj Nepluev si sforzò di promuovere l’unione per la causa della pace. Cercò di fondare una Fraternità panrussa e un Partito del progresso pacifico, ma non trovò abbastanza seguaci. Nepluev morì nel 1908, senza vedere l’adempiersi dei suoi oscuri presagi nell’anarchia rivoluzionarie.

Biografia
Natalija Ignatovič si è laureata con una tesi dedicata a Nikolaj Nepluev e alla sua fraternità di lavoro dell’Esaltazione della Santa Croce (1849-1929). In seguito ha presentato i risultati della sua ricerca in una serie di articoli e contributi a convegni. Ha partecipato alla realizzazione di un film e di una mostra su Nepluev, e ne ha curato la riedizione delle opere. Il film, la mostra e l’edizione sono stati realizzati dall’Istituto cristiano ortodosso San Filarete, dove attualmente insegna. La scelta dell’argomento non è casuale, poiché la stessa Ignatovich è membro della Fraternità della Trasfigurazione fondata da padre Georgij Kočetkov. 

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ATHENAGORAS DEL BELGIO, Bruxelles

Leggi tutto: RelatoriIl patriarca Atenagora e il dialogo della carità

Sintesi
«Come ha potuto un bizantino nato in un villaggio dell’Epiro diventare il paladino del dialogo ecumenico e del riavvicinamento tra le chiese cristiane ?». La relazione tenta di rispondere a questa domanda ripercorrendo le varie tappe della vita e della carriera ecclesiastica del patriarca Athenagoras: nascita in territorio dell’impero ottomano, studi teologici a Halki, ordinazione diaconale e ministero pastorale durante le guerre balcaniche, prime esperienze ecumeniche, breve permanenza al Monte Athos, servizio come segretario presso il Santo Sinodo ad Atene, elezione a metropolita di Corfù, poi ad arcivescovo di America e infine a Patriarca ecumenico, instancabile attività nella prepazione del Grande Sinodo panortodosso e nel dialogo ecumenico e in particolare nel “dialogo della carità” con la Chiesa Cattolica Romana,  fino allo storico incontro con il papa Paolo VI a Gerusalemme il 5 gennaio 1964 e alla «cancellazione degli anatemi reciproci », avvenuta simultaneamente a Roma e a Costantinopoli il 7 dicembre 1965. In tutto questo percorso è costante la sua convinzione che “senza ritorno alla religione dell’amore e del perdono, la pace non potrà regnare” e che “niente al mondo giustifica la separazione e l’isolamento delle chiese cristiane.

Biografia
Sua Eminenza il metropolita Athenagoras del Belgio è nato nel 1962 a Ghent in Belgio. Dopo aver studiato legge all’Università di Ghent si iscrive all’Università di Salonicco grazie a una borsa di studio del patriarcato ecumenico. Si laurea in teologia e continua i suoi studi all’Istituto ecumenico di Bossey all’Università di Ginevra, laureandosi con una tesi sulla Storia della presenza ortodossa in Belgio e la sua importanza per il movimento ecumenico.
Nel novembre 1989 è ordinato diacono dal metropolita Bartolomeo di Filadelfia, attuale patriarca ecumenico, che gli dà il nome di Athenagoras in onore del grande patriarca Athenagoras. Nel settembre 1996 è promosso archimandrita e poi vicario episcopale dell’arcidiocesi del Benelux. Per cinque anni insegna religione in varie scuole superiori nelle Fiandre. All’inizio del 1994 il metropolita Panteleimon lo nomina responsabile per il Belgio per i programmi radiotelevisivi in lingua francese e fiamminga. Nello stesso anno il Santo sinodo del patriarcato ecumenico lo nomina collaboratore dell’ufficio di rappresentanza della Chiesa ortodossa presso l’Unione europea a Bruxelles. Dal 1995 il diacono Athenagoras fonda, con la benedizione del metropolita Panteleimon, una parrocchia ortodossa a Bruges, dedicata ai santi imperatori Costantino ed Elena, di cui è il primo rettore. 
Il 13 maggio 2003 è eletto dal Santo Sinodo del patriarcato ecumenico di Costantinopoli vescovo ausiliario del metropolita del Belgio, con il titolo di vescovo di Sinope.
È membro del concilio delle chiese cristiane in Belgio, della commissione “Un’anima per l’Europa”, e presidente dell’Associazione internazionale e interconfessionale per gli incontri dei monaci e delle monache, dopo essere stato presidente della Commissione interecclesiale di Bruxelles. Parla correntemente fiammingo, greco, francese, inglese e tedesco.

