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La strada insegna il silenzio

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Chi cammina a lungo ama il silenzio. Esso gli permette di regolare il respiro sul ritmo dei suoi passi. Gli fa udire anche il rumore dei suoi passi, diverso su un terreno friabile o sassoso, sulla ghiaia, o sulla morbidezza del suolo erboso. Questa percezione del rumore dei passi fa parte del ritmo del cammino...

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Sii tu Gesù la canoa

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Sii tu, Gesù,
la canoa che mi tiene a galla nel mare della vita,
il timone che mi trattiene sulla giusta rotta...

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Camminare: un esercizio di leggerezza

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Il pellegrino è uno che cammina. Ha accettato di partire, di spezzare o interrompere il corso dei giorni, il corso della sua vita, per porre da quel momento il suo centro di gravità nel cammino, nel movimento, in avanti. Per lui il futuro esercita la sua attrazione sul presente. Chi cammina sa che dovrà da quel momento fare esercizio di leggerezza...

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Partenza

Essere pellegrini à mettersi in strada e partire, abbandonare il proprio universo familiare per trovare la felicità, o quanto meno questo è quel che si spera con tutto il proprio essere. In effetti, ciascuno ha momenti in cui sente una voce interiore, appello misterioso e insieme discreto a mettersi in cammino verso un altrove, del quale le strade tracciate sulle carte del mondo non sono che il segno visibile, la traccia o il vettore. Essere pellegrini equivale a segnare una pausa nel ritmo folle dei giorni, in quello della noia o della solitudine, e anche in quello delle preoccupazioni e dei deserti interiori, in attesa di una risposta dal cielo e nella convinzione che essa può giungere, o per lo meno conservandone tenacemente la speranza. Essere pellegrini è quindi lasciare il proprio luogo e rompere con il quotidiano. Lasciare la cerchia familiare della casa, del quartiere, del villaggio o della città, della gente che si conosce, dei riferimenti divenuti troppo familiari o senza speranza. È rompere il ritmo del lavoro dove l’uomo lentamente regredisce di fronte agli imperativi economici o tecnici. È esporsi alla novità, alla sorpresa, alla differenza, all’incontro. Non c’à nulla che dica in anticipo chi si incontrerà lungo la strada, ma, con appena un velo di apprensione, il pellegrino spera l’incontro. Partire significa perdere dei punti di riferimento nella speranza immensa, o folle, di guadagnare tutto. Essere pellegrini, in effetti, significa sempre staccarsi a poco a poco dalle proprie certezze, quelle che gli altri spesso identificano meglio di noi, e che a volte rendono le persone così resistenti alla comunicazione. Essere pellegrini è riprendere il libro della propria vita voltando pagina e senza fretta di scrivere su quella intonsa, forse addirittura supplicando il cielo che nulla vi si inscriva prima che il vento e le intemperie abbiano a lungo coniugato i loro sforzi per dettare un’esperienza nuova, inedita. Essere pellegrini à rompere con le preoccupazioni, quelle buone e le altre, e a poco a poco anche con le angosce, che a volte pesano. È fare una sosta, concedersi una tregua nei ritmi implacabili. Accordarsi segretamente la libertà di ricominciare tutto da capo, senza costrizioni, dal momento che il viaggio del pellegrino à una specie di allenamento che permetterà in seguito di riprendere in modo diverso la tessitura dei lavori e dei giorni intrapresi da... sempre, in realtà! Perché il pellegrinaggio à sempre uno sconvolgimento, un’occasione per uscire dall’assetto costituito. E rappresenta l’opportunità di un incontro dal quale ci si attende quella che bisogna proprio chiamare, quali che siano le forme che può assumere, con il nome di “guarigione”, altro termine per dire “conversione”, cioè quel misterioso turbamento interiore che coinvolge l’intera esistenza. E questo ciascuno lo sa per esperienza, perché in realtà parlando di pellegrini non parliamo degli altri, ma di noi stessi (J. Niueviarts,  {link_prodotto:id=869}. Manuale per chi cammina, Qiqajon, Bose 2009, pp. 15-17).

