Sintesi e foto del 9 settembre 2015

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XXIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
MISERICORDIA E PERDONO
Bose, 9-12 settembre 2015
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

Il XXIII Convegno ecumenico di spiritualità ortodossa sul tema “Misericordia e perdono” si è aperto oggi alle 9.30 con il saluto a tutti i partecipanti di fr. Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, a cui è seguita la lettura dei messaggi augurali del Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartholomeos I e di Papa Francesco

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Anba Epiphanius - Il perdono nella vita di padre Matta El Meskin

XXIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
MISERICORDIA E PERDONO
Bose, 9-12 settembre 2015
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

di + anba Epiphanius di san Macario, Wadi El Natrun

Dal momento in cui sono entrato al monastero di san Macario, ho imparato il significato del perdono. Una delle cose più meravigliose che ho sentito dagli anziani del monastero, e specialmente da padre Matta El Meskin, è l’esegesi delle parole del Signore Gesù del Vangelo secondo san Matteo, capitolo 18, versetti dal 15 al 17. Subito dopo aver raccontato la parabola della pecora smarrita, come il pastore lasci le novantanove pecorelle per andare in cerca di quella smarrita, dice il Signore Gesù:

Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va' e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano (Mt 18,15-17)

Perché nostro Signore Gesù ha collegato la pecora smarrita al fratello che pecca? Avrete notato che nostro Signore non chiede a chi è in torto di andarsi a scusare, ma al contrario, chiede alla parte offesa di prendere l’iniziativa della riconciliazione. Se questa non avviene, l’offeso deve chiedere aiuto a qualche altra persona affinché faccia da mediatore. Altrimenti, a dover intervenire è la Chiesa. Nel caso in cui tutti questi sforzi fallissero “sia per te come il pagano e il pubblicano”. 

Per capire il senso di “pagano e pubblicano” dobbiamo far riferimento alla stessa vita di nostro Signore Gesù che è stato definito “amico di pubblicani e peccatori” (Mt 11,19). Eccolo andare in fretta a cenare con Zaccheo, il capo dei pubblicani, a casa sua. Conseguenza di questo incontro fu la conversione di Zaccheo il quale credette in Cristo, insieme con tutta la sua famiglia (Lc 19,1-10).

Quando il Signore Gesù chiamò alla sequela Matteo il pubblicano, andò a cenare con lui a casa sua: “Mentre stava a tavola in casa di lui, anche molti pubblicani e peccatori erano a tavola con Gesù e i suoi discepoli; erano molti infatti quelli che lo seguivano. Allora gli scribi dei farisei, vedendolo mangiare con i peccatori e i pubblicani, dicevano ai suoi discepoli: «Perché mangia e beve insieme ai pubblicani e ai peccatori?»” (Mc 2,15-16).

Ancora, vediamo il Signore lodare il pubblicano: “Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato” (Lc 18,14) e loda il Samaritano dicendo: “Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero” (Lc 17,18).

Giungiamo, quindi, alla conclusione che, se tuo fratello non accetta la tua iniziativa di riconciliarvi, devi considerarlo come un pagano e un pubblicano, cioè una persona fragile per la quale Cristo è venuto per salvarla e che merita molto di più il tuo amore.

Non è forse questa la storia di tutta la creazione? Quando il primo uomo peccò contro Dio, Dio stesso si mise a cercare la sua pecora smarrita: “Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: «Dove sei?»” (Gn 3,9). Adamo accusò Eva ed Eva, a sua volta, il serpente. Ma Dio inviò i profeti e gli apostoli in modo che “ogni questione si deciderà sulla dichiarazione di due o tre testimoni” (2Cor 3,1). In seguito, ha inviato la Chiesa sotto forma di sacrifici, prescrizioni e leggi. 

Infine, dopo il fallimento di questi tentativi di riconciliare questa creazione smarrita e perduta, il Signore l’ha trattata come si tratta un pagano e un pubblicano, cioè come una creatura debole che non ha alcuna capacità né di riconciliarsi né di ritornare a lui. È stato perciò costretto a lasciarsi alle spalle le novantanove pecore che non si erano smarrite e andare a cercare la perduta.

A questo proposito, abba Matta El Meskin dice: “Cristo non ha trascurato i sentimenti della parte che ha subito il torto, né ha dato poca importanza alla slealtà commessa nei nostri confronti. Ma i suoi occhi erano fissi sull’amore e la misericordia che tutto scusa e tutto sopporta, affinché possiamo assomigliare al Padre che ci tratta con molta delicatezza e ci perdona tantissime cose. In ultima analisi, Cristo tiene fisso lo sguardo sul perdono totale che gli causerà sofferenze, angoscia, la crocifissione, la lacerazione della propria carne e infine la morte, come prezzo per i nostri gravi peccati”1

Dice anche: “La legge del Regno dei Cieli, infatti, è che a vivere sarà l’oppresso e colui che conquista è colui che sarà sconfitto. Le cose sono capovolte in maniera straordinaria. “Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l'altra” (Mt 5,39). In altre parole, a chi mi dà uno schiaffo sulla guancia destra io rispondo: “Grazie”, e poi proseguo per la mia via. Questa è la via che porta al Regno dei Cieli. La mia meta è preziosa e il mio cammino importante. Se mi fermo a litigare, ciò significherà per me la fine”. 

Altrove scrive Matta El Meskin: “Con la penna avrei potuto facilmente difendermi e convincere le persone. Ma in quello stesso momento, avrei buttato via da me il giogo di Cristo e sarei ritornato a essere un laico. Invece sono un monaco! Noi dobbiamo sopportare le persecuzioni e le tribolazioni. Senza la parola di Dio, l’uomo non smetterebbe di gridare, lamentarsi e piangere. Per me è stata un balsamo, una fasciatura, e un bravo medico che mi ha fatto entrare nel suo ambulatorio mentre ero a pezzi, e mi ha fatto uscire sano e ricomposto. Ne sono uscito più sereno di quando vi ero entrato. La parola di Dio è stata la mia consolazione giorno e notte. Come dice l’Apostolo Paolo: “Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo” (1Cor 4,12)2.

Eccovi una storia: [L’economo del monastero aveva maltrattato padre Matta e i suoi monaci e ne causò l’uscita dal monastero e la loro dispersione. Quando la coscienza iniziò a punzecchiarlo, e dopo che Matta El Meskin e la sua comunità ebbero trascorsi molti anni di sofferenza nel deserto di al-Rayyan, questo economo divenne vescovo. Scrisse allora una lettera a padre Matta nella quale si scusava e si diceva dispiaciuto per ciò che aveva fatto nei loro confronti, chiedendo loro perdono. Accluse anche una somma di denaro come gesto per esprimere le sue scuse. Padre Matta, riunita attorno a lui la comunità, lesse ad alta voce la lettera davanti a loro. Ci furono due opinioni: la prima, rifiutare la lettera e i soldi, a causa del male loro causato ingiustamente; la seconda, accettare le scuse e perdonarlo. Padre Matta, allora, disse loro: “Ascoltate la sentenza di Dio e del Vangelo”. Poi iniziò a dire loro, in un lungo discorso, che l’amore è superiore alla verità. Disse: “L’amore è un carisma della Chiesa. Ma non le diamo abbastanza spazio nella nostra vita, perché siamo stati spesso ingannati erigendo delle barriere tra noi e l’amore. Vi faccio l’esempio di me stesso. Quando io vedo un fratello che fa qualcosa di sbagliato, mi trovo davanti a due possibilità: o rimango in silenzio, mostrandogli così il mio amore, simile alla tenerezza divina che copre tutti gli errori e i peccati; oppure lo affronto con la verità, lo rimprovero, gli mostro il suo errore e lo correggo. Ho trascorso tutta la mia vita seguendo questo secondo metodo, parlando della verità e mettendomi alle spalle l’amore. Ma solo quest’anno, mi sono accorto di essere giunto a una situazione pericolose che è capace di farmi tornare indietro, al punto di partenza. Per questo l’amore deve prevalere”3.

Nel suo commento alla parola di Gesù nel Vangelo di Marco “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate” (Mc 11,25), padre Matta dice: “La meraviglia del Vangelo, qui, raggiunge l’apice. Cristo, infatti, afferma che la preghiera che ottiene risposta da Dio deve sgorgare da un cuore puro. E niente rende impuro il cuore se non l’odio, l’alienazione, l’ira, il risentimento e la condanna degli altri”4.