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VIKTOR MUTAFOV, Sofia

Leggi tutto: RelatoriPadre Stefan Zankov, un pioniere della riconciliazione tra i cristiani

Sintesi
La conferenza presenta la figura di Stefan Zànkov (1881-1965), teologo bulgaro che è stato tra i pionieri del movimento ecumenico in ambito ortodosso: insieme con altri cristiani ortodossi e non, si è consacrato infaticabilmente al lavoro ecumenico nell’arco di quarantacinque anni, collaborando attivamente anche al Movimento mondiale per la pace. La sua ricerca teologica e la sua attività in favore della riconciliazione e della pace sono state sempre guidate dalla volontà di realizzare il desiderio di Dio che “tutti siano uno” (Gv 17,11), nell’amore e nella fraternità, e dalla radicata convinzione che la guerra sia l’essenza del male umano. In ambito ecclesiologico manifestò vedute assai larghe e avanzate: secondo lui, nonostante le divisioni esistenti, la Chiesa di Cristo rimane una e indivisibile, e anche le chiese separate dalla chiesa ortodossa sono chiese “sorelle”. Insieme ad altri promotori del dialogo ecumenico, egli si dichiarava convinto che i muri di divisione che i cristiani hanno elevato tra di loro non arrivano fino al cielo.

Biografia
L’archimandrita Viktor Mutafov è nato a Ruse, in Bulgaria, nel 1964. Dopo gli studi teologici in Bulgaria, si è perfezionato a Roma presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, dove ha conseguito la licenza in storia della teologia con una tesi sulla Partecipazione della Chiesa ortodossa bulgara nel movimento ecumenico mondiale (2005), e successivamente al Pontificio Istituto Orientale, dove ha conseguito la licenza in teologia (Il dialogo ecumenico bilaterale tra la Chiesa ortodossa e la Comunione anglicana, 2007), e il dottorato con una ricerca dedicata a Stefan Zankov antesignano del Movimento Ecumenico (2013).
Dal 2007 è Responsabile per le relazioni ecclesiastiche della diocesi di Ruse con le altre chiese cristiane, e dal 2008 presidente della Commissione per la canonizzazione dei santi vittime del regime comunista.

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ANCA MANOLESCU, Bucarest

Leggi tutto: RelatoriLa pace cristiana come dialogo: padre André Scrima

Sintesi
Un tema importante in André Scrima (1925-2000) è il dialogo delle religioni, che comprende molti aspetti e molte funzioni. Si tratta di una tematica che può stimolare sia la riflessione sia il vissuto cristiani, affinché superino le identità strette, chiuse, per assumere più intensamente la loro vocazione essenziale. Oggetto di ermeneutica per André Scrima, ma ugualmente al centro della sua attività accademica all’Istituto di studi islamico-cristiani di Beirut, questo tema esige, secondo lui, una creatività da parte del pensiero cristiano per essere fedele alle sue stesse origini.
Il mio intervento tratterà qualche punto particolare di questa concezione: 1) le precondizioni intellettuali e spirituali del dialogo; 2) il senso verticale del tema, che tende a una esperienza intensificata dell’universale di Dio; 3) la relazione che lega il tema del dialogo alla conoscenza spirituale e a una pace creatrice.

Biografia
Dottore in filosofia all’Università di Bucarest, Anca Manolescu è stata ricercatrice in antropologia religiosa al Dipartimento di antropologia culturale del museo della cultura contadina romena a Bucarest dal 1990 al 2002. Attualmente è ricercatrice indipendente. I suoi domini di interesse sono l’antropologia religiosa e lo studio comparato delle religioni. Già borsista al New Europe College di Bucarest, ne ha organizzato e studiato l’archivio “André Scrima”. È editrice della serie delle opere di André Scrima presso le edizioni Humanitas di Bucarest. È membro del Centro di studi medievali dell’Università di Bucarest.

