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ALBERT GERHARDS

Leggi tutto: ALBERT GERHARDSAlbert Gerhards (Viersen-Dülken, 1951), dottore in teologia, dal 1989 ricopre l’incarico di Professor für Liturgiewissenschaft und Direktor des Seminars für Liturgiewissenschaft presso la Facoltà cattolica di teologia dell’Università di Bonn. Dal 1991 al 2001 è stato consultore della Commissione per la liturgia della Conferenza episcopale tedesca; è membro della Societas Liturgica, dell’Internationalen Arbeitsgemeinschaft für Hymnologie, del Deutschen Liturgischen Instituts, del Deutschen Gesellschaft für christliche Kunst. Dal 2003 è membro del Comitato scientifico dei Convegni Liturgici Internazionali del Monastero di Bose.


Proposte di lettura

- Communio-Räume. Auf der Suche nach der angemessenen Raumgestalt katholischer Liturgie, Albert Gerhard, Thomas Sternberg, Walter Zahner (Hrsg.); unter Mirarbeit von Nicole Wallenkamp, Regensburg, Schnell & Steiner, 2003.
«Il dibattito sull’orientamento: riflessioni teologiche», in G. Boselli (ed.), Spazio liturgico e orientamento. Atti del 4. Convegno liturgico internazionale, Bose, 1.-3 giugno 2006, Magnano, Edizioni Qiqajon - Comunità di Bose, 2007, pp. 167-188.
- La liturgia della nostra fede, Magnano, Edizioni Qiqajon - Comunità di Bose, 2010.
- Licht. Ein weg durch räume und zeiten der liturgie, Regensburg, Schnell et Steiner, 2011.
- Erneuerung kirchlichen Lebens aus dem Gottesdienst. Beiträge zur Reform der Liturgie, Stuttgart, Kohlhammer, 2012.
- Liturgie und Ästhetik, hrsg. von Albert Gerhards und Andreas Poschmann, Trier, Deutsches Liturgisches Institut, 2013.
- «Frequentare mysteria. L’orientamento della preghiera e la forma dell’assemblea liturgica», in La sapienza del cuore. Omaggio a Enzo Bianchi, Torino, Einaudi, 2013.


https://www.liturgie.uni-bonn.de/lehrstuhl/mitarbeiter-1/lehrstuhlinhaber

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Progettare insieme per fare chiesa - Avvenire 4 giugno

Monastero di Bose
Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto – Cei
Consiglio Nazionale Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori

XV CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE
ABITARE
CELEBRARE
TRASFORMARE

processi partecipativi tra liturgia e architettura

BOSE, 1-3 giugno 2017


Avvenire 4 giugno 2017
di LEONARDO SERVADIO

Abbiamo imparato a fare chiesa» ha dichiarato uno dei giovani partecipanti al laboratorio attivato nella comunità monastica di Bose alla conclusione del XV Convegno liturgico Internazionle (CLI), svoltosi da giovedì a ieri e articolato secondo tre vie: “Abitare, Celebrare, Trasformare”. L’iniziativa è intesa a riprendere alla radice il concetto del luogo di culto, per comprendere come costruirne ancora oggi e di un valore paragonabile a quelle lasciateci dal passato. In questi primi mesi di lavoro, anzitutto i giovani hanno imparato a pensare e a sperimentare assieme: «È questa la prima grande lezione che abbiamo appreso» hanno spiegato i partecipanti al CLI/Lab.

La Chiesa di “pietre vive” è quella che sarà capa- ce di edificare l’altra, quella di solidi muri, destinata a durare nel tempo e a «testimoniare la nostra opera, anche al di là del tempo che ci è concesso su questa terra», come ha chiosato Carlo Ratti alla conclusione del convegno. Questo si è diffuso su tematiche apparentemente lontane tra loro, dalla teologia alla tecnologia. Ma necessariamente tutte concorrono alla definizione degli ambienti in cui viviamo, tenendo conto del fatto che la chiesa resta l’architettura principale per la vita sociale. Non solo la città europea è per tradizione incentrata proprio sulla chiesa ma, come ha ricordato Luigi Bartolomei nell’aprire la seconda giornata del convegno, l’annuncio cristiano porta a compimento, nel grembo materno di Maria, l’attesa del sacro che è presente nell’uomo da sempre, sin dalle grotte preistoriche sulle cui pareti si sono assommati graffiti per millenni, a dimostrazione di come quelli fossero luoghi sacri, primari per l’identità dei gruppi umani che vi si riconoscevano. «Più che distanza o opposizione – ha detto Bartolomei – tra quei culti lontani e il messaggio cristiano v’è compimento» portato dall’azione consolatrice, quella che toglie dalla solitudine attraverso l’accompagnamento: sicché l’azione dello stare insieme che diviene luogo (con-solo), poiché l’essenza dell’umano è di carattere relazionale. Per cui lo spazio della città, luogo primario dell’essere comunità, si ricollega immediatamente alla sacralità nel momento in cui si riallaccia alla memoria delle generazioni passate: e non a caso la città sorge prossima al cimitero. In tale nesso si trovano archetipi tuttora attivi nella psiche collettiva, che la Chiesa porta a compimento nel riassumerli attraverso le testimonianze della buona novella.

Ecco dunque che continuità e trasformazione sono intimamente riassunti nell’edificio che meglio esprime la presenza della comunità nel trascorrere della storia. Il cui aspetto dinamico è stato evidenzato anche da Louis-Marie Chauvet che ha discusso dei riti del passaggio – e i riti sono tutti collegati a un passaggio, a una pasqua. A partire dalle esequie che implicano sempre accoglienza e accompagnamento, al rito dell’accensione del cero segno di risurezione. Sono questi gesti che “fanno” chiesa e nella loro essenzialità si spiegano da soli, ha insistito Chauvet notando come invece a volte si carica il rito di eccessive spiegazioni quando, per l’architettura come per la liturgia, “less is more”, il meno è più.

