Mistero d'amore

Giovanni Frangi
Giovanni Frangi

14 settembre 2025

Esaltazione della Santa Croce
Giovanni 3,13-17 (Nm 21,4-9; Fil 2,6-11)
di Luciano Manicardi

13Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo. 14E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, 15perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.16Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.


La XXIV domenica dell’Ordinario di questa annata C cade il 14 settembre, data in cui viene celebrata la festa dell’esaltazione della santa croce. Questa celebrazione, che affonda le sue radici a Gerusalemme nel IV secolo, è occasione per meditare sul paradosso della salvezza cristiana: uno strumento di morte diviene strumento di vita, un oggetto segno della violenza e del peccato dell’uomo diviene “simbolo della salvezza” (Sap 16,6); la morte ignominiosa di uno solo diviene causa di salvezza per tutti (Mc 10,45; cf. Ad Gentes 3: “Il Figlio dell’uomo è venuto per dare la sua vita in riscatto di molti, cioè di tutti”; “pro multis, id est pro omnibus”); l’evento storico preciso, datato, della crocifissione di Gesù, diviene portatore di una salvezza che si estende a ogni tempo passato e futuro. Questa celebrazione non chiede di adorare uno strumento di morte quale è la croce, ma di porsi al cospetto del mistero di amore che sulla croce si è manifestato e riconoscere che l’amore del Padre che ha donato il Figlio per la vita del mondo (cf. Gv 3,16) e l’amore del Figlio che ha consegnato se stesso per gli uomini, è ciò che opera la salvezza. L’amore divino e trinitario, trasmesso ai credenti mediante il dono dello Spirito (cf. Rm 5,5), è al cuore della celebrazione odierna.

Una volta messo in chiaro che non la croce salva ma la vita di colui che vi è steso sopra, la vita che ha preceduto quella morte, dunque la pratica di umanità di Gesù di Nazaret dominata dall’amore, e la vita che ha seguito tale morte, ovvero la resurrezione, la vittoria dell’amore sulla morte, allora può anche aprirsi lo spazio per una meditazione sul simbolo della croce. Il simbolo cruciforme, con l’intersecarsi delle due linee rette che si estendono in quattro direzioni e partono da un punto centrale, è simbolo di orientamento nel mondo. “La diffusione straordinaria della croce nelle parti più diverse del mondo prima del Cristianesimo e al di fuori della sua influenza si spiega con la multivalenza e la densità del suo significato simbolico. La croce è un simbolo primordiale che ha attinenza con tre altri simboli fondamentali: il centro, il cerchio e il quadrato. Con l’intersecazione delle due linee rette, che coincide con il centro, la croce apre il centro verso l’esterno, divide il cerchio in quattro parti, genera il quadrato” (Julien Ries). Spesso associato all’albero, che unisce i livelli celeste, terrestre e sotterraneo, il simbolo cruciforme evoca fertilità, vitalità, ma anche la dimensione ascensionale verso l’invisibile, il celeste, il divino. L’uomo ritto in piedi con le braccia aperte disegna la figura della croce e fa sì che il simbolo della croce sia chiave ermeneutica che consente all’uomo di decifrare se stesso e il mondo e di situare se stesso nel mondo. Tutti questi significati, nella croce cristiana, sono assunti in Cristo e la rendono la realtà che è “veramente capace di farci conoscere Dio” (Lutero).

La prima lettura (Nm 21,4-9) mostra che l’immagine bronzea del serpente, dunque di ciò che morde e dà la morte, innalzata da Mosè e guardata dai figli d’Israele, dona vita e guarigione (cf. Nm 21,8-9). Guardare in faccia il nostro male, ciò che ci avvelena, il mostro interiore che ci abita (i serpenti di Nm 21,6 e 8 sono chiamati “serpenti brucianti” e in Is 30,6 appaiono come “draghi volanti”), è operazione dolorosa, ma che rientra nel cammino spirituale di trasformazione della sofferenza mortifera in sofferenza vitale. 

Nella pagina evangelica (Gv 3,13-17) Giovanni pone in rapporto di continuità l’innalzamento del serpente nel deserto a opera di Mosè e l’innalzamento di Gesù sulla croce. Nel passo di Numeri colpisce la somiglianza tra ciò che fa perire e ciò che salva. Ma anche il crocifisso è somigliante in tutto a un peccatore, è il peccato personificato (cf. 2Cor 5,21): vedere l’innalzato crocifisso e credere in lui, significa vedere un somigliante ai peccatori, ma anche il Dio che assume e porta il peccato del mondo; significa essere svegliati alla coscienza del proprio essere peccatori e alla confessione di fede in Colui che è venuto non per condannare, ma per salvare (cf. Gv 3,17). In realtà ciò che è veramente comune ai due episodi è la loro valenza salvifica nella volontà di Dio che si esprime nel primo testo con l’innalzamento del serpente di bronzo sull’asta, nel secondo, con l’innalzamento di Cristo sulla croce e nella gloria. Il “bisogna”, in greco deî, dell’innalzamento del Figlio dell’uomo (Gv 3,14), esprime la necessità divina di questo atto salvifico. Ma se in Numeri si trattava di alzare lo sguardo per vedere il male che uno aveva commesso e che si era ritorto contro di lui, per fare la verità e ritrovare la vita, ora si tratta di credere e aderire a colui che viene innalzato e che situa l’uomo nella postura giusta nel mondo e davanti a Dio: la postura del pentimento. Zaccaria aveva predetto il lamento, il pianto e il pentimento di fronte alla morte del giusto: “Volgeranno lo sguardo a me che hanno trafitto e ne faranno il lutto, si batteranno il petto” (Zc 12,10). Pentimento suscitato dalla visione del dono d’amore di Dio, dalla visione della gratuità di Dio, del suo dono e del suo amore. Non primariamente dalla visione del proprio peccato. Ormai, davanti al Signore, i nostri peccati pesano come cenere.