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JOHN CHRYSSAVGIS, Boston

Leggi tutto: RelatoriPer la pace del mondo intero: operare la pace e custodire il creato

Sintesi
La relazione indagherà la stretta connessione tra le beatitudini di Cristo, il dovere di lavorare per la pace nel mondo, e la vocazione di proteggere l’ambiente naturale. Considerando l’invocazione liturgica “per la pace del mondo intero” inclusiva di ogni aspetto e dettaglio della creazione di Dio, povertà e consolazione, mitezza e fame, misericordia e purezza, come anche pace e persecuzione – come sono invocate da Cristo nel Discorso sulla montagna – saranno messe in relazione alla nostra responsabilità di custodire il creato e trasformare il mondo intero.

Biografia
John Chryssavgis arcidiacono del patriarcato ecumenico, nacque in Australia nel 1958. Ha studiato teologia all’Università di Atene, musica bizantina al Conservatorio greco di musica (1979) e ha ottenuto una borsa di studio presso il Seminario teologico San Vladimir a New York nel 1982. Ha completato il dottorato in studi patristici all’Università di Oxford nel 1983. Ha insegnato numerose discipline, da temi politici e sociali ad argomenti storici, incluse le relazioni culturali e religiose e le tensioni tra Oriente e Occidente. I suoi interessi abbracciano gli ambiti della spiritualità, dell’ecologia e la liturgia.
La sua ricerca si è specializzata sul pensiero ascetico e la pratica della chiesa primitiva. Ha lavorato con il primate greco ortodosso in Australia dal 1984 al 1994 ed è stato cofondatore del Collegio teologico Sant’Andrea a Sidney, dove è stato vice decano e ha insegnato patrologia e storia della Chiesa. Ha insegnato anche alla scuola di studi religiosi dell’Università di Sydney. Nel 1995 si è trasferito a Boston, dove è stato nominato professore di teologia alla Holy Cross School of Theology e dove ha diretto il programma di studi religiosi del collegio greco fino al 2002. Nella stessa scuola è stato nominato all’ufficio sull’ambiente. Ha insegnato anche come professore di patrologia all’Università di Balamand in Libano. In anni recenti ha pubblicato numerosi libri e innumerevoli articoli su riviste internazionali ed enciclopedie nell’ambito della religione e dell’ecologia, della giustizia sociale e della pace. È consultore teologico del patriarca ecumenico sulle questioni ecologiche.

https://independent.academia.edu/JohnChryssavgis

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KALLISTOS DI DIOKLEIA, Oxford

Leggi tutto: RelatoriDiventare artefici di pace

Sintesi
Sant’Ignazio di Antiochia afferma che “non c’è nulla meglio della pace”: e nello stesso spirito san Basilio di Cesarea definisce la pace “la più perfetta delle benedizioni”. Nella Scrittura e nella pratica liturgica della Chiesa sono messi in rilievo soprattutto quattro aspetti della pace:

1) La pace non è semplicemente una disposizione interiore, individuale e privata, ma è sociale e comunitaria.
2) La pace non è qualcosa di negativo e passivo – uno stato di calma e quiete, l’assenza di tensione interiore, l’evitare la guerra – ma è positiva e dinamica: non un’assenza ma una pienezza; così implica una costante vigilanza e uno strenuo sforzo.
3) La pace in se stessa non è sempre desiderabile e buona; c’è una distinzione vitale tra vera e falsa pace.
4) La pace è cristologica ed escatologica; significa l’irruzione e l’invasione – per Cristo e lo Spirito santo – degli Ultimi tempi nell’attuale ordine del mondo. In questo modo non è semplicemente una qualità conservativa, la preservazione dello status quo, ma ha carattere radicale, innovativo, rivoluzionario.

Biografia
Il metropolita Kallistos (Timothy Ware) è nato a Bath, nel Somerset in Inghilterra, e ha studiato alla Westminster School e al Magdalen College di Oxford, dove ha ottenuto un doppio titolo in letteratura classica e in teologia. Nel 1958, dopo aver aderito alla fede ortodossa, ha viaggiato a lungo in Grecia, trascorrendo molto tempo al monastero di San Giovanni il Teologo a Patmos. Ha frequentato anche altri importanti centri dell’ortodossia come Gerusalemme e il Monte Athos. Nel 1966 è stato ordinato prete e tonsurato monaco, con il nome di Kallistos in onore di San Callisto Xanthopoulos. Nello stesso anno è diventato assistente a Oxford in studi dell’oriente ortodosso, un posto che ha tenuto per trentacinque anni fino al suo pensionamento. Nel 1979 è Fellow al Pembroke College di Oxford. Nel 1982 è consacrato vescovo con il titolo di Diokleia, come ausiliare della diocesi di Tiatira e della Gran Bretagna del patriarcato ecumenico. Il vescovo Kallistos mantiene il suo incarico accademico a Oxford, dove cura la comunità greco-ortodossa locale. Dal suo pensionamento nel 2001, il metropolita ha continuato a pubblicare e a tenere conferenze sul cristianesimo ortodosso, viaggiando in tutto il mondo. Sino ad anni recenti è stato presidente del direttivo dell’Istituto di studi cristiani ortodossi a Cambridge. È presidente degli Amici dell’ortodossia a Iona. È nel consiglio dei consulenti dell’Associazione ortodossa per la pace. Il 30 marzo 2007 il Santo Sinodo del patriarcato ecumenico ha elevato la diocesi di Diokleia al rango di metropolia, e il vescovo Kallistos a metropolita titolare della medesima sede.