«Uno dei problemi in architettura – ha osservato Andrea Longhi, docente al Politecnico di Torino e uno dei mentori del laboratorio giovani del CLI insieme con Luigi Bartolomei, Stefano Biancu, don Valerio Pennasso e i monaci di Bose Goffredo Boselli, Emanuele Borsotti e Massimo Buongiorno – sta nel pregiudizio determinato dalle immagini che ciascuno di noi ha in mente, di spazi o luoghi esistenti». Di qui la necessità di acquisire una più vasta conoscenza di luoghi e immagini così da aprire lo sguardo a panorami più vasti e, soprattutto, la necessità dell’ascolto, senza la quale i processi partecipativi necessari alla giusta architettura sarebbero impossibili.
Solo la capacità di ascolto consente di interpretare la complessità. Che diviene sempre più articolata per via delle potenzialità offerte dalla tecnologia all’arte del progettare.

Al riguardo Carlo Ratti, architetto torinese docente al MIT di Boston, ha presentato diversi esempi di come attraverso l’informatica si possano ottenere sistemi capaci di regolare il controllo climatico (che può persino essere focalizzato sulla singola persona per evitare dispersioni di energia), o si possano disegnare luoghi con elementi un tempo impensabili, quali i getti d’acqua regolati al punto da comporre pareti intere. Ma tecnologie così avanzate richiedono la massima compartecipazione. In un progetto per Medina in Arabia Saudita hanno dovuto interagire specialisti in tredici diverse discipline: la progettazione oggi è firmata da gruppi, così come lo è la ricerca scientifica, oggi non più appanaggio di singoli, ma solo di team di lavoro. L’architettura partecipata ha trovato nel sistema dei concorsi attivati dalla Conferenza Episcopale Italia- na sin dalla fine degli anni ’90, un esempio fruttuoso: l’ha notato Gabriele Cappochin, presidente del Consiglio Nazionale Architetti PPC, che in apertura del convegno notava quanto fosse auspicabile che i sistemi partecipativi studiati dalla Chiesa italiana fossero adottati anche per le opere pubbliche. Nel laboratorio giovani aperto a Bose sotto gli auspici della Cei, si trova un altro, ancor più aggiornato esempio di come procedere in ogni ambito della progettazione e conservazione degli spazi urbani, così che siano sentiti come autenticamente propri da ogni cittadino. Proprio come è ogni chiesa, per sua natura.

 

L'architettura riscopre il tempo - Avvenire 3 giugno

Monastero di Bose
Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto – Cei
Consiglio Nazionale Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori

XV CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE
ABITARE
CELEBRARE
TRASFORMARE

processi partecipativi tra liturgia e architettura

BOSE, 1-3 giugno 2017


Avvenire 3 giugno 2017
di LEONARDO SERVADIO

Abitare, celebrare, trasformare: un convengo atipico quello che si è aperto giovedì a Bose. A differenza delle quattordici edizioni precedenti, questo in- contro internazionale liturgi- co e architettonico non si è focalizzato su una specifica parte della progettazione per l’edificio chiesa. L’ha considerato invece nella sua complessità diacronica, storica, generativa e dinamica. Perché, come nell’aprire i lavori ha evidenziato Enzo Bianchi, il fondatore del monastero di Bose, la chiesa edificio esprime in ogni tempo e in ogni luogo la comunità per la quale è costruita e dalla quale è abitata. Ne è un poco come un vestito tagliato su misura: per forza di cose concepito secondo la sensibilità del momento e i gusti di chi lo indossa,  restando sempre del pari universale ma anche individuale.

E, ha evidenziato il teologo Dario Vitali, il modo di “fare” chiesa è mutato molto nel tempo, passando dalla condizione di assemblea concelebrante attorno a un altare centrale, com’era in epoca paleocristiana, sino a rivestirsi via via di maggiore carica gerarchica mentre l’altare, luogo principe del celebrare, veniva spostato verso l’abside dell’aula basilicale ponendo una separazione tra presbiterio e navata, fino a raggiungere la configurazione che esprime la condizione di potere acquisito dalla Chiesa dal tempo del Sacro Romano Impero. Ma non v’è, nel passato, epoca in cui tanto s’è dubitato della validità di questo che è il suo volto pubblico, quanto se ne dubita oggi: eppure, come notava Enzo Bianchi, anche oggi vi sono tante opere architettoniche di valore, spesso ignorate oppure mal interpretate. Come può essere il caso della recente chiesa bergamasca di San Giovanni XXIII, degli architetti Zublena e Traversi con opere d’arte di Andrea Mastrovito e Stefano Arienti che compongono un tutto armonico. Qui la luce spiovente disegna un ambiente di grande potere suggestivo sulla cui parete di fondo si aprono tre vetrate a mo’ di abside, dominate al centro dalla figura del crocefisso. Ma ecco che, pur poco dopo il completamento dell’opera, i fedeli hanno sentito la necessità di aggiungere alcune sta- tue in gesso incongrue con l’insieme.

È una delle molte manifestazioni dei problemi che riguardano la gestione delle chiese nuove, quanto di quelle storiche. Come far sì che la dignità che esse sono chiamate a rappresentare si traduca in espressioni visibili di bellezza, consone al tempo presente ma non immemori del passato? E che la comunità possa sentirsi in rapporto armonico con le chiese che abita e da cui è rappresentata?

