Donare il tempo

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Essere responsabili per qualcuno, amare qualcuno, significa dargli tempo. Così, è evidente che far nascere un essere umano è precisamente l’atto di donazione del tempo. Ma anche dare ascolto a un altro è dargli tempo. Analogamente, perdonare significa dare all’altro il tempo di rinnovarsi, non incastrarlo identificandolo nel male che può aver fatto...

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Rifiutare il saccheggio del pianeta

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“Il cibo è la nostra comunione naturale alla carne del mondo” (Sergej Bulgakov). La benedizione sul cibo, su tutto il lavoro che lo produce, implica il rifiuto del “saccheggio del pianeta”, il rispetto dei ritmi della vita; essa ci fa passare da un rapporto da vampiri con la natura – mangiare per essere infine mangiati – a un rapporto eucaristico che rende Dio presente nei cicli vitali...

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Abitare il mondo senza dominarlo

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Sottrarsi al fascino del potere. Abitare questo mondo senza dominarlo. riallacciare una relazione fraterna con gli esseri in una sorta di amicizia francescana per la creazione. Ritrovare ciò che è gratuito, che è donato, che è imprevisto, inaudito… Qui “comunione dei santi” acquista il suo significato; coloro che sono depositari del potere possono essere segretamente posti a beneficio di coloro che...

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Cadono i pregiudizi

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Quando entriamo in relazione personale con una persona diversa o emarginata, cominciamo a riconoscere gli errori e le ingiustizie della nostra cultura e della nostra società. Allora prendiamo coscienza di quanto siano radicati i pregiudizi che ci governano. Qualche tempo fa, alla stazione, ho incontrato un uomo che, un tempo...

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Far spazio alla voce di chi è senza voce

Nella versione lucana della parabola del grande banchetto (Luca 14,15-24), l’accento non è tanto sull’estensione dell’invito a buoni e cattivi (come è nella versione di Matteo 22,2-10), quanto sui deboli, quelli che non si aspettano nulla o non possono prendere alcuna iniziativa da se stessi. Molto significativamente, viene immediatamente dopo l’ammonizione di Gesù a non invitare coloro di cui si può star certi che ricambieranno l’ospitalità (Luca 14,12-14). Ciò che va demolito è un intero modello di calcolo del valore umano in un sistema di qualsiasi scambio, secondo il quale varrebbe la pena prendere sul serio questa o quella persona a causa del loro status, dei vantaggi che offrono, della loro abilità a giocare il proprio ruolo nel particolare gioco che è in corso. Che cosa significa non avere il diritto di essere ascoltati, non avere accesso alla moneta corrente del mercato dominante? Significa essere senza parola, senza quei mezzi con i quali quelli che ti circondano addomesticano e organizzano il mondo. Il tuo linguaggio non conta: sia letteralmente, nel caso di soggetti il cui linguaggio non ha status legale, sia in senso più ampio, quando tutta la forma del linguaggio di chi è al potere ti ricorda costantemente che la tua prospettiva non è inclusa. Non puoi parlare in maniera tale da fare concretamente la differenza; la tua moneta viene respinta; niente di quel che dici “riuscirà bene”, persuaderà o avrà successo. Ecco perché Gesù in Luca 22,67 agli uomini del consiglio che chiedono di dire loro se sia il Messia, Gesù replica: “Se ve lo dico, non mi crederete, e se vi interrogo, non risponderete”. In altre parole: non ho niente da dirvi che siate in grado di udire o a cui siate in grado di rispondere. Il Gesù di Luca si mette dalla parte di quelli il cui linguaggio non può essere udito. Sorge allora una domanda: dov’è e che cos’è la “trascendenza” di Dio? Per Luca la trascendenza di Dio si rende in un certo senso presente in e con quelli che non hanno voce, in e con quelli che non hanno potere di influenzare il loro mondo, in e con quelli che si suppone abbiamo perso qualsiasi diritto possano avere avuto al mondo. Dio non è con loro perché siano naturalmente virtuosi, o perché siano dei martiri; è lì semplicemente nel fatto che vengono “lasciati fuori” quando il punteggio sociale e morale viene calcolato dai manager del comportamento morale o sociale. O, per dirla un po’ diversamente, Dio appare nel e attraverso il fatto che i nostri modi di sistemare il mondo lasciano sempre fuori dal conto l’interesse, il benessere o la realtà di qualcuno. Noi non sappiamo organizzare il nostro mondo in modo da lasciare a ciascuno uno spazio possibile. Siamo inevitabilmente costretti all’esclusione nel momento in cui cerchiamo di dare forma alla nostra vita morale e sociale. Allora, che cosa ci dice Luca mediante il modo con cui situa Dio accanto all’outsider? In un senso importante, non dice nulla riguardo a ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Se pensassimo che Dio debba essere trovato dentro e accanto all’outsider perché Dio approva di costui più di quanto approvi di un insider, ricadremmo proprio in quella mentalità che siamo esortati a dimenticare. La sostanza del messaggio di Luca è in un certo senso più semplice: Dio è nelle connessioni che noi non riusciamo a creare. La persona “lasciata fuori”, il cui posto io non posso garantire, che non è adatta, è la persona che mi richiama ai miei stessi limiti; e quando prendo atto del carattere incompleto del mio mondo di riferimento e della mia incomprensione, posso almeno vedere la serietà dell’interrogativo riguardo al destino di quelli a cui non si provvede. Se in un senso o nell’altro riconosco una rivendicazione di interesse per simili persone, seppure non abbia idea alcuna di come portarla a effetto, sono in qualche misura almeno nella direzione di percepire come Dio stia nelle connessioni che io non riesco a creare. Rendermi conto di avere “difficoltà di apprendimento”, che la mia modalità abituale di fare fronte non può fare fronte a questa esperienza, a questa persona, significa permettere che lo straniero continui a essere straniero, piuttosto che divenire un membro fallito del mio mondo o un parlatore incompetente del mio linguaggio. Allora imparare da quello straniero vuol dire permettere che il mio mondo venga ampliato in modi che vanno al di là dei miei piani e del mio controllo, appunto mediante il riconoscimento che lo straniero è davvero uno straniero. Circoscrivere l’altro nella mia cornice di riferimento è commettere uno sbaglio; rifiutare di ascoltare o di apprendere perché l’altro è “strano” vuol dire farne un altro. Lo straniero rappresenta il fatto che devo crescere, non necessariamente nella direzione di una identità simile alla sua, ma almeno in quella di un mondo in cui si possa avere di più la sensazione che si tratti di un mondo condiviso. Riconoscere l’altro senza l’impulso immediato di renderlo uguale, comporta il riconoscere l’incompletezza del mondo che io penso di poter gestire e l’andare verso quel mondo che potrei non essere in grado di gestire così bene, ma che ha maggiore profondità di realtà. Ed è facendo tali passi che si va più vicini a Dio (R; Williams, Il giudizio di Cristo, Qiqajon, Bose 2003, pp. 77-81, 87-88).