Abba Matta comprese il perdono nel suo senso più ampio, che significa accettare l’altro, l’altro diverso da me in tutto, specialmente nella fede o nella dottrina. Prima di entrare in monastero, aveva incontrato i responsabili del movimento delle Scuole della domenica del suo tempo. La questione sollevata fu: i cattolici e i protestanti entreranno nel Regno dei Cieli? La risposta fu, ovviamente: No. Matta El Meskin si rattristò molto perché sapeva che quest’idea era diffusa tra alcune figure di spicco all’interno della Chiesa.

Passarono gli anni e un giorno padre Matta dovette andare al Cairo per un’operazione chirurgica. Il presidente della comunità evangelica in Egitto venne a rendergli visita e gli pose la stessa domanda: “I protestanti entreranno nel Regno dei Cieli?”. Padre Matta rispose così: “Né i cattolici, né i protestanti e nemmeno gli ortodossi entreranno nel Regno dei Cieli, ma soltanto la nuova creazione in Cristo Gesù. Poiché in Cristo Gesù né la circoncisione né la non circoncisione contano alcuna cosa, ma l’essere nuova creazione (Gal 6,15)”.

1 Father Matta el Maskine, The Gospel According to St Luke (in Arabic), 1st edition, 1998, p. 294.

2 Father Matta el Maskine and the grace of enlightening by the Holy Gospel (in Arabic), The Monastery of St Macarius, 2015, p. 49-50.

3 Ibid. p. 60-61.

4 Father Matta el Maskine, The Gospel According to St Mark (in Arabic), 1st edition, 1996, p. 480-481.

Kallistos Ware - La dinamica del perdono nei padri orientali

XXIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
MISERICORDIA E PERDONO
Bose, 9-12 settembre 2015
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

di Kallistos di Diokleia

E perdona a noi i nostri debiti come anche noi li perdoniamo ai nostri debitori” (Mt 6,12). La preghiera che Gesù ci ha consegnato, benché universale, è anche estremamente concisa. Il fatto che in questa breve preghiera, per quanto di ampio respiro, circa un quarto delle parole – non meno di tredici nel testo greco, su cinquantasette o cinquantotto – siano dedicate al tema del perdono indica come nell’ottica di Dio sia essenziale che noi perdoniamo e siamo perdonatii. Afferma il metropolita ortodosso russo Anthony Bloom di Sourozh: “Perdonare ai propri nemici è la prima, la più elementare caratteristica del cristiano; se non l’abbiamo non siamo affatto cristiani”ii.

In verità Gregorio di Nissa va ancora più lontano, afferma che la clausola “Perdonaci … come noi perdoniamo” è il punto culminante nella Preghiera del Signore vista nel suo insieme, poiché costituisce “la massima vetta della virtù”iii. Aggiunge comunque che – per quanto la clausola sia estremamente importante – pur tuttavia il suo vero senso non è affatto semplice da cogliere: “Il significato sorpassa qualunque interpretazione delle parole”iv. Questa richiesta non solo è difficile da capire, ma è anche una preghiera rischiosa. Osiamo applicare a noi stessi con estremo rigore il principio posto da Cristo stesso: “Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi” (Mt 7,2). Stiamo apparentemente chiedendo che il perdono di Dio sia limitato e ristretto dal desiderio di perdono che noi stessi mostriamo verso gli altri. “Avrai in contraccambio quello che tu stesso hai fatto”v, ammonisce Cipriano di Cartagine. Come afferma Giovanni Crisostomo – e sicuramente le sue parole ci fanno rabbrividire – “Da noi dipende il giudizio su di noi”vi.

Perdona a noi … come noi perdoniamo”: Gregorio di Nissa sottolinea che questa è una cosa ben strana da dire e osserva che è come se stessimo impartendo un ordine a Dio e gli stessimo insegnando in che modo deve comportarsi.

Se io non perdono gli altri”, gli diciamo, “ allora, o Dio, tieni lontano da me il perdono”. Da nessun altra parte se non nella Preghiera del Signore impartiamo ordini in questo modo. Il paradosso, sostiene Gregorio, può essere espresso attraverso ciò che si può definire “inversione mimetica” (l’espressione è mia, non sua). In altre occasioni siamo noi a essere chiamati a imitare Dio. Nella Legge si esorta: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo” (Lv 19,2); nel discorso sul monte Cristo dice: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). In ultima istanza, è solo Dio che ha il potere di perdonare i peccati (vedi Mc 2,7). Se noi siamo capaci di perdono, questo può avvenire soltanto attraverso l’imitazione di Dio e in virtù della grazia che egli stesso ci dona. Non possiamo perdonare sinceramente, questo va detto, a meno che veniamo attirati in Dio e “in certo senso, siamo diventati Dio”, per impiegare un’espressione di Gregorio. Chi perdona deve essere “deificato” o “divinizzato”; il perdono da parte nostra non è possibile senza théosisvii.

Questa è la via normale. Ma qui, nel caso della Preghiera del Signore – e Gregorio ammette che è “cosa ardua a dirsi”viii – l’ordine abituale è invertito. In questo caso siamo noi che serviamo come modello per Dio. Invece di essere noi a imitare lui, gli stiamo chiedendo di imitare noi. Come dice Gregorio, stiamo dicendo a Dio: “Comportati così come io mi sono comportato; imita il tuo servo, Signore … Io ho perdonato; tu perdona. Io ho mostrato una grande misericordia nei confronti del mio prossimo, imita la mia amorevolezza Tu che per natura sei amorevole”ix.

E allora quando diciamo: “Perdona a noi … come noi perdoniamo”, in che modo esattamente dobbiamo intendere la particella “come”? Forse in senso causativo? In questo caso il nostro perdono deve essere visto come la causa del suo; stiamo dicendo a Dio: “Perdona a noi perché noi perdoniamo”. È in questo modo, in verità, che alcuni padri della chiesa interpretano la frase. Clemente di Alessandria giunge a dire che, perdonando gli altri, in qualche modo costringiamo Dio a perdonarcix. Ora un’interpretazione causativa di questo genere è sicuramente inaccettabile. Come ha giustamente affermato Calvino, il perdono viene dalla “libera misericordia” di Dio; è un dono immeritato della grazia divina, donato unicamente attraverso la croce e la resurrezione di Cristo e non è mai qualcosa che possiamo guadagnare o meritare. Dio agisce in sovrana libertà e noi non abbiamo niente da esigere da lui.

Come afferma Paolo citando il Pentateuco: “Dio dice a Mosè: ‘Avrò misericordia per chi vorrò averla, e farò grazia a chi vorrò fare grazia’ (Es 33,19)xi. Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che ha misericordia” (Rm 9,15-16). Questo risulta chiaramente nella parabola degli operai mandati nella vigna; a quelli che si lamentano del loro salario, il padrone risponde: “Non posso fare delle mie cose quello che voglio?” (Mt 20,15). L’iniziativa nel processo del perdono dipende da Dio e non da noi. Dio non aspetta che noi perdoniamo gli altri prima di dilatare la sua misericordia su di noi. Al contrario, il suo perdono libero e senza condizioni precede ogni movimento verso il perdono da parte nostra. “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8).

In ogni caso, tra il nostro perdono e quello di Dio non c’è una misura comune. Dio perdona in pienezza, con generosità, in un modo che va ben oltre le nostre umane capacità. Il carattere insuperabile e incomparabile del perdono divino è sottolineato in un’altra parabola di Matteo, quella dei due debitori (cf. Mt 18,23-35). Dinanzi a Dio siamo come lo schiavo che è debitore di diecimila talenti – un talento equivale a più di quindici volte il salario annuale di un operaio – mentre in rapporto agli altri siamo come lo schiavo debitore di cento denari – un denaro corrisponde alla paga giornaliera di un operaio. Gregorio di Nissa, dopo aver detto che in questo atto del perdono Dio sta imitando noi, continua poi precisando la sua affermazione dicendo che i nostri peccati davanti a Dio sono incommensurabilmente più gravi che qualsiasi peccato dell’altro contro di noi. Più tardi cita a conferma proprio la parabola dei due debitorixii.

