Lo Spirito svela il credente
8 giugno 2025
Pentecoste
Giovanni 14,15-16.23b-26 (At 2,1-11; Rm 8,8-17)
di Luciano Manicardi
In quel tempo Gesù disse «15Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; 16e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, 23bSe uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. 24Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
25Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. 26Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
Se il testo evangelico (Gv 14,15-16.23b-26) afferma che lo Spirito santo interiorizza la presenza di Cristo nel credente, la seconda lettura (Rm 8,8-17) mostra come quello stesso Spirito diventi nel profondo dell’uomo testimonianza del suo essere figlio di Dio e principio della sua coscienza filiale, sicché nella fede il credente prega Dio invocandolo “Abbà”, “Padre”. La prima lettura (At 2,1-11) rivela che la presenza dello Spirito nel credente non è facilmente leggibile dagli uomini, anzi, come Cristo stesso suscita divisione tra gli uomini che incontra portandoli a una presa di posizione, così l’azione dello Spirito nel credente suscita una divisione tra chi se ne lascia interpellare e chi la misconosce e la svilisce (“Tutti erano stupiti e perplessi, chiedendosi l’un l’altro: ‘Che significa questo?’ Altri invece li deridevano e dicevano: ‘Si sono ubriacati di mosto’”: At 2,12-13).
La pentecoste è compimento della Pasqua del Signore e inizio della vita della chiesa. L’effusione dello Spirito opera il passaggio da Gesù ai discepoli nella storia. Per cui non stupisce che tutti i testi biblici della liturgia odierna abbiano al loro centro il credente: nella prima lettura sono i discepoli che, colmati di Spirito santo, annunciano le grandi opere di Dio nelle lingue degli abitanti dell’ecumene; nel vangelo sono coloro che accoglieranno lo Spirito che diverrà in loro principio di comprensione della parola di Dio e di interpretazione della figura di Cristo nella storia; nella seconda lettura sono i credenti che grazie allo Spirito pregheranno Dio rivolgendosi a lui come Abbà.
Lo Spirito è a servizio della parola del Signore nel credente. Grazie allo Spirito il credente, dice il vangelo, comprende e ricorda la parola di Gesù; grazie allo Spirito il credente annuncia tale parola, dicono gli Atti degli Apostoli; grazie allo Spirito egli risponde alla parola con la sua preghiera e con la sua vita, dice Paolo.
E così, l’evento pentecostale, il dono dello Spirito, ci svela chi è il credente. Più che mai i testi odierni funzionano come uno specchio: riflettendoci in essi vediamo, da un lato, quanto e come rispondiamo alle esigenze della nostra vocazione e, dall’altro, quanto siamo ancora distanti da una risposta adeguata. E la vocazione, o, se si vuole, l’essenziale della vita cristiana sotto la guida dello Spirito, è la vita interiore come capacità di far abitare in sé la parola del Signore, meditarla, comprenderla, interpretarla, viverla. La parola, vivificata dallo Spirito, diviene magistero interiore del credente (Gv 14,26). L’insegnamento dello Spirito consiste nel ravvivare nei discepoli il ricordo delle parole di Gesù. Insieme alla vita interiore c’è poi la preghiera che risponde a tale parola e che diviene non solo un invocare Dio come Abbà, Padre, ma un vivere da “figli di Dio”. “Quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio sono figli di Dio” (Rm 8,14), “per mezzo dello Spirito noi gridiamo Abbà, Padre” (Rm 8,15). Il vivere da figli di Dio richiede la capacità della lotta interiore, ovvero di rompere con la carne, cioè con l’egoismo, la centratura su di sé, l’autoreferenzialità, il pensarsi centro del mondo attorno a cui gli altri devono ruotare. Questo ce lo ricorda la seconda lettura, il testo di Romani. Infine c’è la testimonianza, l’annuncio, la capacità di rendere eloquente per gli altri, per tutti gli uomini, il messaggio evangelico. E questo ce lo ricorda il brano degli Atti.