La specificazione paolina contenuta nella seconda lettura (Fil 2,6-11) per cui la morte di Gesù è stata una “morte di croce” (Fil 2,8), ne sottolinea l’aspetto di scandalo. Questo è “lo scandalo della croce” (Gal 5,11). La morte in croce del Messia lo proclama maledetto da Dio (cf. Gal 3,13; Dt 21,23), scomunicato dal suo gruppo religioso, bandito dalla società civile. Croce dice infamia, disonore, ignominia. La morte di croce poteva essere augurata come macabra e somma ingiuria per i nemici, come mostra un graffito trovato sui muri di Pompei: “Che tu sia crocifisso”. Dire morte di croce, significa dunque anche dire traversata degli inferi, raggiungimento del punto più basso nella scala dei valori umani e religiosi. È proprio questa discesa negli abissi dell’inumano e della perdizione, simbolizzata dalla croce, che evoca al meglio il carattere universale della salvezza di Dio. La croce, da simbolo disgraziato e tragico, diviene apertura alla più sconfinata speranza: il cielo non abita solo sulla terra, ma anche negli inferi. Questa è la croce a cui il cristiano può rivolgersi cantando: Ave crux, spes unica! Ma concretamente, come può essere salutata quale spes unica la croce che è luogo di derelizione, di abbandono di ogni umana speranza, come può essere proclamata beata la croce che è strumento di morte che l’uomo dà all’uomo e segno di vergogna e infamia? È possibile all’“uomo dal cuore profondo”, come dice il Salmo (“verrà un uomo dal cuore profondo e Dio sarà esaltato”: Sal 64[63],7-8LXX ); è possibile a colui che ascoltando le Scritture giunge a conoscere che il vangelo è “parola della croce” (1Cor 1,18) e allora sa discernere la vera sapienza nella follia della croce, sa riconoscere la gioia più intima e duratura nel paradosso delle beatitudini. La croce è beatitudine quando è vista, con gli occhi del cuore, come mistero dell’infinita compassione di Dio; la croce è beatitudine per l’uomo interiore, per la nostra “vita nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3). È una beatitudine segreta, una gioia che l’uomo custodisce avvolgendola nel silenzio, è una pienezza protetta dal silenzio interiore: è la gioia di rinunciare a imporre il proprio volere, conoscendo così il passaggio dall’asservimento agli idoli alla libertà, è la beatitudine di rinunciare a volerla sempre e a ogni costo spuntare sugli altri, e vincere, e essere ammirati e apprezzati, conoscendo così il passaggio, sempre pasquale, dall’angoscia della superficialità e dell’esteriorità alla serenità della profondità; è la beatitudine di far della propria vita un dare vita ad altri, un far crescere altri, conoscendo così il passaggio dall’infantile egocentrismo alla maturità della carità, è la beatitudine di chi rinuncia a render male per male, di chi accoglie l’offesa con amore per l’offensore e nell’amore di Cristo, è la beatitudine di chi “non tiene conto del male ricevuto” (1Cor 13,5) e conosce così una certa similarità con il crocifisso che perdona i suoi aguzzini e ama i suoi nemici. È una beatitudine che prende nome di integrità: un’“integrità cruciforme”, orizzontale-verticale, che grazie allo sguardo interiore rivolto verso l’“innalzato da terra” (Gv 12,32) tiene nel proprio abbraccio anche chi lo ferisce. Alzando lo sguardo verso la croce di Cristo, possiamo trovare il senso della vita, della vita di Dio e dell’uomo, della vita di Cristo e della vita in Cristo; possiamo trovare il senso profondo e la configurazione necessaria che assume il cammino dietro a Cristo. Seguire Cristo significa, prima o poi, salire sulla croce. Non tanto subire la croce, ma abbracciare la croce, salirvi quasi anelando, quasi con desiderio, come il Cristo che in un dipinto del ‘300 italiano sale sulla croce con una scala, quasi correndo, quasi danzando. Sì, salire la nostra croce. La croce che la vita intaglia e scolpisce per ciascuno di noi giorno dopo giorno attendendo che noi ci lasciamo plasmare a co-crocifissi con Cristo.