J

Responsabilità/alterità

Nella lingua latina il termine che corrisponde alla parola italiana “responsabilità” è sponsio che vuol dire propriamente “promessa”, “impegno”; suo sinonimo è praestatio che vuol dire rendersi garante di qualcuno o di qualcosa. Responsabile è dunque colui che si fa mallevadore di qualcun altro. La responsabilità è una presa in carico: essa obbliga a una risposta. C’è responsabilità solo in quanto c’è relazione. In molti ricorderanno la celebre frase esistenzialista “l’inferno sono gli altri”. Quella frase esprimeva non solo il rifiuto degli altri, ma anche l’insofferenza per l’impossibilità della propria autosufficienza. Che sono poi due facce della stessa medaglia. Chi, infatti, fosse autosufficiente, sarebbe libero da ogni obbligo nei confronti degli altri e di sé: tutto gli sarebbe possibile perché da nessuno dipende. Invece così non è, perché noi esistiamo solo nella e per la relazione, siamo in catena e questo rende la responsabilità possibile e la rivela insieme come inevitabile. Ognuno di noi esiste in virtù di altri, e non solo perché da altri è stato generato, ma perché da questo sarebbe presto uscito, così come vi è entrato, se non fosse stato accolto, cresciuto, da qualcuno a suo modo amato. Nessuno di noi sarebbe al mondo se qualcuno non ci avesse preso in carico, non se ne fosse assunto la responsabilità. Ogni uomo, in ragione del suo semplice esistere, non può che essere grato, anche se ha buone per lamentarsi, per disprezzare, maledire. Questo sentimento si genera soprattutto quando ci si rende conto che il bene di esistere è goduto ampiamente meno di quanto lo si potrebbe e non per inimicizia della natura, ma perché gli uomini, lungi dal sostenersi, si ostacolano, spezzano la catena che li lega nella vana illusione di potersi rafforzare ognuno per proprio conto.