Se dunque il nostro perdono non è la causa del perdono di Dio, se non c’è una misura comune tra il nostro perdono e il suo, in che modo dobbiamo intendere quella particella come nella richiesta “Perdona a noi … come noi perdoniamo”? Poiché se la nostra volontà di perdonare non è la causa che muove Dio a perdonarci, essa è tuttavia la condizione che rende per noi possibile ricevere il suo perdono. Il perdono è immeritato ma non è incondizionato. Dio, da parte sua, desidera sempre perdonarci. Esprimiamo questa idea con le parole di Isacco il Siro: “In lui vi è un unico amore e un’unica misericordia, che si estendono sull’insieme della creazione, senza mutamento, fuori dal tempo, in eterno”xiii.

Ricordando l’agonia di Cristo nel giardino del Getsemani e la sua morte sacrificale sulla croce, ci possiamo chiedere: Che cosa avrebbe potuto fare il Dio incarnato che non abbia fatto per guadagnarci di nuovo a sé?

Il perdono comunque non deve soltanto essere offerto, ma anche accolto. Dio bussa alla porta del cuore umano (cf. Ap 3,20), ma non abbatte la porta; siamo noi che dobbiamo aprirla. Se, nonostante il vivo e inesauribile desiderio di Dio di perdonare, noi induriamo il nostro cuore e rifiutiamo il perdono agli altri, allora molto semplicemente ci priviamo della capacità di accogliere il perdono di Dio. Chiudendo il nostro cuore agli altri, li chiudiamo anche a Dio, rigettando gli altri, rigettiamo lui, noi stessi ci escludiamo dal suo amore risanante. Dio non ci esclude, siamo noi che ci escludiamo da soli.

Perdona a noi … come noi perdoniamo” ogni volta che diciamo queste parole, come ci ha giustamente avvertito il metropolita Anthony Bloom, “prendiamo nelle nostre mani la nostra salvezza”xiv.

Sottolineando questa ricorrente insistenza dei padri sulla necessità del perdono vicendevole, ritroviamo anche la profonda convinzione, costantemente enfatizzata dai padri, che il genere umano costituisce essenzialmente un’unità. Lo possiamo dire con le parole di Silvano del Monte Athos: “Il nostro fratello è la nostra vita” xv, oppure con quelle di Giuliana di Norwich: “Agli occhi di Dio tutti gli uomini sono come un solo uomo e un solo uomo è come tutti gli uomini”xvi. Questo è vero non soltanto a livello sentimentale o emotivo, ma in termini ontologici. Il nostro bisogno di perdono vicendevole deriva direttamente dal fatto che siamo tutti interdipendenti, membri di un’unica famiglia umana.

Questa sottolineatura della nostra coinerenza interpersonale deve essere visita non solo nella clausola “Perdona a noi … come noi perdoniamo”, ma anche nella Preghiera del Signore nella sua interezza. Cipriano osserva che in tutta la preghiera si parla per lo più al plurale non al singolare; non si dice “mio”, ma “nostro”; non si dice “me”, ma “noi”.

Non diciamo: “Padre mio che sei nei cieli”; neppure: “dammi oggi il mio pane”. Ciascuno di noi non domanda che vengano rimessi solo a lui i peccati, né chiede solo per sé di non essere indotto in tentazione e liberato dal male. La nostra preghiera, invece, è pubblica e interessa tutti. Quando preghiamo, non preghiamo per una sola persona, ma per tutto il popolo, perché tutto il popolo è unoxvii.

La percezione dell’unità della nostra umana natura, nell’ottica di Ciprianoxviii, ha il suo saldo fondamento nella dottrina cristiana di Dio. Noi crediamo in Dio Trinità che non soltanto è uno-in-tre, non soltanto è un’unità, ma è un’unione, non solo personale, ma interpersonale. Crediamo in Dio come comunione di Padre, Figlio e Spirito. Questo significa che in quanto esseri umani creati a immagine del Dio triuno, siamo salvati non come singoli individui, ma come membri di quella famiglia che è la chiesa, e così non possiamo essere perdonati da Dio se non ci perdoniamo a vicenda.

Quando, perciò, diciamo nella Preghiera del Signore. “Perdona a noi … come noi perdoniamo”, stiamo proprio affermando la nostra unità in quanto membri della razza umana; possiamo dire, con Clemente di Alessandria che “tutti gli uomini sono creazione di una volontà sola”xix. Massimo il Confessore sviluppa questa affermazione nel suo commento alla Preghiera del Signore. L’unità e l’amore vicendevole, dice costituiscono “il principio (lógos) dell’[umana] natura”.Quando perciò preghiamo per ricevere il perdono, stiamo mettendo la nostra volontà umana in armonia con il lógos secondo il quale siamo stati creati. E inversamente, rifiutare il perdono è “tagliare la natura separando se stessi dagli altri esseri umani attraverso i quali noi stessi siamo umani”. Il nostro rifiuto di vivere in comunione gli uni con gli altri attraverso il perdono reciproco è perciò autodistruttivo: “Se la natura, con la volontà, si ribella contro se stessa, è impossibile che essa accolga la divina, ineffabile condiscendenza”xx.

Gregorio di Nissa perviene alla medesima conclusione: “Condannando il tuo prossimo, condanni te stesso”xxi.

Alcuni padri greci sviluppano questa visione dell’unità della natura umana in modi che possono sembrare a prima vista sorprendenti e inaspettati. Un autore ascetico vissuto probabilmente all’inizio del v secolo, Marco il Monaco o l’Eremita, per esempio, sostiene che dobbiamo pentirci non solo per i nostri peccati personali ma anche per i peccati degli altri:

Dal momento che il diavolo non desiste dal muoverci guerra, anche il pentimento non deve mai cessare. I santi sono dunque tenuti a offrirlo anche per il prossimo poiché non possono giungere alla perfezione senza un’attiva carità … Se dunque sarà fatta misericordia a chi fa misericordia, a mio avviso è a causa del pentimento che l’universo rimane unito poiché ciascuno di noi è aiutato dall’altroxxii.

Parte del pentimento, anche se questo non è tutto, consiste proprio nel cercare il perdono di Dio. Se siamo chiamati a pentirci per i peccati degli altri, allora possiamo e dobbiamo chiedere il perdono a nome loro. “Ciascuno di noi è aiutato dall’altro”; siamo perdonati non da soli, ma come “membra gli uni degli altri” (Ef 4,25). Il perdono è personale, ma non individuale.

Quando si dice che siamo perdonati non come singoli individui, ma “come membra gli uni degli altri”, non dobbiamo pensare che questo si riferisca semplicemente all’altro essere umano che vive accanto a noi in questo momento. La solidarietà nel perdono vicendevole si estende attraverso il tempo e lo spazio. La dinamica del perdono è diacronica. Gregorio di Nissa sostiene che quando diciamo “Perdonaci” nella Preghiera del Signore, chiediamo il perdono non solo per i nostri peccati personali, ma anche per “i debiti comuni alla nostra natura”, vale a dire per il peccato originale che l’intera razza umana eredita dal nostro progenitore Adamo. Anche se fossimo liberi da peccati personali, anche se in realtà, commenta Gregorio, nessuno di noi può dire questo neppure per una sola ora della sua vita, avremmo comunque bisogno di dire “Perdonaci” a nome di Adamo.

Adamo vive in noi … e così possiamo utilizzare queste parole: Perdona a noi i nostri debiti. Anche se fossimo Mosè o Samuele o qualcun altro di estremamente virtuoso, nemmeno in quel caso potremmo considerare queste parole come applicate a noi, poiché noi siamo umani; noi partecipiamo della natura di Adamo e perciò partecipiamo anche della sua caduta. Poiché dunque, come dice l’Apostolo, “tutti moriamo in Adamo” (1 Cor 15,22), queste parole, che ben esprimono il pentimento di Adamo, sono anche appropriate per tutti coloro che sono morti con lui.

Tali asserzioni da parte di Marco il Monaco e di Gregorio di Nissa hanno poco a che vedere con una teologia della colpa originale pienamente sviluppata come quella che troviamo in sant’Agostino. In effetti, Marco esclude espressamente la prospettiva secondo cui, in un senso giuridico, noi saremmo colpevoli del peccato di Adamo, considerato come il risultato di una scelta personale. Tuttavia, a un livello più profondo di quello di una colpevolezza legale, c’è una mistica solidarietà che ci unisce tutti gli uni agli altri; ed è di questo che Marco e Gregorio stanno parlando. “Tutti gli uomini sono un uomo”, e così ciascuno di noi è “responsabile per tutto e per tutti”, per usare le parole dello starec Zosima nel capolavoro di Dostoevskij.

