Preghiera e autenticità
26 ottobre 2025
XXX domenica nell’anno
Luca 18,9-14 (Sir 35,15b-17.20-22a)
di Luciano Manicardi
In quel tempo, Gesù 9disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». 14Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Preghiera e autenticità: questo il rapporto posto in luce dal brano dell’Antico Testamento e dal vangelo. Il Signore gradisce la preghiera del povero e dell’oppresso (Sir 35,15b-17.20-22a) e accoglie la preghiera del pubblicano che si proclama peccatore davanti a lui (Lc 18,9-14). Vi è una fiducia in se stessi, un credersi giusti, che rende non accetta la preghiera del fariseo al tempio (cf. Lc 18,14), così come vi è la possibilità di un culto che è solo una farsa, una burla, anzi, un atto criminale, perché commisto a ingiustizia ed empietà (cf. Sir 34,23-24; 35,14-15). Nella preghiera si riflette e si svela l’autenticità o la falsità di ciò che si vive e delle persone che siamo.
Il brano del Siracide si situa nel contesto di una riflessione sul culto. È pertanto necessaria una contestualizzazione del brano liturgico per meglio comprenderlo e per tentarne un’interpretazione. Sir 34,21-27 afferma che vi è un culto, dunque una preghiera pubblica, una liturgia, autentica, ma anche una menzognera. Una pratica cultuale abbinata a pratiche quotidiane di ingiustizia e di empietà, di sfruttamento del lavoratore e di sottrazione di cibo al povero, risulta essere “un’offerta da scherno” (Sir 34,21) per Dio, un’aperta irrisione di Dio stesso, o anche, secondo una lezione attestata, “un’offerta corrotta” (cf. la versione Vulgata: oblatio est maculata). L’autore sapienziale riprende le critiche profetiche al culto pubblico (Am 5,21-27; Is 1,11-17) e afferma che l’atto cultuale può divenire un atto criminale, un omicidio: Sir 34,24-27. Anzi, un omicidio della peggior specie: “Uccide un figlio davanti a suo padre chi offre un sacrificio con i beni dei poveri” (Sir 34,24; cf. 2Re 25,7). L’autore critica poi una concezione quantitativa del culto, come se l’esaudimento fosse connesso al numero delle vittime offerte in sacrificio (“L’Altissimo non perdona i peccati secondo il numero delle vittime”: Sir 35,23). Non è la moltiplicazione degli atti cultuali, delle pratiche rituali, della partecipazione ad atti sacramentali che produce il vero fine della vita di fede, ovvero la conversione del cuore. Anzi, proprio l’azione cultuale, sposata al reiterarsi del peccato, diviene la migliore complice del peccato stesso.
Su questo sfondo si comprende perché il brano liturgico odierno inizi con l’affermazione che “il Signore è giudice” (Sir 35,15b), immediatamente preceduta dall’esortazione: “non corrompere [il Signore] con doni e a non confidare in sacrifici ingiusti” (Sir 35,14-15). L’azione cultuale è anche esposizione al Dio giudice. Ed è, per chi partecipa al culto, occasione di fare verità in se stesso davanti a Dio. Esattamente come fa il pubblicano della parabola lucana, che dice in verità se stesso davanti a Dio e, annota l’evangelista, “tornò a casa sua giustificato” (Lc 18,14). Per la Bibbia poi, l’immagine del Dio giudice rinvia direttamente alla sua sofferenza di fronte all’ingiustizia commessa, alla sua con-sofferenza di fronte alla vittima e alla sua sofferenza di fronte al fallimento dell’uomo che ha commesso il male. Quando la Bibbia dice che “Dio è giudice giusto” e aggiunge immediatamente che “ogni giorno si accende la sua ira” (Sal 7,12), non ci presenta un Dio mosso da arbitrio e capriccio, ma toccato nel profondo e sconvolto dal male che il fratello perpetra nei confronti del fratello. L’affermazione biblica dell’ira di Dio dice che Dio non è indifferente al male e che il grande male è l’indifferenza al male, è l’abitudine al male fino a non vederlo, a non denunciarlo, a non combatterlo e dunque a farsene complici. La vita è il luogo che manifesta l’autenticità della preghiera. Tant’è vero che Siracide afferma che la preghiera che Dio accoglie è quella del povero, dell’oppresso, dell’orfano, della vedova (Sir 35,16-17), insomma di tutti i miseri, gli indifesi che sono in balia di chiunque voglia approfittare di loro. Così come è gradita e accetta a Dio la preghiera di chi soccorre la vedova (Sir 35,20, almeno stando alla traduzione della CEI dell’oscuro testo del versetto 20), ovvero, di chi riconosce il povero e l’orfano, la vedova e l’oppresso come fratelli e sorelle e così confessa in verità il Dio padre di tutti andando in loro aiuto. Queste preghiere ascoltate da Dio non si svolgono in un luogo sacro, non seguono rituali codificati, non obbediscono a schemi prestabiliti e gerarchizzati, ma fanno tutt’uno con la vita. Sono vita. Così come sono autentica espressione di preghiera le “lacrime” e il “grido contro”, di cui parlano i versetti 19-20 (il cui testo non è chiaro) non compresi nella pericope liturgica. Le lacrime sono preghiera potente sia nella tradizione ebraica che in quella cristiana. Linguaggio non verbale, esse uniscono corpo e anima, interiorità ed esteriorità, e con il loro carattere tremulo e trasparente, rappresentano la delicata materialità e l’esile visibilità dell’anima. Il pianto sincero davanti a Dio, assimilabile alla preghiera a capo chino del pubblicano che riconosce la propria non edificante situazione, è un atto di coraggiosa resa: non ci si nasconde più dietro a maschere che gratificano il nostro ego diffondendo un’immagine di noi stessi che incontra l’approvazione altrui, e si riconosce la propria realtà, per deludente che essa sia o (ci) possa sembrare. E la preghiera che sgorga dalla vita a volte è anche un “grido contro” (Sir 35,19): perché nella storia vi sono vittime e carnefici, e senza carnefici non ci sarebbero vittime. Così la preghiera, quando non vuole ridursi a un ovattato e ipocrita interclassismo che tutto livella ed equipara pro bono pacis, diviene anche grido profetico che, in ultima istanza, invoca: “Venga il tuo Regno!”.