La festa della pentecoste ci introduce dunque all’arte della vita secondo lo Spirito santo. Non troviamo né in Paolo né nel resto del Nuovo Testamento la parola “spiritualità” (spiritualitas è vocabolo testimoniato per la prima volta in un testo di ambiente pelagiano del V secolo), un termine astratto che rischia di far smarrire la dinamicità insita nello Spirito e nella vita che esso anima, così come rischia di irrigidire la concezione dello Spirito in una visione segnata da dualismo e contrapposizione con la materia. La tradizione spirituale occidentale si è troppo nutrita di polarità presto divenute antitesi inconciliabili: io interiore – io esteriore, sensibilità – interiorità, spirito – materia, ascolto – visione, corpo – anima, ecc. Si rischia così di arrivare a contrapporre e separare ciò che Dio ha unito, di non cogliere la complementarietà, l’intrinsecità, la fondamentale unità di quelle dimensioni, e di pervenire a formulare visioni della vita spirituale infedeli alla rivelazione biblica e anche nevrotiche e nevrotizzanti. Per la Bibbia, come ben ci insegnano i Salmi, il corpo è soggetto della vita spirituale. Se nel testo della lettera ai Romani Paolo mette in scena la dicotomia tra spirito e carne, questa va intesa in senso dinamico ed esistenziale all’interno della visione antropologica di matrice ebraica che coglie l’uomo come totalità e unità psico-fisica. Con “carne” Paolo non si riferisce al corpo, e nemmeno alla sfera sessuale, ma alla dimensione egocentrica del vivere che investe e contamina ogni relazione: con sé stessi, con gli altri, con il mondo, con Dio. Per Paolo non esiste un peccato del corpo, ma piuttosto “contro il corpo” (1Cor 6,18), cioè contro il valore e la dignità della persona visibile e chiamata ad agire nel mondo. È quando l’uomo è preda della tirannia della carne, che la persona, e dunque anche il corpo, viene trascinata in una condotta che si allontana dal volere divino, ferisce la dignità umana e si allontana dalla vita. “La carne tende alla morte, mentre lo Spirito tende alla vita” (Rm 8,6). Ed è l’intera persona umana che viene coinvolta nella vita guidata dallo Spirito (cf. Rm 8,14), come appare dall’annotazione che “lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio” (Rm 8,16). Il verbo usato è symmartyreîn, a dire di un innesto dello Spirito di Dio nell’umanità della persona. Del resto è l’interezza della persona che, battezzata in Cristo, è chiamata vivere in Cristo e lo Spirito che anima, ispira, orienta, guida la vita del battezzato è lo “Spirito di Cristo” (Rm 8,9). La specificazione paolina è importante per dare un’oggettivazione a quello Spirito che in una comprensione ingenua, potrebbe svaporare nella vaghezza e indefinitezza di un vento che, soffiando dove vuole, arriva a essere assorbito nel soggettivismo umano che battezza come volontà dello Spirito quella che è semplicemente e banalmente volontà propria. Dunque: la vita spirituale è vita di tutta la persona, che coinvolge la totalità delle dimensioni umane e le orienta a Cristo.
Quando Giovanni, nella pagina evangelica, parla dello Spirito come del Paraclito (Gv 14,26), specifica che si tratta dell’“altro Paraclito” (14,16). La prima lettera di Giovanni ricorda che Gesù Cristo, il giusto, con la resurrezione è “un Paraclito presso il Padre”, l’intercessore per i suoi che sono nel mondo. Come “altro Paraclito”, lo Spirito interviene nel cuore dei credenti e rimane con loro per sempre (cf. Gv 14,16). E l’azione dello Spirito è totalmente tesa a plasmare l’essere e l’agire dei credenti sull’esempio di Gesù Cristo. A interiorizzare in loro la pratica dell’umano che fu in Gesù Cristo.
Alla luce delle osservazioni svolte possiamo cogliere la prima lettura, la pagina degli Atti degli Apostoli che contiene la narrazione della pentecoste, in una luce particolare. Abbiamo detto che la pentecoste è l’atto di nascita della chiesa. Forse possiamo dare un’inflessione particolare a questa affermazione tentandone un’attualizzazione per la chiesa “oggi”. Se alla chiesa nascente lo Spirito ha ispirato l’anelito missionario e ha spinto gli apostoli ad annunciare l’evangelo alle genti incontrando le loro culture e parlando le loro lingue, oggi, nelle regioni di antica e stanca cristianità, lo Spirito suggerisce come priorità l’iniziazione all’arte della vita secondo lo Spirito e la cura della formazione umana stessa delle persone. Questa la declinazione peculiare del dinamismo missionario ed evangelizzatore oggi. L’inizio del futuro della chiesa è legato dunque al lavoro di trasmissione dei “fondamentali” della fede. Ovvero di quei movimenti che soli consentono alla fede di avere una storia, di innestarsi, e poi di evolvere e di crescere, accompagnando il divenire anagrafico, psicologico, intellettivo ed emotivo della persona. Certo, si tratta di doni dello Spirito, ma proprio perché lo Spirito coinvolge nella sua azione la totalità della persona, esso coinvolge anche la chiesa nel suo insieme. La quale è chiamata a farsi grembo accogliente dello Spirito e a predisporre tutto per consentire ai battezzati di sviluppare e far crescere la loro vita di relazione con il Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito santo. Il futuro della fede passa anche attraverso la capacità della chiesa di andare all’essenziale della sua missione e di farsi ricettacolo dell’azione dello Spirito trasmettendo, con la testimonianza e la pratica, l’arte della preghiera, suscitando nei fedeli il gusto della liturgia, affinandone il discernimento, insegnando la lotta spirituale, introducendo alla conoscenza del Signore Gesù attraverso la lettura orante delle Scritture e dei vangeli in particolare. Insomma, collaborando con tutta se stessa all’azione dello Spirito, vera fonte della vita spirituale.