Su questi problemi mira a incidere la discussione attivata col CLI lab (laboratorio Convegno Liturgico Internazionale) cui sono stati chiamati giovani progettisti e artisti perché riprendano a studiare lo spazio per il culto a partire dalle domande fondamentali che esso solleva nell’animo umano e che attengono alla collocazione e al significato della chiesa nello spazio urbano, al suo raccordo e alla sua distinzione rispetto a esso, al significato dell’abitarlo qui e ora: tema, quest’ultimo, su cui ha parlato Carla Danani, in merito alle prospettive filosofiche dell’abitare. Abitiamo l’ambiente ma ne siamo anche abitati, in una relazionalità circolare per la quale sin dall’origine apprendiamo dall’ambiente attraverso la nostra presenza corporea, mentre del pari lo condizioniamo: ragione per la quale ne siamo inevitabilmente responsabili. E quel che vi compiamo, a sua volta compirà su di noi. Il tema, dagli immediati risvolti ecologici, si riferisce anche al problema dell’identità della comunità, che si riflette nel luogo che essa abita e, abitandolo, la conforma.

Don Valerio Pennasso, responsabile del- l’Ufficio beni culturali e edilizia di culto del- la Conferenza Episcopale Italiana ha evidenziato la necessaria responsabilità e adeguatezza cui sono chiamati tutti coloro che sono coinvolti nelle azioni compiute sulla chiesa, dal momento della sua progettazione a tutto il tempo del suo restare quale luogo abitato dalla comunità: di qui la necessità di una progettazione che pensi non solo al risultato immediato, ma al fatto che l’edificio resta e richiede manutenzione, cura, adeguamento al trascorrere del tempo, al cambiare stesso delle comunità che lo abitano. Ne discende che lo spazio della chiesa è inevitabilmente dinamico e trasformativo, non solo perché si pone co- me “altro” rispetto a quello della vita di tutti i giorni, ma anche perché accompagna le comunità che vi si alternano, secondo un ritmo che diviene tanto più rapido oggi, quando uno stesso luogo può essere abita- to da comunità totalmente differenti nel giro di pochi anni, a seguito delle mutazioni demografiche dei quartieri.

La dinamicità dello spazio della chiesa è stata graficamente illustrata da Aaron Werbick e Gerald Klahr, riguardo alla chiesa di St. Martin a Stoccarda. Costruita nel 1936 e rimasta quale luogo di memoria storica e di valore identitario per generazioni, dal 2006 è stata aperta alla sperimentazione perché servisse quale spazio di pubblica utilità. I due progettisti hanno spiegato come in diverse fasi abbiano proposto anzitutto di far esperire che quella chiesa non dovesse re- stare “imbalsamata”, ma potesse cambiare pur mantenendo il proprio valore di ancoraggio storico e identitario. In una prima fase è stato aperto un inedito percorso di accesso laterale, che col semplice cambio di direzione portava una prima istanza di mutamento; in successive fasi sono state poste nuove installazioni composte da assi lignee che hanno dato luogo a diverse conformazioni tra presbiterio e navata, fino a porsi come ponte tra interno della chiesa e spazio antistante. Il tutto in un continuo dialogo con la comunità che sulle prima ha accolto con perplessità le proposte, poi vi si è impegnata attivamente e in modo propositivo. Così, se l’edificio in quanto contenitore restava invariato, una serie di elementi di contorno variavano consentendone un utilizzo diversificato, per eventi e momenti di- versi, extra liturgici.

È stato un modo di conoscere ex novo uno spazio consueto e di riabitarlo attraverso le trasformazioni esperite come momento riappropriativo. Nelle variazione, la comunità si è riappropriata del tempo, la dimensione su cui sembra più difficile incidere.

Se in opere come quella di Stoccarda le trasformazioni sono avvenute in pochi anni, tra il 2015 e il 2016, non v’è chiesa al mondo che non sia stata trasformata nei secoli, ovvero che non si ponga come luogo dinamico. La questione dunque è questa: come procedere perché questo dinamismo sia consciamente vissuto e partecipato dalla comunità che, abitando la chiesa, ne è responsabile?

Costruire chiese per abitare l'attualità - Avvenire 1 giugno

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Avvenire 1 giugno 2017

Negli ultimi decenni si è riflettuto poco sul fatto che la chiesa, popolo in cammino, è una realtà in continua trasformazione. Vi è in primo luogo un mutamento della fede nella comunità cristiana: la fede cambia, non solo nel modo di esprimersi, ma perché assume altri accenti, altre immagini di Dio e di Cristo. Il “Credo” è sempre lo stesso, eppure nessuno di noi crede nello stesso modo in cui credeva da giovane, o come si credeva prima della rivoluzione antropologica, culturale e teologica degli anni ’60 del secolo scorso. Si registra anche un mutamento della società, un passaggio dall’assetto della cristianità a una situazione inedita, negli ultimi secoli in cui la chiesa è tornata a essere una comunione di minoranze, senza più poter “reggere” la società, ormai secolarizzata.

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Chiese per le città di oggi - La Repubblica 1 giugno

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La Repubblica 1 giugno 2017

I secoli di cristianesimo che ci stanno alle spalle testimoniano che quando la fede è pensata, ovvero quando tutti gli ambiti in cui essa si esprime non sono ignorati, trascurati o lasciati al caso, la fede giunge da sé a creare cultura. Sì, una fede vissuta con intelligenza crea cultura, che si esprime tanto nelle forme del pensiero quanto nell’espressione artistica, sia essa figurativa, musicale o architettonica.