Anche se non siamo personalmente colpevoli, portiamo comunque il peso della colpa di Adamo e degli altri membri della famiglia umana. Essi vivono in noi e noi in loro. Qui, come sempre la parola fondamentale è “noi”, e non “io”. Nessuno di noi pecca da solo, perché ci trasciniamo a vicenda nella caduta e nessuno di noi è perdonato e salvato da solo perché attraverso la misericordia di Dio ci innalziamo a vicenda nel paradiso. La dinamica del perdono non è solitaria ma “sociale”; non si dice: “Perdona come io perdono”, ma: “Perdonaci come noi perdoniamo”.

A conclusione riflettiamo sulle parole di Cristo sulla croce: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). È stato questo spirito di un perdono che tutto abbraccia a cambiare la crocifissione di Cristo da errore giudiziario, atto di violenza arbitraria in sacrificio espiatorio per i peccati del mondo intero. E noi, che ci chiamiamo cristiani e che portiamo al collo il segno della croce, siamo chiamati a fare nostro lo stesso spirito di perdono con un respiro universale. Poiché senza perdono non c’è vero cristianesimo.

i*Metropolita di Diokleia, del Patriarcato di Costantinopoli, ha insegnato presso l’università di Oxford. Traduzione dall’originale inglese di Lisa Cremaschi. Per una più ampia discussione sul tema del perdono, si veda il mio articolo: “‘Forgive us …as we forgive’: Forgiveness in the Psalms and the Lord’s Prayer”, in Meditations on the Heart: The Psalms in Early Christian Thought and Practice. Essays in Honour of Andrew Louth, a cura di A. Andreopoulos, A. Casiday, C. Harrison, Turnhout 2011, pp. 53-76.

 

ii A. Bloom, Per una preghiera viva, Brescia 20092, p. 43.

iii Gregorio di Nissa, Sul Padre nostro, omelia 5, in Gregorii Nysseni Opera VII/2, Leiden-New York-Köln 1992, p. 59

iv Ibid., p. 61.

v Cipriano di Cartagine, La preghiera del Signore 23, in Opere di San Cipriano, a cura di G. Toso, Torino 1980, p. 227.

viGiovanni Crisostomo, Omelie sul vangelo di Matteo I, a cura di S. Zincone, Roma 2003, p. 371.

vii Cf. Gregorio di Nissa, Sul Padre nostro, omelia 5, pp. 59-61.

viii Ibid., p. 61.

ixIbid., pp. 61-62.

x Cf. Clemente di Alessandria, Gli stromati VII,86,6, a cura di M. Rizzi e G. Pini, Milano 2006, p. 801.

xi Cf. Gregorio di Nissa, Sul Padre nostro, omelia 5, p. 62.

xii Ibid., pp. 69-70.

xiii Isacco il Siro, Discorsi, parte II, Omelia 40,1, in CSCO 555, Scriptores Syri 225, Louvain 1995, p. 174.

xiv A. Bloom, Per una preghiera viva, p. 42.

xv Silvano del Monte Athos, Nostalgia di Dio. Tutti gli scritti, a cura di A. Mainardi, Magnano 2011, p. 137.

xviGiuliana di Norwich, Libro delle rivelazioni, a cura di D. Pezzini, Milano 1984, p. 211. Il passo è citato in Charles Williams, The Forgiveness of Sins, London 1942, p. 16. Questo libretto, scritto nel corso della seconda guerra mondiale, resta uno dei più utili trattati su questo tema.

xvii Cipriano di Cartagine, La preghiera del Signore 8, pp. 213-214.

xviii Cf. ibid. 23, p. 227: “Dio non accetta il sacrificio di chi vive nella discordia ... Il più grande sacrificio per Dio è la nostra pace, la nostra concordia di fratelli e l’essere un popolo raccolto nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo”.

xix Clemente di Alessandria, Stromati VII,81,3, p. 796.

xx Massimo il Confessore, Sul Padre nostro, in Nicodimo Aghiorita e Macario di Corinto, La filocalia II, a cura di M. B. Artioli e M. F. Lovato, Torino 1983, p. 308.

xxi Gregorio di Nissa, Sul Padre nostro, omelia 5, p. 61.

xxii Marco il Monaco, La penitenza 12, in Traités I, a cura di G.-M. de Durand, Paris 1999, p. 250.



 

Walter Kasper - Perdono cristiano e riconciliazione tra le chiese

XXIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
MISERICORDIA E PERDONO
Bose, 9-12 settembre 2015
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

di Walter Kasper

Giustizia, perdono e misericordia sono questioni umane universali. Le incontriamo, sotto forme diverse, nei miti, le religioni, la filosofia e la poesia dell’intera umanità. Si tratta dunque di questioni esistenziali di ognuno di noi. Non c’è nessuno che non voglia vivere in un mondo giusto e che non abbia bisogno di perdono e di misericordia, da parte di Dio e dei suoi vicini.

D’altra parte, è un segno dei tempi che la coscienza delle colpe e della propria colpevolezza, sia tanto diminuita da apparire spesso quasi assente. Si parla talvolta di follia d’innocenza che, per cause psicologiche o sociologiche, si sostituisce alla colpa personale, e spesso accusa il messaggio cristiano di insinuare nelle persone una coscienza nevrotica di colpa. Di conseguenza: se non c’è peccato, non c’è bisogno di perdono e di redenzione. Il seme del messaggio cristiano della redenzione cade su un terreno sassoso e arido, se non nel vuoto.

In tale situazione anche la misericordia è diventata fuori moda. In una società post-patriarcale la “misericordia” finisce per essere fraintesa con un atteggiamento di superiorità. Non si chiede più misericordia, anzi si pretende il proprio diritto di cittadino.

Vorrei limitarmi a segnalare, a questo proposito, una sola ragione di una tale situazione. Oltre a una predicazione talvolta errata del peccato, del perdono e della misericordia, oltre a un’immagine di Dio che punisce e si vendica, c’è il fatto che parlare di peccato, di perdono e di misericordia presuppone, come quadro di riferimento, un ordine prestabilito, assente nell’attuale pluralismo. Per le antiche culture e religioni questo ordine era rappresentato dalla giustizia.

Si pensi soprattutto alla cultura dell’Egitto antico e alla sua concezione della ma’at, che difficilmente va tradotta con giustizia nel significato più corrente che noi attribuiamo a questa parola. Allora la giustizia aveva un significato molto più ampio e omnicomprensivo rispetto a come lo percepiamo oggi. La giustizia significava l’ordine sacro del cosmo e della società, che era stato prestabilito per noi, e a noi affidato perché potessimo implementarlo e realizzarlo. Così il concetto di un uomo giusto era impregnato di religiosità e implicava concetti quali timore del sacro, saggezza e rettitudine.

La Bibbia si situa in questa antica tradizione orientale, che poi essa pervade e supera con la sua concezione di Dio e del mondo. Pertanto, prima di parlare di perdono e di misericordia, conviene soffermarci sulla giustizia nel senso della Bibbia quale cornice di riferimento.

I. La giustizia infranta e restituita

Secondo la definizione filosofica classica, la giustizia è la virtù che concede a ognuno, suum cuique, ciò che gli spetta (Ulpiano, III sec.). Questa definizione si ritrova anche in Tomaso d’Aquino ed è diventata fondamentale per tutta la tradizione filosofica. Essa, tuttavia, lascia aperta una questione e cioè: che cosa sia concretamente questo suum, che spetta alle persone. Nell’attuale situazione, per rispondere alla domanda: che cosa sia concretamente giusto, occorre sempre e di nuovo appianare o comporre interessi e bisogni.