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JIM FOREST, Alkmaar

Leggi tutto: RelatoriBiografia
Jim Forest è autore di numerosi libri e pubblicazioni. È anche segretario internazionale della Associazione ortodossa per la pace. I suoi libri includono: La via per Emmaus: Pellegrinaggio come modo di vita; La scala delle beatitudini; Pregare con le icone; Vivere con saggezza: una biografia di Thomas Merton, e infine Tutto è grazia: una biografia di Dorothy Day. È prevista l’uscita per l’autunno del 2014 del libro: Amare il proprio nemico. Riflessioni sul comandamento più difficile. Jim è anche l’autore di numerosi libri per bambini. Le sue fotografie sono universalmente pubblicate e conosciute.

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 AMAL DIBO, Beirut

Leggi tutto: Relatori

Biografia
Amal Dibo è stata funzionario di diversi programmi dell’Unicef per l’assistenza ai rifugiati e sanitari, in particolare per campagne di vaccinazione, e per programmi di educazione sui diritti umani. È stata editore a Radio Sawa. Attualmente insegna storia della civiltà all’Università americana di Beirut ed è attiva in associazioni non governative per l’arte, la scienza, la cultura e la pace.

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PANTELIS KALAITZIDIS, Volos

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Biografia
Pantelis Kalaitzidis ha studiato teologia a Salonicco, filosofia antica e medievale a Parigi alla Sorbona. La sua tesi di dottorato tratta del problema della grecità e delle tendenze antioccidentali nella teologia greca degli anni ’60. Ha pubblicato tre libri e oltre settanta articoli in greco, francese, inglese, tedesco, romeno, serbo, russo, bielorusso e arabo, soprattutto nell’ambito della dimensione escatologica del cristianesimo, del dialogo tra cristianesimo ortodosso e modernità, tra teologia e letteratura moderna, su religione e multiculturalismo, sul nazionalismo religioso e il fondamentalismo, sul rinnovamento e la riforma nell’ortodossia e sull’ermeneutica post-moderna della tradizione patristica. Svolge un’intensa attività editoriale, curando i volumi che raccolgono gli atti dei convegni dell’Accademia di Volos, e cura la serie in lingua inglese: “Doxa & Praxis: Exploring Orthodox Theology” (WCC Publications). È stato visiting professor alla Scuola ortodossa greca di teologia di Holy Cross a Boston, al Princeton Theological Seminary e alla Princeton University. Gli ultimi quattordici anni lo hanno visto editore dell’Accademia degli studi teologici di Volos. Insegna teologia sistematica all’Hellenic Open University di Salonicco, e all’Istituto San Sergio di teologia ortodossa a Parigi.

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ALEKSANDR OGORODNIKOV, Mosca

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Biografia
Aleksandr Ogorodnikov è stato dissidente religioso in epoca sovietica, pacifista, e ha fondato diverse associazioni umanitarie russe. Suo padre era membro del partito comunista, ma la nonna lo battezzò segretamente. Dopo aver riscoperto la fede cristiana all’inizio degli anni ’70, Aleksandr fondò un Seminario cristiano clandestino, per lo studio e l’approfondimento del cristianesimo. Espulso dall’Università degli Urali per aver tentato di realizzare un film sulla vita religiosa, nel 1976, all’età di venticinque anni, Ogorodnikov fu rinchiuso in un ospedale psichiatrico per le sue convinzioni religiose; dimesso, fu di nuovo incarcerato dal 1978 al 1987, quando fu rilasciato da Gorbaciov nel corso della politica della glasnost’. Subito dopo la caduta del comunismo, Ogorodnikov fece ritorno a Mosca, e nel 1995 fondò l’Unione democratica cristiana russa e la Società cristiana di misericordia. Nello stesso anno diede inizio a una comunità di recupero per tossicodipendenti, l’Isola della speranza, che ha centinaia di ospiti in tutta la Russia.