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La saggezza della comunità - Osservatore Romano 1 giugno

Monastero di Bose
Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto – Cei
Consiglio Nazionale Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori

XV CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE
ABITARE
CELEBRARE
TRASFORMARE

processi partecipativi tra liturgia e architettura

BOSE, 1-3 giugno 2017


Osservatore Romano 1 giugno 2017
di DARIO VITALI

La Lumen gentium afferma la precedenza del popolo di Dio sulla gerarchia, della vita teologale sulle funzioni ministeriali e gli stati di vita, in ragione della precedenza dell’essere sul fare. La rivoluzione copernicana del concilio trova il suo fondamento nel rapporto costitutivo tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, che «differiscono per essenza e non tanto per grado», e che per questo «partecipano ambedue, ciascuno a suo proprio modo, all'unico sacerdozio di Cristo» (Lumen gentium, 10). Si tratta dell’unica differenza essenziale nella Chiesa, che abilita qualcuno — in forza della configurazione sacramentale a Cristo-capo — ad agere in persona Christi in favore della comunità sacerdotale. Tutte le altre differenze sono espressione della grazia battesimale.

Non si tratta perciò di negare la gerarchia per innalzare i laici, di cancellare le funzioni per affermare un potere concorrente del popolo di Dio; si tratta piuttosto di tornare ai giusti processi ecclesiali, in grado di garantire la crescita della Chiesa come «comunità di fede, speranza e carità» (Lumen gentium 8), e perciò di ogni suo membro nella vita teologale, attraverso la circolarità continua tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, tra la comunità sacerdotale e i suoi pastori.

Lumen gentium aveva descritto il sensus fidei come partecipazione del popolo di Dio alla funzione profetica di Cristo: «La totalità dei fedeli che hanno ricevuto l’unzione del Santo (cfr. Giovanni 2, 20.27) non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua peculiare proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici”, esprime il suo universale consenso in materia di fede e di morale. Con il senso della fede suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il popolo di Dio, sotto la guida del sacro magistero al quale fedelmente si conforma, accoglie non già una parola di uomini, ma realmente la Parola di Dio; aderisce indefettibilmente “alla fede trasmessa una volta per tutte ai santi”, vi penetra più a fondo con retto giudizio e più pienamente la applica alla vita» (Lumen gentium 12).

L’ecclesiologia conciliare conferisce al sensus fidei il suo giusto posto e rilievo: la rivoluzione copernicana in ecclesiologia permette di recuperare effettivamente la funzione attiva del popolo di Dio non solo nel campo ristretto dello sviluppo dogmatico, ma in tutti i processi della vita ecclesiale, compreso l’ambito dell’architettura e dell’arte sacra. Se si tratta, infatti, di una forma peculiare di esercizio del sacerdozio comune — la partecipazione alla funzione profetica di Cristo da parte della totalità dei battezzati — il suo esercizio avviene nella circolarità continua con il munus docendi dei Pastori della Chiesa. La difficile recezione di una dottrina.

Basterebbero queste affermazioni per tentare un collegamento del sensus fidei con il processo — immaginato dal presente convegno — di «fare, abitare, costruire, celebrare, trasformare», in una relazione armonica di «committenza, architetti, artisti e comunità cristiana, in dialogo con il tessuto sociale e ambientale circostante». Sarebbe, però, una scorciatoia, o un cortocircuito, dal momento che la teologia post-conciliare, una volta affermata enfaticamente la novità del sensus fidei, ha di fatto trascurato questa dottrina, come pure la dottrina del sacerdozio comune; anzi, l’uso polemico che è stato fatto di questi temi, mettendo in competizione il sacerdozio comune con il sacerdozio ministeriale, e opponendo l’autorità dottrinale dei fedeli al Magistero della Chiesa, ha spinto quest’ultimo a inquadrare la teologia del popolo di Dio e, in particolare, il sensus fidei nel fenomeno del dissenso. Se così fosse, come immaginare un contributo al «fare Chiesa» di un soggetto — il popolo di Dio — che rivendica in termini polemici una funzione alternativa alla gerarchia?

In realtà, a essere polemica non è stata la universitas fidelium — alla quale difficilmente viene concessa la parola — ma quanti si erano eletti a suoi interpreti qualificati: soprattutto teologi che hanno assunto il sensus fidei come istanza democratica nella Chiesa, opponendo carisma a istituzione, libertà a verità, popolo di Dio a gerarchia, in uno schema ideologico che ha molto compromesso e frenato il processo di rinnovamento ecclesiale avviato dal Vaticano II. A causa di tale deriva il sensus fidei non ha conosciuto la dovuta attenzione nel processo di recezione del concilio, con la conseguenza di disattendere le enormi possibilità di applicazione che il quadro ecclesiologico disegnato da Lumen gentium offriva al suo esercizio. Di fatto, nel Magistero post-conciliare si è preferito glissare sul tema, passando a una più comoda teologia del laicato, costruita sul rapporto di collaborazione con la gerarchia piuttosto che sul primato del popolo di Dio.

Il sensus fidei — contestuale con il tema del popolo di Dio — è tornato al centro dell’attenzione con Papa Francesco.

Sulla base di questa dottrina, il Papa fonda e giustifica la sua idea che, «in virtù del battesimo ricevuto, ogni membro del popolo di Dio è diventato discepolo missionario», per cui «ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il suo grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati, in cui il popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni» (Evangelii gaudium 120). Criterio, questo, che sembra calzare in termini esemplari al campo dell’edilizia di culto e dell’arte sacra, appannaggio dei committenti, degli architetti e degli artisti, senza alcuna partecipazione attiva del popolo di Dio al processo. Al di là di una richiesta di aiuto economico per la costruzione della chiesa, null’altro si chiede alla comunità cristiana.