Il concetto Biblico della giustizia zaddiq e zeddaqia (giusto e giustizia) è diverso. Non sta in opposizione a questa definizione, ma la determina e la rende concreta. Esso intende la giustizia come fedeltà all’alleanza di Dio con Abramo (Gen 15) e poi con il suo popolo eletto (Es 19 s.; Dt 5 s.). Giusto è colui chi si attiene alla legge dell’alleanza (Ex 24,3; Dt 5,1; 6,17.25; Sa 106,3.31), e l’ubbidienza alla volontà di Dio ovvero la fede va accreditata come giustizia (Gen 15,6; Sa 106,3.31; Rm 4,3.9.22; Gal 3,6; Gc 2,23). Così la giustizia non è un ordine delle cose e del cosmo, soprattutto non è solo una questione economica, ma la giustizia consiste sia nel rapporto relazionale e comprensivo di fede con Dio, sia nel rapporto solidale e rispettoso fra gli uomini e nel rapporto responsabile con il creato, che è affidato all’uomo e al suo uso perché lo coltivi e lo custodisca (Gen 1,28; 2,15; Sa 8,7 ss.).

Il profeta Michea riassume: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio” (Mi 6,8; cfr. Os 1,21). Gesù ha riassunto tutto nel primo comandamento: amare il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore e amare il prossimo tuo come te stesso” (Mc 12,29-31 par.).

È la convinzione fondamentale della Bibbia, che Dio è giusto e giudicherà il mondo con giustizia, con rettitudine deciderà le cause dei popoli (Sa 9,9; Atti 17,36). In principio, Egli ha creato tutto bene, anzi molto bene, in armonia perfetta, in cui ogni persona e ogni cosa ha il suo posto e il suo compito (Gen 1 s). L’alienazione da Dio ha causato l’alienazione fra gli uomini, fra l’uomo e la donna, fra i popoli e le culture, fra l’uomo e la natura, l’alienazione della vita da se stessa, a causa del destino di morte (cfr. Gen 3s), e dell’uomo da se stesso, fino al punto che egli non si comprende più (cfr. Rm 7,14-25), fino all’estremo: l’uomo diventa stanco della sua vita (Giobbe 10,1). Secondo Paolo tutta la creazione è stata sottoposta alla caducità e aspetta ardentemente di essere liberata dalla schiavitù della corruzione; tutta la creazione geme e soffre le doglie del parto per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio (Rm 8,19-22).

Per restituire o riconciliare l’odine infranto, l’Antico Testamento, con lo ius talionis, riprende un’antica tradizione orientale che si trova per esempio già nel codice di Hammurabi (ca. 1750 a. C.). Dopo il danno che ha subìto, l’ordine prestabilito sarà restituito attraverso una compensazione. Ogni danno va compensato o equilibrato con una punizione che gli corrisponde: “Occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido” (Es 21,24-5; Lev 24,17-21; Dt 19,21). L’interesse di questa legge non è la vedetta, ma la limitazione, e la riduzione di una punizione fuori misura come essa si trova nella parola violenta di Lamec: “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette” (Gen 4,23 s). Così lo ius talionis riduce la violenza a una misura adeguata e può arginare il male, ma non è in grado di superarlo, anzi può portare anche a un cerchio vizioso d’ingiustizia e vendetta, di violenza e contro-violenza.

La stessa incapacità a superare il male vale anche per la sostituzione della punizione con un rito, ovvero riti espiatori d’abluzione e di penitenza, o con sacrifici. Il rito più conosciuto è quello del giorno della penitenza (Yom kippur) con il capro espiatorio che cancella la colpa del popolo e che, per la colpa del popolo, rappresentativamente è condannato alla morte (Lev 4-5; 16). Anche qui prevale l’idea di una compensazione.

Benché questo rituale fosse stato istituto da Dio e facesse parte dell’alleanza (Es 19 ss; Dt 12 ss.), nondimeno già i profeti e alcuni Salmi lo criticano severamente. I profeti affermano: Non basta l’abluzione esteriore, Dio vuole la purificazione e la conversione interiore del cuore. La predicazione fondamentale dei profeti è la chiamata alla conversione (schub; metanoia) a Dio, cioè il ritorno al rapporto e all’amore iniziale (Os 2,21 s.; 14,5). “Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza” (Is 30,15; cfr. Os 14,2 s; Ger 3,19-4,4; Ez 33,11 ecc.). “Tu non gradisci il sacrificio, se offro olocausti tu non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio; un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi” (Sal 51,19; cfr. 34,19; 40,7 s; Is 66,2 ss.; Gl 2,12 s). Dio vuole diritto e giustizia e non sacrifici (Am 5,21-27; Is 1,10-17; 5, 8, 5-8; Zac 7,5-10), vuole la misericordia e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti (Os 6,6).

La stessa critica è mossa da Gesù: “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini” (Mc 7,1-23). Il suo messaggio messianico, che il regno di Dio è vicino, è imprescindibilmente connesso con la chiamata alla conversione (metanoia) (Mc 1,14 par.; Lc 13,1-5 ecc.). Gesù cita due volte il profeta Osea: “Misericordia io voglio e non sacrificio” (Mt 9.13; 12,7). L’amore “vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici“ (Mc 12,33).

Il messaggio profetico e gesuano rappresenta la fine di una lunga epoca religiosa e culturale, cioè di una religiosità ritualistica e legalista che, come vedremo, anche nell’epoca cristiana è continuata e talvolta continua ancora Questo messaggio profetico è l’inizio di una interiorizzazione della religione. Di pari passo con questa interiorizzazione, anche l’idea di una colpa collettiva del popolo è abbandonata, e inizia una personalizzazione del peccato (Ez 18; Ger 31,29 s.; cfr. Lc 13,5; Gv 9,1 s.).

Questi due sviluppi caratterizzano in un modo specifico la nostra epoca moderna. Però nella concezione biblica l’interiorizzazione non riguarda soltanto l’interiorità del cuore, anzi essa è complessiva e dunque inclusiva di concrete forme di penitenza tradizionalmente enumerate nella triade “preghiera, digiuno ed elemosina” (Tob 12,8), soprattutto l’elemosina, perché la carità copre una moltitudine di peccati (1 Pt 4,8). Queste forme di penitenza nella predicazione profetica non hanno più una funzione ritualistica, ma sono espressione e realizzazione concrete della conversione e segno della sua serietà.

Neanche la personalizzazione non vuole né può significare un’autonomizzazione, vale a dire che il peccatore per mezzo della conversione personale possa autonomamente togliere via il peccato e lasciarselo alle spalle. Per la Bibbia una tale autoassoluzione o autogiustificazione disconoscerebbe la gravità del peccato. Già all’inizio Dio indica chiaramente che la violazione dell’ordine porterà alla morte (Gen 3,3). “Il Salario del peccato è la morte” dice Paolo (Rm 6,23; cfr. 5,12.21). Il peccatore va condannato a morte, perché con la violazione dell’alleanza ha distrutto il fondamento della vita e dunque merita la morte.

Nessuno può liberarsi da sé dalla morte. Signore della vita e della morte è solo Dio. Pertanto solo Dio, dopo la rottura del peccato, può donare la vita nuova. Così già nell’Antico Testamento perdonare è un attributo esclusivamente divino (Is 55,7; Ger 33,6-8; 50,20; Mi 7,18 s; Sal 103; 130,4.7). Nel Nuovo Testamento gli avversari di Gesù ripetono questa posizione: Solo Dio può perdonare e perciò è bestemmia perdonare un peccato da parte di un uomo (Mc 2,6-9; Mt 9.3 s.; Lc 5,21; 7,48). Ecco la riscoperta di Lutero, su cui esiste oggi un consenso fondamentale: La giustizia non è un’opera e un merito dell’uomo; la giustizia è gratuita; Dio, che è giusto, rende anche giusti (Rm 1,17; 3,21). Solo la giustificazione da parte di Dio e il suo perdono del peccato sono in grado di sostituire la condanna alla morte con un’assoluzione alla vita. Lutero evidenzia, così, che il perdono non è una generosità liberale e tollerante, che non prende sul serio il peccato; anzi il perdono è una questione di vita e di morte.