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KONSTANTIN SIGOV, Kiev 

Leggi tutto: RelatoriBiografia
Konstantin Sigov (Kiev 1962) insegna storia delle idee teologiche e filosofiche all’Università statale “Accademia Moghiliana” di Kiev, e dirige il Centro di ricerche umanistiche europee.
Nel 1992 ha fondato l’Associazione culturale e editoriale “Lo Spirito e la Lettera” (Duch i Litera), di cui è tuttora direttore. I progetti editoriali sono stati il fondamento di una rete di contatti con le più importanti scuole di pensiero europee. Nell’ambito di questi progetti sono stati invitati a Kiev studiosi e filosofi quali Paul Ricœur, Reinhard Kozellek, Arvo Pärt, Kallistos Ware, Georges Nivat e altri.
Presso le edizioni da lui dirette, Konstantin Sigov ha in particolare curato la traduzione delle opere del Patriarca Bartolomeos I, del cardinal Walter Kasper, dell’arcivescovo Rowan Williams, di p. Enzo Bianchi, di p. Michel van Parys, e dei fondamentali documenti del dialogo ecumenico tra cattolici e ortodossi.
Dal 2000 a oggi organizza annualmente il forum ecumenico internazionale delle “Letture della Dormizione” (Uspenskie Čtenija), di cui cura l’edizione degli Atti.
La sua bibliografia conta oltre cinquanta titoli di studi di carattere filosofico e teologico e di storia della cultura, pubblicati in Italia, Francia, Germania, Stati Uniti, Inghilterra, Svizzera e Svezia. Ha tenuto lezioni alla Sorbona, alle Università di Oxford, Stanford, Roma, Ginevra, Lovanio e altre.
Il Ministero dell’Istruzione francese gli ha conferito l’Ordine di Chevalier dans l’Ordre des Palmes Academiques. 

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MICHEL VAN PARYS, Grottaferrata

Leggi tutto: RelatoriConclusioni del convegno

Biografia
Michel van Parys è nato nel 1942 a Gent, in Belgio e nel 1959 è entrato nel monastero benedettino di Chevetogne fondato da dom Lambert Beauduin. Ha studiato filosofia, teologia, lingue classiche orientali all’Università Sorbona di Parigi, discutendo una tesi su san Gregorio di Nissa. Ordinato prete nel 1969, è stato maestro dei novizi nel suo monastero, di cui è stato eletto priore nel 1971 e abate nel 1991.
Dopo aver dimissionato dall’abbaziato, è chiamato a Roma alla Congregazione delle chiese orientali, di cui è nominato consultore nel 1997. Dal 2002 al 2013 è stato direttore della rivista Irénikon, pubblicata dal monastero di Chevetogne. Dal 2008 al 2013 ha tenuto l’ufficio di Delegato pontificio per i mechitaristi armeni di Venezia. Nel novembre 2013 papa Francesco lo ha nominato igumeno dell’abbazia di Santa Maria di Grottaferrata, vicino a Roma. È un amico della comunità di Bose sin dal suo inizio; negli ultimi decenni ha collaborato intensamente nel campo delle attività ecumeniche ed è attualmente membro del comitato scientifico dei convegni ecumenici internazionali di spiritualità ortodossa, che si tengono ogni anno nel monastero di Bose.

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Progetto e comitato scientifico

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“Beati coloro che si adoperano per la pace” (Mt 5,9): l’annuncio di questa beatitudine evangelica, spesso ripetuta nella Divina Liturgia, non cessa di interpellare la coscienza di ogni uomo e la prassi delle chiese.
Il XXII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa intende porsi in ascolto del vangelo della pace, che chiede alle Chiese di essere un fermento di riconciliazione e di pace tra le donne e gli uomini contemporanei. La speranza della pace annunciata in Cristo non è un’utopia estranea a un mondo dominato dalla logica del potere e del conflitto, ma è un evento nella storia, che s’incarna in ogni tempo in uomini e donne di pace e riconciliazione.

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