D’altronde, cosa potrebbe mai dire o fare il popolo di Dio in un’azione che richiede competenze precise, sia in fase di progettazione che di esecuzione? Come potrebbe incidere su un progetto architettonico, o su un’opera o un ciclo di arte sacra, se manca di strumenti che ne rendano se non necessaria, quantomeno utile la richiesta di un parere? Erano, su altro registro, le stesse domande che si poneva Melchor Cano nel XVI secolo, quando, pur riconoscendo la universitas fidelium come voce della Tradizione, e perciò una delle autorità che il teologo poteva interrogare per comprovare la verità cattolica, lo privava di qualsiasi valore chiedendosi che cosa mai i fedeli potessero dire che già i pastores ac doctores non avessero già detto, molto meglio e con più profondità e pertinenza. Stando a questo criterio, che cosa possono chiedere alla gente il vescovo, il liturgista, il teologo, l’architetto, l’artista che loro già non sappiano? Ma in tal modo si finirebbe nella stessa logica degli «attori qualificati», che priverebbero il popolo di Dio di qualsiasi capacità attiva nel processo di costruzione di una chiesa.

Sfuggendo a questa logica, Papa Francesco, nel discorso in occasione del cinquantesimo anniversario dell’istituzione del sinodo dei vescovi, ha spiegato che è stato il riferimento al sensus fidei a «guidarmi quando ho auspicato che il popolo di Dio venisse consultato nella preparazione del duplice appuntamento sinodale sulla famiglia. Certamente, una consultazione del genere in nessun modo potrebbe bastare per ascoltare il sensus fidei. Ma come sarebbe stato possibile parlare della famiglia senza interpellare le famiglie, ascoltando le loro gioie e le loro speranze, i loro dolori e le loro angosce? Attraverso le risposte ai due questionari inviati alle Chiese particolari, abbiamo avuto la possibilità di ascoltare almeno alcune di esse intorno alle questioni che le toccano da vicino e su cui hanno tanto da dire».

Quel discorso — che non è fuori luogo qualificare come storico — ha ripreso e sviluppato l’ecclesiologia conciliare in chiave sinodale, offrendo un quadro assai utile per sussumere il quadro delle relazioni tra «committenza, architetti, artisti e comunità cristiana».

Il punto primo e decisivo è che, analogicamente al processo avviato dal Papa per i due sinodi, bisognerebbe ascoltare ciò che la comunità cristiana ha da dire sulla propria casa, quella che già abita o quella che andrà ad abitare. La scelta decisiva non è quella di inviare un questionario, che il più delle volte sembra destinato ai “cestini” di varia natura, ma di consultare, cioè dare voce e ascoltare la comunità cristiana in quello che ha da dire. Si tratta di andare oltre l’idea del «popolo bue», ignorante per definizione, e conferirgli dignità di soggetto, anche se il suo contributo si riducesse a balbettii: prima di liquidare l’irrilevanza di una parola incerta e debole, bisognerebbe stigmatizzare la responsabilità di quanti avrebbero potuto o dovuto, ma non hanno istruito il popolo di Dio nella grammatica della fede.

Si tratta di fare propria la logica sinodale, che elegge l’ascolto non solo come condizione, ma come primo atto dell’intero processo sinodale. Per Francesco, «una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, collegio episcopale, vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo “Spirito della verità” (Giovanni 14, 17), per conoscere ciò che Egli “dice alle Chiese” (Apocalisse 2, 7)». Nel caso del sensus fidei, è un ascolto fondato sulla convinzione che «voi avete l’unzione ricevuta dal Santo e tutti sapete. (...) la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce» (1 Giovanni 2, 20.27).

Se anche nell’atto di avviare la costruzione di una chiesa il processo inizia dall’ascolto, chi si dovrebbe ascoltare? Che cosa si dovrebbe domandare? In che termini? Va da sé che un’indagine di tipo discrezionale, scegliendo a campione tra i membri della comunità, scadrebbe nelle dinamiche dell’opinione pubblica, contraddicendo grossolanamente il sensus fidei e la sua funzione ecclesiale, data piuttosto dall’azione dello Spirito santo che muove la Chiesa verso il consenso. Né basta dire che bisogna consultare o far parlare tutti, perché il consenso come effetto dell’esercizio del sensus fidei non è la somma delle opinioni di tutti, ma la manifestazione della fede della Chiesa in quanto tale. Questo è evidente nel campo dello sviluppo dogmatico, ma rimane vero in ogni ambito del vissuto ecclesiale: soggetto del sensus fidei non è tanto il singolo, quanto la Chiesa come totalità dei battezzati.

Questo particolare profilo ecclesiale del sensus fidei lascia intendere anche i termini in cui si debba intendere l’ascolto del Popolo di Dio da parte di chi, committente, architetto, artista, ha la responsabilità di costruire la «casa» della comunità: «ascoltare è più che sentire», ma è anche più che far parlare, in quanto nella parola — come pure nel silenzio — dell’altro chi interroga è chiamato a cogliere la voce dello Spirito che guida la Chiesa a tutta intera la verità. Non si tratta perciò di fare sondaggi e di verificare le percentuali della maggioranza, ma di porsi in ascolto di una voce — non l’unica, certo — della Tradizione, sapendo che questa «cresce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito santo» (Dei Verbum 8).

Ma come ascoltare questa peculiare voce della Tradizione, se il soggetto del sensus fidei è la totalità dei battezzati? Come interrogare un soggetto tanto grande da risultare anonimo? Non a caso, la teologia preconciliare parlava di un’infallibilità passiva, attribuendo al Magistero la funzione attiva di verificare il consenso dei fedeli. D’altra parte, così si erano regolati i Papi nel caso dei dogmi mariani, quando avevano consultato i vescovi per sapere della fede loro e dei loro fedeli circa l’Immacolata Concezione e l’Assunzione di Maria in cielo. Ma questa idea si è imposta — come si è visto — con la Riforma gregoriana: nel primo millennio non si parlava di «singularis Antistitum et fidelium conspiratio», intendendo due autorità nella Chiesa — il Magistero e la universitas fidelium — che attestano la stessa verità, ma di «singularis christianorum populorum concordissima fidei conspiratio», dove «i popoli cristiani altro non sono che le diverse Chiese diffuse su tutta la terra, in comunione tra loro proprio per la condivisone della medesima fede apostolica».