Questo dramma di vita e morte non spetta solo all’individuo, ma alla pace fra gli uomini e in tutto il cosmo; esso non riguarda soltanto l’individuo, ma la pace tra gli uomini e in tutto il cosmo. “Praticare la giustizia darà pace; la giustizia darà tranquillità e sicurezza per sempre” (Is 32,17). Opus iustitiae pax. Nella Bibbia “pace” (shalom) è un termine omnicomprensivo, che significa restituzione dell’ordine infranto, nel popolo, fra i popoli, nella natura e nell’intero cosmo. La promessa della Bibbia è che alla fine vincerà la giustizia e sarà sconfitta ogni ingiustizia, violenza e menzogna. Dio si mostrerà come avvocato dei poveri, dei deboli, delle vedove e degli orfani (Am 2,6; 5,12; Is 1,17.23; 3,14 s). Alla fine dei giorni tutti i popoli pellegrineranno al monte del Signore e sarà una pace universale. “Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un'altra nazione, non impareranno più l'arte della guerra” (Is 2,2-5; Mc 4,1-5; cfr. Is 11; 60; 66). Allora sarà pace anche nella natura e nel cosmo. “Il lupo dimorerà insieme con l'agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto (Is 11,5-12). In questi giorni Dio sarà chiamato “Signore-nostra-giustizia” (Ger 23,5 s.).

Ma i Libri sapienziali, soprattutto da Giobbe e Qoèlet, riflettono su cosa valga la continuazione della vita, se essa soggiace al destino della morte, la quale proietta nella vita dell’uomo le sue ombre premonitrici: sfortuna, sciagura, disgrazia, malattia e sofferenza. Già nei profeti matura il pensiero che la vita restituita non è solo la compensazione e la restituzione di quella perduta, ma è connessa con la promessa di un nuovo. L’idea del nuovo, che purtroppo nel cristianesimo è spesso discriminata, diventa fondamentale. “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,18 s.). Geremia parla di una nuova alleanza (Ger 31,31), e Ezechiele di un cuore nuovo e di un spirito nuovo (Ez 11,19; 18,31; 36,26; cfr. Sal 51,12). Si prepara così l’idea neotestamentaria della nuova vita senza fine, la vita eterna, la vita in abbondanza (Gv 10,10).

Insomma, il perdono e la restituzione non sono un ritorno all’ordine primordiale, ma la via di accesso a un nuovo ordine, che sfocia nella nuova creazione, già annunciata dai profeti più tardivi (Is 65,17; 66,22) e realizzata attraverso la risurrezione di Gesù dalla morte (2 Cor 5,17; Gal 6,15; cfr.; Ap 21,1). Nella pienezza dei tempi quando Dio riunirà e riconcilierà tutte le cose in Cristo, unico capo (Ef 1,10; cfr. Col, 1,20) dirà: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5). La riconciliazione non è un ritorno all’ordine primordiale e non solo una restituzione, ma consiste in un rinnovamento operato dalle storiche azioni salvifiche di Dio e dalle risposte dell’uomo. In questo quadro, il concetto biblico del perdono non è solo un’assoluzione del passato ma anche la preparazione di un nuovo futuro del mondo come dimora della giustizia.

II. Misericordia nell’Antico Testamento

A questo punto siamo confrontati alla domanda centrale: Perché Dio non ha messo in atto la sua minaccia, secondo la quale il peccatore morirà? Perché Dio ha placato la sua giusta ira contro il peccato? Secondo la sua giustizia, Dio non deve ricompensare i buoni e punire i peccatori? Come riconciliare il perdono di Dio con la sua giustizia?

Già all’inizio, Adamo ed Eva, benché scacciati dal paradiso, possono continuare a vivere; inoltre Dio fa per loro tuniche di pelli e li veste perché possano sopravvivere e resistere al caldo e al freddo (Gen 3,21). Poi quando Dio vede che la malvagità degli uomini è grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non è altro che male, si pente di aver fatto l'uomo e vuole sterminare lui e ogni essere vivente sulla terra, ma Noè trova grazia agli occhi del Signore (Gen 6,6-8). Dopo il diluvio Dio promette: “Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo” e garantisce l’esistenza e l’ordine del cosmo. “Finché durerà la terra, seme e messe, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno” (Gen 8,21 s.; cfr.9,8-17). Dopo il fallimento della torre di Babele, la confusione delle lingue e la dispersione dei popoli, Dio fa con Abramo un nuovo inizio (Gen 11 s). Sempre Dio ha mostrato che non vuole la morte, vuole la vita (Ez 18,23.32; 33,11; Sap 1,13), egli è un amico della vita (Sap 11,26).

Perché? In tutta la storia finora rievocata troviamo la realtà, ma non la parola “misericordia”. La parola misericordia compare per la prima volta nella rivelazione a Mosè. Dal rovente ardente Dio mostra la sua compassione; egli vede la miseria del suo popolo, ascolta il suo grido e conosce le sue sofferenze (Es 3,7). Dio è un Dio che vede, che ascolta, che ha compassione. Dopo la nuova disubbidienza del popolo, Dio rivela a Mosè: “Farò grazia a chi vorrò fare grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia” (Es 33,19). La misericordia è dunque espressione dell’assoluta libertà e sovranità di Dio. La sua reazione misericordiosa non è deducibile da un concetto umano di giustizia; essa è espressione della sovranità di Dio. Pertanto nella prossima rivelazione Dio dà quasi un riassunto del suo agire misericordioso: “Il Signore, il Signore, è un Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà” (Es 34,6). Questo riassunto si è impresso nella memoria d’Israele. Quasi come un ritornello, i Salmi e i profeti lo ripetono spesso (Sal 86,15; 103,8; 111,4; 112, 4; 116,5; 145,8; cfr. Gl 2,13; Giona 4,2). Il profeta Michea commenta: “Dio si compiace d’usar misericordia” (Mi 7,18). Di nuovo: Perché?

La risposta si trova all’apice della rivelazione veterotestamentaria della misericordia da parte del profeta Osea. Egli viveva una situazione drammatica. Il popolo aveva infranto l’alleanza ed era diventato una prostituta disonorata. Perciò Dio aveva rotto con suo popolo. Il suo popolo non è e non sarà più il suo popolo (Os 1,6). Tutto sembra finito, e non s’intravede più un futuro. Ma poi si verifica una svolta drammatica. Dio dice: “Il mio cuore si rivolta contro di me” (Os 11,8). Il testo originale suona ancora più drastico: Dio capovolge la propria giustizia, per così dire la getta via. Il posto dello sconvolgimento annientatore è preso dallo sconvolgimento all’interno di Dio stesso. Perché la compassione di Dio esplode e Dio non vuole tradurre in atto la sua ira incandescente. La misericordia ha in lui la meglio sulla giustizia. Questo non è espressione dell’arbitrario di un Dio irascibile. La motivazione che Dio stesso dà di questa svolta è molto più profonda e manifesta tutto l’abisso del mistero divino: “Perché sono Dio e non un uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira” (Os 11,9).

Questa è un’affermazione sorprendete e commovente. Con essa è come se si affermasse che Dio non è un Dio apatico, troneggiante al di là dalla miseria del mondo; egli ha un cuore compassionevole, vede la miseria e ascolta il grido dell’uomo. D’altra parte la santità di Dio, cioè il suo essere totalmente diverso rispetto a tutto l’umano, non si manifesta nella sua giusta ira su tutta l’ingiustizia e cattiveria umana, ma nella sua misericordia. Essa lo distingue completamente dagli uomini; esprime la sua sublimità e sovranità, la sua trascendenza, che nessuna scena umana può rappresentare. Dio nella sua assoluta libertà non entra nelle regole della nostra giustizia; lui è al di sopra di tutto ciò che è umanamente calcolabile. La misericordia è lo specchio del suo essere Dio e della sua trascendenza.

Perché Dio agisce così? Risponde lui stesso: Come potrei abbandonarli? “Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d'amore” (Os 11,4). Geremia, probabilmente discepolo di Osea, aggiunge: “Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà” (Ger 31,3; cfr. Is 54, s.). Con queste commoventi parole, il profeta indica nel mistero dell’amore di Dio la sorgente della sua elezione e della sua misericordia.

A questo punto della riflessione, è possibile fare un primo riassunto. Dio è un Dio misericordioso perché è compassionevole e ha cuore per i miseri. Non è un Dio apatico, ma nel senso proprio della parola, un Dio “syn-patico”, che soffre (pathein) con (syn) il suo popolo. Di più, Dio nella sua misericordia resiste attivamente al male; non vuole la morte, ma vuole la vita e dà la vita. La misericordia di Dio vince il male con il bene, la morte con la vita. Così il perdono non è solo la sostituzione del danno del male, ma il suo superamento; invece di limitarsi a compensare e sostituire il vecchio ordine, Dio crea un nuovo ordine. Come espressione della Signoria di Dio, la misericordia è una novità umanamente inaspettata e inaspettabile. Così la misericordia veterotestamentaria prepara già il messaggio del Nuovo Testamento.

