Ospiti

Giovanni Frangi
Giovanni Frangi

20 luglio 2025

XVI domenica nell’anno
Luca 10,38-42 (Gen 18,1-10a)
di Luciano Manicardi

In quel tempo38mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. 39Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. 40Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t'importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». 41Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, 42ma di una cosa sola c'è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».


Il ministero e il mistero dell’ospitalità: questo il tema su cui prima lettura (Gen 18,1-10a) e vangelo (Lc 10,38-42) orientano la riflessione. Ministero in quanto servizio, diaconia verso il pellegrino, il senza casa, il bisognoso; mistero perché, come appare dalla prima lettura, l’accoglienza dello straniero diviene theoxenía, accoglienza di Dio stesso (cf. Eb 13,2). Accogliere lo straniero significa aprirsi alla rivelazione di cui egli è portatore. Ospitare è creare uno spazio per l’altro e dare del tempo all’altro. È condividere la propria casa e il proprio nutrimento. Più in profondità, ospitare significa fare di sé uno spazio per l’altro attraverso l’ascolto. Maria che ascolta la parola di Gesù è immagine di un’ospitalità che non si limita ad accogliere nelle mura di una casa, ma che fa della persona stessa una dimora per l’altro.

La tradizione cristiana interpreta il passo di Gen 18,1-15 in senso trinitario: la raffigurazione iconografica di questa scena (la philoxenía, “l’ospitalità”), sottolinea il farsi ospite di Dio che viene accolto da Abramo, ma anche l’ospitalità che Dio offre all’uomo in seno alla propria vita divina. La vita intratrinitaria è movimento di ospitalità reciproca: l’uno è riconosciuto e accolto dall’altro. E questo è vero del credente che si sa accolto da Dio in Cristo: “accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo accolse voi” (Rm 15,7). Una cultura dell’ospitalità è oggi un’urgenza profetica che contesta le logiche del “mio” e del “tuo” che creano diffidenze e fanno dell’altro un nemico, un hostis, invece che un ospite, un hospes. Colui che mi ospita mi consente di accogliermi con la sua accoglienza. Mi dà vita. Una vita che non è estranea alla divina ospitalità che attraversa i rapporti tra le persone della Trinità.

Prima di “entrare” nei testi biblici, credo utile una riflessione preliminare sull’ospitalità. Ospitare è azione che comprende tanto il dare quanto il ricevere ospitalità. Le due dimensioni sono fuse nella parola italiana “ospite”. E questo dare e ricevere è espressione polare che abbraccia l’intera esistenza umana, dalla nascita, quando siamo accolti nel corpo di una donna, alla morte, quando ci accoglie la terra. Più radicalmente ancora, nel venire al mondo ci troviamo ospiti dell’umano che è in noi, accolti da una realtà che è in noi e che siamo chiamati a sviluppare assumendone la responsabilità. Essere ospitati è dunque realtà originaria, fondativa, vitale: se siamo ospiti dell’umano che è in noi, non ne siamo padroni. E possiamo imparare ad aver cura dell’umano che è in noi come in ogni altro essere vivente. Ha scritto Lattanzio: “Il principale vincolo che unisce gli uomini è l’umanità. Siamo fratelli”. L’altro è il simile, il mio simile. Ospitare è dunque atto etico fondamentale, anzi, nel nostro essere ospitati originariamente, possiamo cogliere il fondamento dell’agire etico che ci renderà ospitanti. L’etica, infatti, è la modalità con cui l’uomo abita il mondo, anzi, lo co-abita, lo abita insieme ad altri. Come la casa delimita un territorio, segnala un dentro e un fuori, dà riparo e sicurezza, così l’etica traccia confini, detta norme, delimita ruoli e funzioni, segnala ciò che è da fare e ciò che è da evitare. L’etica è la casa degli umani, essenziale per il loro stare al mondo. Non a caso il vocabolo greco êthos, da cui proviene il termine “etica”, ha anche il senso di “dimora”, “abitazione”. Ospitare è fare spazio, anzi, è dare una casa. O meglio, è anzitutto un essere casa per altri: ospitare è dare ascolto, dare tempo, dare parola, dare presenza. In questo senso, ospitare è generare, dare vita. Se dunque esiste un dovere di ospitalità, e il grado di civiltà di un popolo lo si può misurare proprio sulla capacità o meno di accogliere lo straniero, il naufrago, l’emigrante, il rifugiato, ancor più radicale, ricorda Kant, è il “diritto di visita” di cui è titolare ogni uomo “in virtù del diritto della proprietà comune della superficie terrestre”. Lo straniero che, atteso o inatteso, desiderato o indesiderato, giunga a noi, attiva la specularità per cui noi stessi, accanto e davanti a lui, siamo resi stranieri. Ospitandolo, da un lato, accogliamo di nuovo anche noi stessi, e dall’altro, sperimentiamo al medesimo tempo l’ospitare e l’essere ospitati, entriamo cioè nella circolarità virtuosa del dare e ricevere proprie dell’ospitalità.