Le due formule rispondono a modelli ecclesiologici diversi: la Chiesa come communio Ecclesiarum del i millennio e la Chiesa universale del ii millennio. Il Vaticano II, senza negare le acquisizioni dell’ecclesiologia giuridica del ii millennio, centrata soprattutto nella difesa delle prerogative del Papa, anzi inserendole in un quadro più ampio e organico, ha recuperato l’orizzonte dei Padri, spiegando la compagine ecclesiale come «il corpo delle Chiese», «nelle quali e a partire dalle quali esiste l’una e unica Chiesa cattolica» (Lumen gentium 23). La forza di questo principio, che nel post-concilio si è tentato di stemperare, risiede nella capacità di tradurre in termini di circolarità feconda la cattolicità della Chiesa. In effetti, il concilio, proprio nel quadro del capitolo sul popolo di Dio, aveva già affermato la «mutua interiorità» di universale e particolare, asserendo la legittima esistenza delle Chiese particolari, le quali «godono di tradizioni proprie, salvo restando il primato della cattedra di Pietro che presiede alla comunione universale della carità, garantisce le legittime diversità e insieme vigila perché il particolare non solo non nuoccia all’unità, ma piuttosto la serva» (Lumen gentium 13).

Qualcuno potrebbe chiedersi perché tanta insistenza sul registro ecclesiologico. Il motivo è semplice e decisivo insieme: dato che «il deposito della Parola di Dio» è stato «affidato alla Chiesa» (Dei Verbum 10), un diverso modello di Chiesa reclama un diverso modello di trasmissione del deposito rivelato. Quando, cioè, si concepisca la Chiesa nella «mutua interiorità» di Chiesa universale e Chiese particolari, anche il dinamismo della Tradizione va ripensato secondo il profilo di tale soggetto, che non è più la Chiesa universale genericamente intesa, ma il «corpo delle Chiese» in comunione tra loro, con il successore di Pietro come principio e fondamento dell’unità di tutti i battezzati, di tutte le Chiese, di tutti i vescovi.

Il concilio, disegnando in senso dinamico il progresso — meglio sarebbe dire: il cammino — della Tradizione, ha recuperato anzitutto la funzione del popolo di Dio. Quando Dei Verbum afferma, infatti, che «la perceptio, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce sia per la contemplazione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro (cfr. Luca, 2, 19.51), sia per la profonda intelligenza delle cose spirituali di cui fanno esperienza, sia per la predicazione di coloro che hanno ricevuto un carisma sicuro di verità» (Dei Verbum 8), prima della predicazione dei vescovi sottolinea la capacità dei credenti di intus-legere il mistero cristiano. Il testo non richiama esplicitamente il sensus fidei, che, tuttavia, è evocato dalla contemplazione di chi, sull’esempio di Maria, medita nel proprio cuore, e soprattutto dall’intelligenza profonda (intima) delle cose spirituali che scaturisce dall’esperienza cristiana.

Due le conseguenze più immediate: che non si può comprendere la Tradizione limitandosi all’ascolto dei pastori, in quanto dotati del «carisma sicuro di verità», senza considerare il popolo santo di Dio, voce della Tradizione e quindi soggetto di diritto della sua trasmissione; inoltre, che bisogna ascoltare il popolo di Dio addirittura prima dei pastori. Questo non per ribaltare la piramide, nel tentativo di esautorare o comunque indebolire la funzione del Magistero: la logica del testo risponde piuttosto all’idea di Rivelazione come incontro e dialogo di Dio con l’uomo. Se, infatti, «Dio parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con loro per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé» (Dei Verbum 2), la risposta a Dio nel dialogo è di questi uomini che «per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito santo, hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della natura divina» (Dei Verbum 2), cioè del popolo di Dio, costituito tale in forza della rigenerazione in Cristo, che non risponde anzitutto con illustrazioni dottrinali, ma con la confessione della fede, con la parola e soprattutto con la testimonianza della vita.

L’arte di accogliere le famiglie nel lutto - Osservatore Romano 1 giugno

Monastero di Bose
Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto – Cei
Consiglio Nazionale Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori

XV CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE
ABITARE
CELEBRARE
TRASFORMARE

processi partecipativi tra liturgia e architettura

BOSE, 1-3 giugno 2017


Osservatore Romano 1 giugno 2017
di Louis-Marie Chauvet

Prima di essere la casa di Dio (i templi pagani erano la casa del dio e contenevano la statua che lo rappresentava), una chiesa è la casa della Chiesa, cioè del popolo di Dio. Popolo di Dio: ecco una delle immagini che è riemersa nel concilio Vaticano II per designare la Chiesa, immagine che, a differenza di quella paolina di «corpo di Cristo» è largamente estensibile: di un corpo o si è membra o non lo si è, non c’è via di mezzo; parlare di un popolo permette di abbracciare una realtà più ampia.

Ora, questo popolo di Dio è per l’appunto molto diversificato: diverso non solo per cultura e lingua, ma per il suo posizionamento nella fede. Ciascuno, di conseguenza, deve poter trovare il proprio posto nell’edificio-chiesa, sentirsi accolto e anche, in certo modo, avere la sensazione di essere atteso per il semplice fatto che il Dio del vangelo attende e accoglie ciascuno così com’è, quale che sia il punto in cui si trova, come ama sottolineare così frequentemente Papa Francesco. Nel “corpo di umanità” di Cristo, che sia attuale (i cristiani) o semplicemente virtuale (l’insieme dell’umanità), ciascuno deve poter trovare il suo posto. Questo deve evidentemente ripercuotersi sulla qualità della celebrazione dei funerali. Ora, questa qualità dipende innanzitutto dalla qualità dell’accoglienza e dell’accompagnamento delle persone che richiedono tale cerimonia.