III. Misericordia nel Nuovo Testamento

Nel Nuovo Testamento Gesù annuncia il vangelo di Dio Padre misericordioso soprattutto con parabole ben note: la meravigliosa parabola del figlio prodigo, che sarà chiamata più esattamente del padre misericordioso. Il figlio ha già ricevuto il patrimonio che gli spetta, e ha sperperato le sue sostanze vivendo da dissoluto. Stretto dal bisogno, parte per ritornare dal padre, con la confessione: “Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te” (Lc 15,18.21). Il padre, che quando suo figlio era lontano, lo aveva sempre aspettato, gli corre incontro commosso, gli si getta al collo e lo bacia. Lo riveste, gli pone l’anello al dito e i calzari ai piedi, ciò vuol dire, gli restituisce i suoi diritti di figlio, e fa preparare una grande festa (Lc 15,11-32). Perché “ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7).

La parabola ci dice sulla misericordia di Dio, che essa oltrepassa ogni diritto. Il figlio prodigo aveva già ricevuto e poi perduto i suoi diritti di figlio. Nondimeno Dio non richiede restituzione, non infligge nessuna punizione; anzi lo aspetta, gli va incontro, lo abbraccia e oltre ogni diritto, gli restituisce i diritti di figlio. Il padre non il figlio, fa la restituzione. La sua misericordia non fa a meno della giustizia; all’altro figlio nulla va tolto, ma l’atteggiamento verso il figlio prodigo supera la giustizia meramente umana e va oltre ogni attesa e ogni umana misura. La misericordia di Dio secondo il calcolo umano è la novità di un amore sempre più grande e da paragonare solo al miracolo di una risurrezione a una vita nuova. Questo figlio “era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,32). In questo senso anche la Lettera agli Efesini descrive la misericordia: “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati” (Ef 2,4 s.).

Una seconda parabola ci dice, che la misericordia sovrabbondante di Dio è la misura della misericordia che è richiesta a noi. Secondo le Beatitudini sono i misericordiosi, che troveranno misericordia (Mt 5,7) e la preghiera del Signore ci dice che la nostra disponibilità al perdono è la misura del perdono di Dio (Mt 6,12; cfr. la parabola del debitore non misericordioso [Mt 18,23-35]). Pertanto Gesù dice: “Siate miseri-cordiosi, com’è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36).

La parabola del Buon Samaritano illustra questa misericordia. Il Samaritano, dai Giudei dell’epoca considerato come un semipagano, era in viaggio, probabilmente aveva da sbrigare i suoi affari, ma vede il moribondo che era incappato nei briganti e ne ha compassione. Benché non avesse obbligo alcuno, si china nel fango della strada, gli fascia le ferite; poi lo porta a una locanda e si prende cura di lui. Il giorno seguente, estrae due denari e li dà all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno” (Lc 10,30-35).

A prima vista la parola “compassione” potrebbe insinuare che la misericordia è solo un atteggiamento emozionale; la parabola però mostra che essa è un atteggiamento attivo, che risponde attivamente e dinamicamente ai bisogni dell’altro; non apre solo il cuore, mette in moto le mani e fa correre le gambe per andargli incontro. Innanzitutto è un opus superogatum. La giustizia è per così dire il minimo che dobbiamo all’altro, mentre la misericordia è il massimo, è una risposta che proviene della generosità di un amore oltre misura.

Con le due parabole Gesù spiega il suo comportamento con i peccatori, che raggiunse il suo apice quando dà la sua vita per tutti noi peccatori (Mt 26,28; Mc 14,24; Lc 22,20; 1 Cor 11,24; 15,3 ecc.). Sulla croce, il duello fra vita e morte raggiunse il suo epilogo. Lui, chi era innocente, volentieri si è sottomesso alla morte invece di noi e per noi; la sua risurrezione ha vinto la morte. Paolo riassume: Dio lo “ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati mediante la clemenza di Dio, al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente, così da risultare lui giusto e rendere giusto colui che si basa sulla fede in Gesù” (Rm 3,25 s.). “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio” (2 Cor 5,21; cfr. Gal 3,13).

Oggi molti hanno difficoltà ad accettare questo messaggio della morte vicaria di Gesù per noi, che è fondamentale per il Nuovo Testamento e per tutta la tradizione. Domandano: Come può essere sostituita la libertà e la responsabilità dell’uomo? Questo messaggio diventa comprensibile solo nell’intera prospettiva della Bibbia. Con la morte si spegne ogni possibilità di agire. Pertanto Dio, prima che noi potessimo agire, ha dovuto liberarci alla nostra libertà (Gal 5,1). Così la nostra libertà non ci è tolta dall’azione vicaria di Cristo, anzi di nuovo essa è resa capace di poter agire e accettare, attraverso la fede, ciò che nella sua immensa misericordia, Dio ha fatto per noi, senza di noi, in Gesù Cristo, affinché noi possiamo risuscitare alla vita nuova.

Per mezzo del battesimo, che è il sacramento della fede, siamo resi partecipi della morte di Cristo e viviamo nella speranza di partecipare anche alla risurrezione di Cristo. “Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a Cristo nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,4). Tutto il cammino nella libertà cristiana è un processo di superamento del peccato, delle sue conseguenze e delle forze della morte, verso una vita nuova per Dio e per gli altri. In questo senso è una permanente penitenza non per equilibrare il male, ma per vincere il male con il bene tanto più grande in forza della vittoria della vita nella risurrezione di Cristo (cfr. Rm 12,21).

Il perdono non è il nostro merito; nondimeno il perdono misericordioso da parte di Dio è tutt’altro che una grazia a buon mercato e non una liberale generosità, che non prende sul serio il peccato. Anzi siamo comprati a caro prezzo con il Sangue prezioso di Cristo (1 Cor 6,20; 1 Pt 1,19) affinché fosse reso inefficace questo corpo di peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato” (Rm 6,6).

Il perdono è il dono della vita nuova e del cuore nuovo già promesso nell’Antico Testamento (Ger 24,7; Ez 11,19; 36,26). Questa nuova vita nel vangelo di Giovanni è equivalente al termine regno di Dio nei vangeli sinottici. In Giovanni la vita nuova è la vita eterna, cioè la vita che non ha più da temere la morte. Essa è la nuova creazione, che Dio ha realizzato attraverso la morte e la risurrezione Gesù Cristo (2 Cor 5,17; Gal 6,5; Ap 21,1; cfr. Is 43,18; 65,17). Questa vita era in Dio da tutta l’eternità (Gv 1,4); il Padre ha la vita in se stesso (Gv 5,26). Così la prima lettera di Giovanni può riassumere tutto il messaggio cristiano con l’affermazione, che noi abbiamo la comunione con la vita, che è presso il Padre (1 Gv 1,2 s)

Pertanto, il perdono come dono della vita nuova ci rende partecipi della vita di Dio. In termini dogmatici: La vita nuova non è solo una gratia creata, ma la gratia increata cioè l’auto-donazione di Dio a noi nello Spirito e la nostra partecipazione alla natura divina (2 Pt 1,4). La teologia orientale parla della theiosis, la divinizzazione; la tradizione latina parla spesso dell’inabitazione personale dello Spirito santo (cfr. Gv 14,23).

Poiché in Gesù Cristo tutto è ricostituito, abbiamo in Lui la pace (Rm 5,1; Ef 2,14; Col 1,20) e dobbiamo diventare costruttori di pace (Mt 5,9). La preghiera del Signore ci insegna che il nostro perdono è la misura del perdono di Dio (Mt 6,12). “Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14 s). La pace escatologica non è una sorta di coperta distesa su tutta l’ingiustizia del mondo. Il perdono non si esercita all’insaputa delle vittime, che hanno sofferto l’ingiustizia, ma anche attraverso il loro perdono per il colpevole. La vita nuova nella giustizia si realizza come riconciliazione in forme d’interazione sociale, di perdono, di solidarietà, d’impegno per la pace. In questo senso il Concilio Vaticano II dice: “Passa certamente l’aspetto di questo mondo, deformato dal peccato. Sappiamo però dalla Rivelazione che Dio prepara una nuova abitazione e una terra nuova, in cui abita la giustizia” (Gaudium et spes, 39).