La speranza tiene l’uomo in cammino

 Ilario di Poitiers, nel suo Commento ai Salmi (118,15,7), riporta la domanda di molti che gridano ai cristiani: «Dov’è, cristiani, la vostra speranza?». Questa domanda deve essere assunta dai cristiani e dalle chiese di oggi come indirizzata direttamente a loro. Poco importa che in essa possano esservi toni di sufficienza o di scetticismo: il cristiano sa che per lui la speranza è una responsabilità! Di essa egli è chiamato a rispondere a chiunque gliene chieda conto (1 Pietro 3,15: «siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi chieda della speranza che è in voi»). Questa responsabilità oggi è drammatica ed è una delle sfide decisive della chiesa: è in grado di aprire orizzonti di senso? Sa vivere della speranza del Regno dischiusale dal Cristo? E sa donare speranza a vite concrete, aprire il futuro a esistenze personali, mostrare che valla pena di vivere e di morire per Cristo? Sa chiamare alla vita bella e felice, buona e piena perché abitata dalla speranza, sull’esempio della vita di Gesù di Nazaret??Queste domande non possono essere eluse, soprattutto oggi che gli orizzonti culturali mostrano una profonda asfitticità ed è difficile formulare speranze a lunga durata, capaci di reggere una vita. Nella «società dell’incertezza» (ben descritta da Zygmunt Bauman), nell’epoca posta sotto il segno della «fine» (di secolo, di millennio, della modernità, delle ideologie, della cristianità), nel tempo della frantumazione del tempo, in cui anche le poche speranze che si aprono faticosamente un varco nella storia sono irrimediabilmente di breve durata, non hanno tempo a consolidarsi, ma sono esposte a imminente smentita, suona ormai in modo drammatico la domanda: «Che cosa possiamo sperare?». E colpisce che l’insistenza sull’avvento del nuovo millennio si accompagni nella chiesa a questa paurosa incapacità di aprire varchi verso il futuro, di mostrare concrete e vivibili strade di speranza e di progettualità, di dare speranza e di essere presenza significativa soprattutto per coloro che nel futuro hanno il loro orizzonte prossimo: i giovani.?L’impressione è che oggi il nemico della speranza sia l’indifferenza, il non-senso o quanto meno l’irrilevanza del senso. La stessa insistenza della pastorale cattolica sulla carità e sul volontariato ha, oltre ai tanti aspetti positivi, anche l’aspetto del ripiegamento sul presente, sull’oggi, sull’azione da compiere nei confronti del bisognoso; il tutto all’interno di una scelta che è a tempo e può sempre essere ritirata, che non impegna il futuro. Di fronte a tutto questo si situa la domanda: «Dov’è, cristiani, la vostra speranza?». Perché la virtù teologale della speranza deve essere visibile, vissuta, trovare un dove, un luogo: altrimenti è illusione e retorica! Un bel testo di Agostino dice che «è solo la speranza che ci fa propriamente cristiani» (La città di Dio 6,9,5). Cioè, il cristiano non vive cose e realtà altre e nuove, ma sostanzia di un senso nuovo e altro le cose e le realtà, e anche tutti i rapporti. Né il problema è definire la speranza, ma viverla. Certo, possiamo dire che la speranza è «un’attiva lotta contro la disperazione» (G. Marcel), è «la capacità di un’attività intensa ma non ancora spesa» (E. Fromm), ma soprattutto è ciò che consente all’uomo di camminare sulla strada della vita, di essere uomo: non si può vivere senza sperare! Homo viator, spe erectus: è la speranza che tiene l’uomo in cammino, in posizione eretta, lo rende capace di futuro.?Il cristiano trova in Cristo la propria speranza («Cristo Gesù, nostra speranza», 1 Timoteo 1,1), cioè il senso ultimo che illumina tutte le realtà e le relazioni. In questo senso, la speranza cristiana è un potente serbatoio di energie spirituali, è elemento dinamizzante che si fonda sulla fede nel Cristo morto e risorto. La vittoria di Cristo sulla morte diviene la speranza del credente che il male e la morte, in tutte le forme in cui si possono presentare all’uomo, non hanno l’ultima parola. Il cristiano narra perciò la propria speranza con il perdono, attestando che il male commesso non ha il potere di chiudere il futuro di una vita; narra la speranza plasmando la sua presenza tra gli uomini sulla fede che l’evento pasquale esprime la volontà divina di salvezza di tutti gli uomini (1 Timoteo 2,4; 4,10; Tito 2,11); soprattutto narra la speranza vivendo la logica pasquale. Quella «logica» che consente al credente di vivere nella fraternità con persone che non lui ha scelto; che lo rende capace di amare anche il nemico, l’antipatico, colui che gli è ostile; che lo porta a vivere nella gioia e nella serenità anche le tribolazioni, le prove e le sofferenze; che lo guida al dono della vita, al martirio. Se dobbiamo vedere oggi nella chiesa delle autorevoli narrazioni della speranza cristiana è proprio alle situazioni di martirio e di persecuzione che dobbiamo guardare. Lì la speranza della vita eterna, della vita in Cristo oltre la morte, trova una sua misteriosa, inquietante, ma concretissima e convincente narrazione. Lì appare credibile ciò che ancora Agostino ha scritto: «La nostra vita, adesso, è speranza, poi sarà eternità» (Commento ai Salmi 103,4,17)

E. Bianchi, Le parole della spiritualità , Rizzoli, Milano 2004