Vorrei parlarvi a partire dalla mia pratica pastorale in una parrocchia di ventiduemila abitanti nella periferia parigina in cui si celebrano circa settantacinque funerali l’anno. Nella nostra équipedi accompagnamento delle famiglie in lutto siamo quattro, tre laici e io, che sono presbitero. Poiché la messa propriamente detta è celebrata raramente in questa occasione per il fatto che la stragrande maggioranza dei defunti non erano o non erano più praticanti, e spesso da molto tempo, e che il rapporto della loro famiglia con la fede cristiana è diventato spesso molto debole, il più delle volte potrei anche non mettermi in gioco in quanto prete, e questo tanto più per il fatto che le tre persone che assicurano questo compito lo fanno con tutta la cura che ci si potrebbe augurare da un punto di vista pastorale e spirituale.

Eppure, almeno tre volte su quattro sono presente accanto a una di loro. C’è un motivo pastorale: fa parte essenziale dello sforzo che abbiamo intrapreso da qualche anno per «andare nelle periferie», come domanda Papa Francesco. Le cosiddette periferie, in questo caso, non abbiamo bisogno di andarle a cercare, vengono da noi in quest’occasione e, oserei dire, vengono da molto lontano rispetto alla fede cristiana.

La maggioranza di queste persone non hanno altro elemento di identità cristiana che qualche vago ricordo del catechismo imparato durante l’infanzia; i loro figli, oggi adulti, molto spesso non sono battezzati o, comunque, non hanno ricevuto una catechesi. A mio avviso, sarebbe un peccato (come fa purtroppo la maggior parte dei preti oggi in Francia) non approfittare di questa opportunità col pretesto che, poiché dei laici possono svolgere questo incarico, i preti non devono più occuparsene. Personalmente, e questo costituisce, al di là della motivazione personale, la ragione propriamente teologica del mio atteggiamento, io rifiuto questo aspetto concorrenziale. È un pensiero tipicamente clericale, centrato sul potere: «Se lo possono fare loro, allora non c’è bisogno che entri in gioco anch’io».

Questo non corrisponde affatto a ciò che padre Yves Congar chiamava non molti anni orsono la «corresponsabilità differenziata» tra ministeri ordinati (preti e diaconi) e ministeri dei laici! Una corresponsabilità suppone che non si sostituisca un termine all’altro ma che, al contrario, si cooperi ciascuno in nome della sua missione (questo si chiama partenariato). Del resto, se si restringe il campo di esercizio del ministero presbiterale nell’ambito di ciò che è sacramento nel senso stretto del termine, non si finisce per sostenere una già inquietante “sovra-sacerdotalizzazione”? La “consolazione” (paráklisis, 2 Corinzi 1, 4-5) non costituisce una delle dimensioni del ministero presbiterale?

Affinché la celebrazione nell’edificio-chiesa sia vissuta come evangelicamente buona da parte di partecipanti che, come ho già ricordato, si trovano alla periferia in rapporto alla Chiesa, occorre innanzitutto offrire loro una buona accoglienza. E offrire loro una buona accoglienza non significa soltanto accettarli umanamente così come sono, ma posare su di loro un riflesso dello sguardo di Cristo, e dunque accogliere la particella di Regno che può giungerci attraverso di loro, perché anch’essi sono amati da Dio, anche per loro Cristo ha dato la sua vita, anche in loro opera lo Spirito. Ricordiamo su questo tema le stupende affermazioni del Vaticano II: il mistero pasquale «vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore opera invisibilmente la grazia. Cristo infatti è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale» (Gaudium et spes 22).

Evidentemente questo richiede una conversione dello sguardo sulle persone. Ma tale conversione permette aperture sperimentate centinaia di volte. La postura di chi è accolto si lascia chiaramente modellare in qualche modo da quella di chi accoglie. L’apertura risponde all’apertura. A una “contrazione” di chi accoglie corrisponde una “contrazione” di chi è accolto. E quando si adotta una postura che, pur rimanendo gentile, è fondamentalmente contratta, quando dunque questo genere di incontri risultano poco felici, non si può fare un buon lavoro pastorale. Come potrebbero le persone accogliere qualcosa della buona novella quando la relazione è così tesa? Del resto, dov’è la qualità evangelica di questo comportamento? Non riflette piuttosto il desiderio di potere di chi accoglie invece del riflesso dello sguardo benevolo del Dio del vangelo: il padre del figlio prodigo, il pastore alla ricerca della pecora perduta, il padrone che ricompensa gli ultimi arrivati tanto quanto gli operai della prima ora?

Beninteso, se anzitutto occorre saper accogliere, bisogna anche offrire la possibilità di progredire. La benevolenza umana e cristiana dell’accoglienza non significa che ci si dovrebbe sottomettere al desiderio delle persone accolte, le quali, animate da rappresentazioni di Dio spesso poco cristiane, e incapaci o diventati incapaci di padroneggiare la grammatica elementare dei riti liturgici, hanno bisogno di essere guidate. Tutto sta nel guidarle in maniera evangelica. Così come c’è un’arte di celebrare, c’è un’arte di accompagnare, che è altrettanto complessa, se non ancora di più, rispetto alla prima.

La cosa più importante in tale questione sta nella qualità della relazione: il contenuto teologico di quello che sono indotto a dire nel corso della relazione in quanto prete è meno importante del modo in cui lo dico. Il teologo che io sono, tuttavia, non è affatto indotto a minimizzare la qualità di questo contenuto ma lo subordina alla qualità dell’incontro. In altre parole, è la teologia della sua pastorale che è qui in gioco.