E così si trovano senza nulla cui attaccarsi, in egoistica e solitaria deriva. In questo paesaggio selvaggio è evidente che le istanze della sicurezza prevalgono su quelle della confidenza, del reciproco affidarsi. Spesso gli uomini non si assumono le responsabilità che dovrebbero, a garanzia dei loro stessi interessi, perché in modo del tutto miope ritengono che per star bene sia sufficiente non danneggiarsi. Se l’atteggiamento è questo, è evidente che nella gerarchia dei valori l’assicurarsi prevalga sul soccorrersi, l’indisponibilità a offrirsi freni la spontaneità del bene. D’altra parte, ignorare l’esistenza degli altri, prescinderne, ci esonera dal dovere di dare risposte. Per non sentirsi colpevoli basta poter dire sempre e in ogni caso: “con questo io non c’entro”. Nelle società contemporanee avanzate, infatti, le colpe maggiori non riguardano tanto quel che si fa, ma quel che non si fa: il peccato corrente è l’omissione. Non assumersi responsabilità è il modo migliore per non sentirsi colpevoli. Si dirà: io ignoro gli altri? Ma quando mai! Infatti, un po’ di beneficenza – che al di là di ogni buona intenzione è pur sempre una monetizzazione delle relazioni umane -, all’occasione, è un modo facile per scaricarsi la coscienza. Ben venga la beneficenza – sempre e in ogni caso – ma non la si faccia mai a discarico o in sostituzione, bensì a compimento, come un portare a perfezione la propria capacità di mettersi a disposizione. anche a costo di personali rinunce. E tuttavia a fronte di indubbie e molteplici generosità gli uomini sfuggono innanzi alle proprie responsabilità. Quanti, infatti, si rendono conto di come e quanto i diversi stili di vita, i livelli di ricchezza, l’impiego distorto delle risorse, il modo ovvio e mai problematizzato di usarle pesino sui nostri reciproci destini.


Assumere su di sé il peso degli altri consapevolmente non può dunque coincidere con la generosità dell’offrire – o nell’offrire quel che si può – ma piuttosto con il diuturno impegno perché si realizzi un mondo più giusto. Questo modo di atteggiarsi permetterebbe – perfino – di pensare la politica diversamente da quanto comunemente accade e renderebbe decisamente stonata la formula qualunquistica “sono tutti uguali”. L’assunzione di responsabilità a causa della giustizia potrebbe essere per tutti una buona ragione per impegnarsi disinteressatamene in politica contro gli usi personalistici ed arbitrari del potere. Ma – ci si chiede – se la politica nasce per mediare interessi come si potrà mai parlare, in essa, di disinteresse? ingenuità o follia. Tuttavia la politica si giustifica se e solo opera in vista dell’interesse generale: in questa luce, l’utopia del disinteresse si mostra più ragionevole di quanto non lo si pensi. Date queste premesse, chiara ne è la conseguenza: le società contemporanee diverranno società responsabili solo quando abbandoneranno la pratica diffusa dell’omissione, che le esonera formalmente dagli obblighi e permette loro la falsa coscienza: quella di sentirsi innocenti. Alla responsabilità non si sfugge perché non è cosa che si possa assumere a discrezione, però, ma è la realtà a imporla. L’altro nel suo puro esistere mi rende sempre e in ogni caso responsabile. Lo posso amare, aiutare, combattere, odiare: sempre e in ogni caso prendo posizione nei suoi confronti e non posso non prenderla. Quand’anche lo ignorassi sarei appunto responsabile di ignorarlo e sarei perciò nei suoi confronti sempre inevitabilmente giusto o colpevole, mai neutrale.


Il mio essere responsabile non dipende da una mia decisione, ma è una mia condizione: è l’altro per il fatto stesso di esistere che mi impedisce di non esserlo. Tanto vale che ognuno assuma consapevolmente le proprie responsabilità. Da questo punto di vista la Bibbia è più che mai esemplare. Dopo che Caino ha ucciso il fratello Dio lo interroga con le note parole: “Dov’è Abele, tuo fratello?” (Genesi 4,9). Caino si difende dichiarandosi irresponsabile. Ma egli responsabile lo è, non tanto e non solo perché il fratello lo ha ucciso, ma perché non lo ha preso in custodia. Evidentemente se lo avesse preso in custodia, se se ne fosse reso responsabile non lo avrebbe ucciso. Essere responsabile di un altro non vuol dire affatto agire per suo conto - e meno che mai sostituire l’altro nella sua libertà - ma, al contrario, prendere la libertà dell’altro a misura della propria azione e del proprio limite. Questo sentirsi reciprocamente responsabili apre la strada al divenire vicendevolmente disponibili (S. Natoli, Parole della filosofia, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 137-139).