Il brano evangelico è costituito da una parabola che Gesù rivolge espressamente ad “alcuni” che “erano sicuri di essere giusti e disprezzavano gli altri” (Lc 18,9). Il prosieguo della parabola come i riferimenti ai farisei come “quelli che si ritengono giusti davanti agli uomini” (Lc 16,15), induce a identificare i destinatari della parabola nei farisei, tuttavia, l’indefinito “alcuni”, il fatto che tra gli ascoltatori di Gesù ci fossero certamente anche i discepoli, e soprattutto il tipo di disfunzionamento religioso smascherato, suggerisce di estendere i destinatari del messaggio a tutti, e anzitutto ai lettori cristiani della parabola. La parabola dice infatti che è possibile pregare accanto, ma non insieme. E l’esperienza ci dice che anche in un coro monastico o in una comunità religiosa si può rispettare l’unità di tempo e di luogo della preghiera, ma fallire completamente l’unità di cuore. E arrivare a non sopportare la vicinanza fisica di tale fratello o tale sorella per non rischiare di dover perfino scambiare il temutissimo segno della pace durante l’eucaristia.
La parabola inizia annotando che la situazione di partenza dei due personaggi è di uguaglianza: “Due uomini salirono al tempio” (v. 10). Il momento religioso diviene momento di esclusione. I due hanno una collocazione sociale profondamente differente: uno è un fariseo, l’altro un esattore delle tasse. Ma la preghiera al tempio (poco importa che si trattasse di una preghiera pubblica o privata) non crea comunione, ma fa esplodere la distanza. Il fariseo prega istituendo un paragone con il pubblicano in nome della buona e certissima coscienza di essere nel giusto. Ma una convinzione di sé che si basi sul confronto con altri è minata in radice. Nel fariseo si riflette forse l’idea di superiorità che deriva dall’appartenenza a una classe sociale e a uno strato della popolazione superiore rispetto al pubblicano. La preghiera al tempio, nello stesso luogo, l’uno accanto all’altro, non produce l’esito di una comunione. Il fariseo traspone sul piano della sua preghiera, una vera “preghiera dell’esclusione” (José Tolentino), la propria convinzione di superiorità sociale, morale e, ovviamente, anche religiosa. È come se fosse “la vita a determinare la loro coscienza e non la loro coscienza a determinarne la vita … Il tempio, luogo pubblico, per la sua funzione sociale, può anche rafforzare gli individui nel loro ruolo e investirli di uno statuto che incida sulla loro identità e pure sulla loro coscienza” (François Bovon). Prima ancora che le parole che pronunciano nella preghiera è il loro linguaggio corporeo che parla: il fariseo, per cui la preghiera “era un’attività quasi di routine” (John Stanley Glen) occupa un posto davanti e prega ritto in piedi; il pubblicano – certamente meno avvezzo a preghiere al tempio –, si ferma a distanza, non osa alzare gli occhi al cielo, si mostra impacciato e intimidito. Si batte il petto, compiendo un gesto spesso riferito a situazioni di disperazione come di fronte a un lutto (Lc 8,52; 23,27.48). E forse proprio questo è il senso del gesto: tanto che accompagna l’invocazione “Sii riconciliato con me” (ilásthetí moi: v. 13; non abbiamo eléesón me, “abbi pietà di me”: Lc 18,38-39), che indica la fine di una condanna, il ristabilimento di una relazione, la rinascita da una morte. L’effetto trasformativo della preghiera al tempio si manifesta nel pubblicano che ha saputo porsi in verità e autenticità davanti a Dio. Da colui che era persuaso di essere giusto (v. 9) si passa così a colui che viene dichiarato giusto da Dio (v. 14).