In genere passo la prima ora dell’incontro insieme con un laico dell’équipead ascoltare, innanzitutto, il racconto della vita del defunto fatto dai suoi parenti. Inutile dire che questo momento è importantissimo perché è in questo ascolto che si costruisce la relazione che permetterà di dire qualche cosa della Buona Notizia. Sia ben chiaro, sto parlando della buona notizia del vangelo e non di idee teologiche o regole morali. La mia missione, in questa circostanza, non è quella di correggere storture teologiche o di impartire lezioni di morale, ma è quella di essere un testimone che permette alle persone di attingere alla fonte dell’«acqua viva». O, per utilizzare un’altra immagine giovannea, la mia missione è quella di permettere alle persone di gustare qualche cosa del vino nuovo e inebriante di Cana, non un vino che, con il pretesto di adattarsi alle persone, è tagliato con acqua a tal punto da diventare una bevanda insapore; come potrebbe una bevanda simile generare in quelle persone il desiderio del vangelo?

Certamente l’adattamento alle persone accolte è una necessità pastorale e occorre che questo adattamento sia fatto con intelligenza. Non si tratta assolutamente di neutralizzare in un modo o nell’altro la straordinaria novità del Dio del vangelo, cioè un Dio che ha perduto la sua “autoritaria” superbia perché è Amore (cfr. 1 Giovanni 4), amore per ciascuno fino a perdere la vita (croce); amore per ciascuno perché è in se stesso amore (relazioni trinitarie). In compenso, occorre vigilare sulla quantità di questa novità inaudita che le persone possono assorbire; una quantità eccessiva farebbe girar loro la testa o li farebbe ammalare! Sono personalmente convinto della pertinenza delle parole di Papa Francesco a questo proposito: «Quando si va all’essenziale, tutto si semplifica». E a questo essenziale è piuttosto facile andare quando ci si fonda semplicemente su alcuni riti fondamentali dei funerali: il canto d’addio, i riti così semplici e belli della luce, l’incenso, l’acqua battesimale... Insomma, io faccio una breve “mistagogia” prima della celebrazione.

In seguito lascio la famiglia con un membro dell’équipeper una seconda ora, e a volte di più, per preparare nel dettaglio la celebrazione: scelta delle letture, intenzioni della preghiera universale e così via. È l’occasione per ulteriori confidenze. Molti testimoniano che il fatto di non trovarsi più con un prete, in quanto rappresentante ufficiale della Chiesa e anche, certamente, di trovarsi con un laico, soprattutto forse quando si tratta di una donna, costituisce un plusvalore nella relazione e questo favorisce grandemente il clima della celebrazione liturgica qualche giorno più tardi.

La pastorale è innanzitutto una questione di relazioni. Riprendendo le ben note categorie di John Langshaw Austin sull’atto del parlare si può dire che essa non è tanto d’ordine “locutorio” (il contenuto di ciò che viene detto) ma piuttosto d’ordine “perlocutorio” (l’effetto morale o spirituale che produce sulle persone) e soprattutto d’ordine “illocutorio”: «Chi sono io per voi, signora, signore» e «chi siete voi per me». Ciò che è più determinante è questo rapporto tra le posizioni di chi accoglie e di chi è accolto; un rapporto di stima e di rispetto per le persone che si manifesta nella qualità dell’ascolto, un ascolto cordiale del racconto della vita che vi viene raccontata, spesso a frammenti. Storia spesso complessa; non siamo tutti «invischiati in storie», come dice il bellissimo titolo dell’opera di Wilhem Schapp? Quando, grazie a questo tipo di relazioni, le persone si sentono veramente accolte, possono accogliere a loro volta qualche cosa del vangelo come Parola di un amore che salva. Si potrebbero rileggere ovviamente alcuni famosi incontri di Gesù come quello della samaritana (cfr. Giovanni 4); è la qualità di questo incontro che nella donna trasforma un “bisogno” di qualcosa in “domanda” di qualcuno: il bisogno immediato di acqua (la donna «lasciò la sua anfora») trasformato in domanda dell’“acqua viva” che è Gesù stesso in quanto “Salvatore”. E alla fine è dentro di lei che zampilla la fonte di quest’acqua viva. L’accoglienza pastorale delle persone che chiedono un rito di passaggio come i funerali deve poter permettere, anche se il tempo è poco, di far loro gustare qualcosa di questa trasformazione che fa vivere!

Ho parlato dei funerali in chiesa. Avrei potuto evocare altri riti di passaggio, quali il battesimo dei bambini o il matrimonio. In ciascuna di tali circostanze è possibile, ne sono convinto tanto a motivo della frequente pratica pastorale quanto sulla base della teoria teologica, aprire una domanda di rito su un itinerario di senso: senso cristiano, certamente, e credo che la mia insistenza precedente su questo tema l’abbia dimostrato, ma anche senso umano. Non si può celebrare nella liturgia l’umanità del Dio divino rivelato in Gesù senza crescere noi stessi in umanità. Vi è motivo di pensare, guardando all’uscita dalla chiesa i volti delle persone che vi hanno celebrato un rito di passaggio o ascoltando le poche parole che accompagnano il loro sorriso, che esse escano da questo luogo più umane di come sono entrate, e anche più cristiane! Non per questo ricominceranno a partecipare all’eucaristia domenicale o alla vita della comunità parrocchiale, ma anche se il pastore se lo augura, non è questo che ha di mira.

Il pastore punta su quel passo verso il Dio del vangelo che l’evento religioso ha permesso loro di fare. Per il resto, si ricorda di non essere altro che un servo che non ha fatto se non quello che doveva fare (cfr. Luca 17, 10), atteggiamento evangelico di spossesso di sé che lo libera e gli permette di vivere nel rendimento di grazie.