IV. Prospettive sistematiche

La Bibbia non è un manuale sistematico teologico e nemmeno un distributore automatico di risposte. La Bibbia ci dà da pensare, da meditare e ci spinge anche a fare. La Chiesa, così come ogni cristiano, devono sempre lasciarsi sorprendere dalla novità della misericordia di Dio. Mai si vedrà la fine di questo processo di riflessione e di rinnovamento della prassi, per realizzare la giustizia nella misericordia. La Chiesa è sempre da riformare e da rinnovare (Lumen gentium, 8; Unitatis redintegratio, 4).

Si vuole anche un rinnovamento del pensamento teologico. La questione del rapporto tra giustizia e misericordia è questione vitale, da cui dipende il destino della tradizione latina. Essa è rimasta ampiamente prigioniera dell’idea della giustizia commutativa e della redenzione come compensazione. L’idea di compensazione si trova in Tertulliano, Cipriano, Agostino, Anselmo di Canterbury. Non possiamo entrare nei dettagli dell’interpretazione soprattutto dell’interpretazione controversa di Anselmo e della sua teoria della soddisfazione. In questo contesto, basta dire che l’idea della misericordia è stata marginalizzata nella teologia. Nella teologia morale prevaleva spesso un legalismo, e nella prassi pastorale il messaggio di un Dio severo e punitivo.

La testimonianza di molti grandi santi, per esempio santa Caterina di Siena, santa Teresa di Lisieux e più recentemente suor Faustina Kowalska, è assai migliore del mainstream della teologia neoscolastica, e la fiducia dei semplici cristiani nella misericordia di Dio non è mai venuta meno. Si pensi alla devozione del cuore di Gesù, interpretata magistralmente e approfondita con la ricca tradizione patristica nella enciclica Haurietis aqua (1956). Spesso però l’aspetto misericordioso era rappresentato più dalla Madonna, la Mater misericordiae (Salve Regina).

Considerando tale tradizione si comprende meglio come il messaggio di Papa Francesco, che mette la misericordia al centro del suo pontificato, d’una parte sia una vera svolta, per molti anche una provocazione, ma d’altra parte è anche un recupero della tradizione biblica e dell’autentica devozione cristiana, cioè del sensus fidelium. Lui stesso parla di una rivoluzione non come una rottura, ma di una rivoluzione dell’amore e della tenerezza. Questa svolta era stata già preparata da Papa Giovanni XXIII che nel suo memorabile discorso d’apertura del Concilio Vaticano II disse che oggi la Chiesa preferisce la medicina della misericordia all’arma della severità. Papa Paolo VI nel suo ultimo discorso del Concilio disse che la spiritualità del Concilio è quella del Buon Samaritano. Si questa base Papa Giovanni Paolo II ha pubblicato la sua seconda enciclica Dives in misericordia (1980). Così il messaggio di Papa Francesco e la Bolla Misericordiae vultus stanno perfettamente nella tradizione del Concilio e di suoi predecessori e l’Anno santo della misericordia è un passo importante nel processo di recezione del Concilio Vaticano II come i due Papi conciliari, Papa Giovanni XXIII e Papa Paolo VI l’avevano interpretato.

Tutto questo ci spinge a una riflessione teologica approfondita della misericordia. Un primo passo è la riscoperta di elementi che esprimono quest’idea della misericordia nella tradizione latina, e che in un certo senso corrispondono alla tradizione orientale. In primo luogo si pensi all’idea dell’epikeia, tanto importante nella teologia di San Tomaso d’Aquino e nella tradizione canonista medievale, e che per alcuni aspetti corrisponde all’idea ortodossa dell’oikonomia. A questo proposito però non voglio entrare nei problemi canonistici e della prassi pastorale di situazioni difficili e complesse che saranno discusse dal sinodo prossimo, ma voglio concludere con tre tesi sistematiche sulla scia di Tomaso d’Aquino.

1. Tomaso ha discusso il problema fondamentale del rapporto fra misericordia e giustizia di Dio. Nella Summa theologiae argomenta che Dio, a causa della sua sovranità, nel suo agire ad extra, non è legato a nessuna legge di giustizia umana, ma solo a se stesso e al suo essere, che è amore (1 Gv 4,8.16). Poiché Dio è amore, non può agire altrimenti che con misericordia, la quale ha la priorità rispetto alla giustizia e ne costituisce addirittura la sua radice (S.th. I, 21, 1 -4). Le opere di misericordia di Dio ci permettono di vedere, o detto altrimenti: ci fanno rispecchiare il cuore di Dio. La misericordia è il primo attributo operativo di Dio e lo specchio del suo mistero ascondito. Questa comprensione deve orientarci a un’ontologia e una teologia dell’amore.

2. La misericordia è la fedeltà (emet) di Dio a se stesso e alla sua alleanza, essa esprime l’identità di Dio con se stesso nel suo agire ad extra. Pertanto essa è anche l’espressione dell’identità cristiana e il marchio cristiano, la summa e la massima dalle virtù cristiane, (S.th. II/II, 30, 4) e deve essere – come ha detto Papa Francesco – l’architrave, cioè il pilastro principale della prassi della Chiesa e il leitmotiv della sua dottrina sociale. La Chiesa deve essere la casa di una madre misericordiosa, con le porte aperte chiunque chieda misericordia e ne abbia bisogno.

3. Il concetto di emet significa nella Bibbia anche verità. La verità nelle Bibbia non è una affermazione teorica, ma verità-fedeltà. Pertanto la misericordia come emet è la verità di Dio e su Dio. È dunque del tutto assurdo opporre la misericordia alla verità. La verità cristiana è la misericordiosa auto-manifestazione di Dio in parole e opere; e nella sua pienezza la verità è Gesù Cristo in persona (Gv 14,6). Lui è la rivelazione definitiva della misericordia di Dio Padre per la nostra salvezza. Lui con la sua misericordia è la rivelazione definitiva della verità-fedeltà di Dio.

In conclusione: Se la misericordia è l’auto-rivelazione di Dio per eccellenza e la somma virtù del cristiano, essa non elimina le altre verità e gli altri comandamenti come alcuni temono. Anzi, bisogna considerare la misericordia come somma e principio ermeneutico di tutta la dottrina e di tutta la prassi cristiana e la salus animarum come legge suprema.

In questo senso la misericordia richiede anche un nuovo impulso ecumenico. Le chiese in oriente e occidente hanno ricevuto la loro eredità apostolica comune fin dalle origini in forme e modi diversi; questa diversità, oltre a cause esterne, per mancanza di comprensione e carità diede adito alla separazione (Unitatis redintegratio, 14). Le ferite della separazione sono ferite al corpo di Cristo, che solo la medicina del perdono e della misericordia può guarire. Siamo testimoni di una persecuzione cristiana e di una eliminazione del cristianesimo in paesi di antichissima tradizione cristiana. I cristiani non sono perseguitati perché sono ortodossi, cattolici o protestanti, sono perseguitati perché sono cristiani. Papa Francesco parla di un ecumenismo del sangue. Possiamo allora formulare la frase di Tertulliano: Sanguis christianorum semen christianorum (Apol.50,13) in un senso aggiornato: Sanguis communis christianorum semen unitatis christianorum. Speriamo perciò che l’Anno della misericordia apra una nuova epoca ecumenica della misericordia, in cui possiamo lasciare dietro di noi gli errori, i peccati e le ferite del passato e aprirci con misericordia a uno slancio rinnovato e un nuovo futuro comune.

Relatori - sintesi degli interventi

La ventitreesima edizione del Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (Bose, 9-12 settembre 2015) sarà dedicata al tema “Misericordia e perdono”, tema scelto dal comitato scientifico dei convegni ecumenici che si è riunito a Bose il 4-5 ottobre.
L’esperienza del male, della sofferenza che gli uomini infliggono gli uni agli altri, sembra segnare dal principio l’avventura umana. Eppure Dio di rivela come Dio di misericordia e di compassione (Es 34,5); la misericordia è il volto di Dio che Gesù rivela agli uomini.

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