Attraverso la scena dell’ospitalità accordata da Abramo ai tre viandanti, la prima lettura mostra come lo straordinario si manifesti nelle pieghe più ordinarie del quotidiano. E forse è proprio la gratuità dell’ospitalità che fa abitare il divino tra gli umani, fa scendere il cielo sulla terra. Abramo accoglie “tre uomini” (Gen 18,2), di cui il lettore (ma non Abramo) conosce fin dall’inizio della narrazione l’identità divina: “Il Signore apparve ad Abramo alle querce di Mamre” (Gen 18,1). L’accoglienza calorosa e cordiale che egli riserva ai tre uomini di passaggio; il suo trattarli e onorarli al meglio delle sue possibilità facendo preparare un pasto abbondante e raffinato; il suo correre, e affrettarsi (lui, anziano, e “nell’ora più calda del giorno”: Gen 18,1) per dare cibo e ristoro agli sconosciuti; le parole pieno di zelo e animate da cura con cui si mette a loro servizio; tutto questo dice di un trattamento “divino” che egli riserva a quegli uomini. E se è vero che il sapere e il potere di cui i tre uomini appaiono essere depositari (sanno del riso di Sara e assicurano che la coppia anziana avrà un figlio) li svela essere appartenenti a una sfera superiore all’umano, è pur vero che, nell’intero racconto di Gen 18,1-16 non si dice mai esplicitamente che Abramo abbia riconosciuto la presenza divina nei suoi ospiti. Questa si manifesta nell’accoglienza gratuita e generosa offerta a chi ne è bisognoso. “Nella sua vulnerabilità, lo straniero può contare soltanto sull’ospitalità che altri possono offrirgli” (Edmond Jabès). Forse quel gesto di compassione e umanità che diviene un dare in pura perdita, un trovare gioia nell’essere a totale servizio dell’altro, è un sacramento che manifesta la presenza di Dio. O, per dirla con Péguy: “Lo spirituale è anch’esso carnale”.

Anche il testo evangelico presenta una scena di ospitalità. Ma è significativo notare la posizione che tale episodio (Lc 10,38-42) occupa all’interno della narrazione lucana. Il testo segue la parabola del Samaritano (Lc 10,29-37) e precede l’insegnamento di Gesù sulla preghiera (Lc 11,1ss.). Ovvero: la nostra pericope si situa in mezzo a due domande rivolte a Gesù. La prima domanda gli è rivolta da un dottore della Legge: “Chi è il mio prossimo?” (Lc 10,29). La seconda richiesta gli è rivolta dai suoi discepoli: “Insegnaci a pregare” (Lc 11,1). Al crocevia di queste due domande che a volte, all’interno di una visione ingenua e distorta ci porta a contrapporre carità e preghiera, azione e contemplazione, la pericope liturgica ricorda che l’ascolto è ciò che fa l’unità tra queste dimensioni che sono le due facce della stessa medaglia. Amo e conosco il mio prossimo ascoltandolo e conosco e amo il Signore ascoltando la sua parola. Così, il comando che ha preceduto il dialogo tra Gesù e il dottore della Legge (“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”: Lc 10,27) e ha portato Gesù a narrare la parabola del Samaritano, trova il suo punto di unità nell’ascolto. La fede e l’amore si radicano nell’ascolto. Il credente, così come l’amante, è colui che ascolta. E ascoltare è farsi dimora dell’altro, accogliere in sé l’altro. Ascoltare è ospitare. Nella scena domestica che Luca narra sono presenti due sorelle. Marta è la figura forte che si comporta da “padrona di casa” (il suo nome, in aramaico, significa “signora”) e fa entrare Gesù in casa. Quindi il testo dice letteralmente che “a lei era una sorella, di nome Maria”. Ci potremmo chiedere: e lei era sorella per Maria? Maria trovava in lei una sorella? Maria, postasi a “sedere ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola” (Lc 10,39). Maria assume la postura discepolare dell’ascolto che la rende serva di fronte a colui che è Signore. Marta compie numerosi e necessari servizi ma dissipandosi e lasciandosi totalmente assorbire in essi. E il suo servire si colma di risentimento verso la sorella fino ad esplodere in lamenti e accuse nei suoi confronti (“Mi ha lasciata sola a servire”: Lc 10,40) e in pretese verso Gesù (“Dille che mi aiuti”: Lc 10,40). Il suo fare dei servizi non la rende serva ma la lascia nella sua postura di signora e padrona sia verso la sorella che verso Gesù. Nel dolce rimprovero che Gesù le rivolge, il Signore afferma che la “parte buona” (Lc 10,42) scelta da Maria è l’ascolto. L’ascolto della parola del Signore che consente di far avvenire in noi la volontà e il sentire del Signore stesso. L’ascolto dell’altro che ci conduce all’empatia nei suoi confronti. Un ascolto che ha questo di peculiare: che ogni giorno fa rinnovato e ricominciato. Proprio come avviene al Servo del Signore, che dice di sé: “ogni mattina il Signore fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli” (Is 50,4).