Nelle mani di un Agnello
11 maggio 2025
IV domenica di Pasqua
Giovanni 10,27-30 (At 13,14.43-52; Ap 7,9.14-17)
di Luciano Manicard
In qual tempo Gesù disse:" 27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».
L’accento della quarta domenica di Pasqua di ogni annata liturgica cade sempre su Gesù pastore. Il Gesù che ha guidato i suoi discepoli, “il piccolo gregge” (Lc 12,32), facendo di loro una comunità, è anche il Risorto che dona loro la vita eterna: questo il messaggio della pagina evangelica (Gv 10,27-30). La seconda lettura (Ap 7,9.14-17) afferma che il Risorto è Pastore e Agnello al tempo stesso; anzi, è Pastore perché Agnello, ovvero, è Colui che guida i credenti alla vita piena grazie alla sua passione, morte e resurrezione. Infine, la prima lettura, tratta come sempre durante il tempo di Pasqua dagli Atti degli Apostoli, mostra il Risorto che continua a esercitare nella storia le sue funzioni di pastore, cioè a formare comunità e a guidare e nutrire le sue “pecore”, attraverso l’attività apostolica di predicazione della Parola di Dio (At 13,14.43-52).
“L’Agnello sarà il loro pastore” (Ap 7,17): la pagina dell’Apocalisse è particolarmente interessante e intrigante presentando il Cristo risorto al tempo stesso come pastore e come agnello. Siamo al cuore dell’ossimoro in cui consiste la rivelazione cristiana: Dio si fa conoscere pienamente nell’uomo Gesù di Nazaret, il salvatore del mondo è l’impotente appeso alla croce, il Signore dell’universo è il servo di tutti, il pastore è l’agnello. Già il IV vangelo aveva riferito a Gesù i titoli di agnello e contemporaneamente di pastore: Gesù è “l’agnello di Dio” (Gv 1,29.36) ed è il pastore autentico, “il buon pastore” (Gv 10,11.14). E come l’evangelista aveva mostrato il Risorto segnato dalle ferite della crocifissione (Gv 20,20.27), così il veggente di Patmos parla dell’“Agnello ritto in piedi come ucciso” (Ap 5,6). Il Crocifisso-Risorto è l’Agnello-Pastore. Tuttavia, l’espressione certamente paradossale può perdere il suo aspetto sconcertante e urtante e mostrare la sua potenza rivelativa se si pensa che l’attributo di pastore nell’Antico Testamento, quando non designa pastori di greggi e quando non è riferito a Dio, ma a capi, soprattutto politici e militari, del popolo, indica dei “cattivi” pastori. E i pastori, le guide del popolo sono “cattive” quando vengono meno al loro compito di servire il gregge e invece se ne servono; quando non lo nutrono ma lo affamano; quando non lo conducono al pascolo o all’ovile ma lo disperdono; quando non lo curano ma lo lasciano perire; quando non lo proteggono ma lo consegnano in balìa di animali feroci e di ladri. Basti una citazione tratta da Geremia: “Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore. Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati” (Ger 23,1-2). La domanda che sorge, e che riguarda chi detiene posti di autorità e responsabilità nello spazio politico e civile, ma in particolare nell’ambito ecclesiale è: come liberare l’esercizio dell’autorità dal rischio dell’abuso di potere? E poiché la mens abusante si esprime a trecentosessanta gradi, l’abuso di potere acquista molte e diversificate sfumature e diviene polimorfo. Ora l’insegnamento insistente di Gesù ai suoi discepoli, e a noi con loro, riguardo a chi detiene responsabilità nella comunità e dunque svolge un compito pastorale nella chiesa, è: chi è primo sia l’ultimo di tutti, chi governa sia il servo di tutti, il più grande sia lo schiavo di tutti (cf. Mt 20,26-27; Mc 10,43-44; Lc 22,26). La proclamazione che Gesù è pastore in quanto agnello dice esattamente questo. Lui, il Signore, il più grande, si è posto coscientemente e liberamente come lo schiavo e il più piccolo, vincendo in se stesso la logica che porta a spadroneggiare e ad abusare. E come le parole di Gesù ai discepoli nei Sinottici contengono una polemica contro l’esercizio del potere come dominio e sfruttamento in ambito politico (“I re delle genti le signoreggiano e coloro che hanno potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Voi però, non così”: Lc 22,25-26; cf. Mt 20,25; Mc 10,42), analogamente i titoli che l’Apocalisse attribuisce al Risorto come “sovrano dei re della terra” (Ap 1,5), “colui che è destinato a pascere (poimaínein) tutte le genti” (Ap 12,5), contengono una critica al sistema politico imperialista e totalitario dominante all’epoca, in particolare al culto imperiale. Ora, che il Pastore sia l’Agnello, significa l’integrazione della dimensione della vulnerabilità e della mitezza proprie dell’agnello nel compito di guida e governo proprio del pastore. La forza del Messia, “il leone della tribù di Giuda” (Ap 5,5), si esprime paradossalmente nell’Agnello “ritto in piedi come ucciso”. La vera forza di chi governa consiste nell’assunzione cosciente della propria vulnerabilità e fragilità. Questa operazione, che situa la persona nella sua verità esistenziale, la pone anche empaticamente vicina alle persone di cui ha una responsabilità. A quel punto il potere viene onorato nella sua vocazione originaria purtroppo disattesa nell’accezione comune del termine per cui con esso, come si esprime il filosofo Byung-Chul Han nel suo libro Che cos’è il potere, “si intende di solito la seguente relazione causale: il potere di Ego dà origine a un determinato comportamento di Alter contro la volontà di quest’ultimo. Il potere mette Ego in condizione di imporre le sue decisioni senza dover far caso ad Alter, il quale subisce la volontà di Ego come qualcosa di estraneo”. In realtà, come appare perfino all’elementare livello grammaticale, “potere” è verbo servile, che presenta dunque una contiguità, anzi, una co-essenzialità con quella dimensione di servizio che spesso è considerata agli antipodi del potere Il verbo e il vocabolo “potere” aprono delle possibilità e le rendono praticabili, sempre all’interno di quei limiti che gli impediscono di degenerare. Degenerazione che avviene quando il potere si sgancia da ogni limite e si assolutizza: da qui nascono abusi, prepotenze, prevaricazioni, controllo, manipolazione, sfruttamento e violenze. Il potere degenera quando nega la fragilità e debolezza. Primo Levi scrive che l’abbaglio del potere ci porta a “dimenticare la nostra fragilità essenziale”. Declinare il potere come dominio funziona dunque come strumento antimnemonico della nostra fragilità essenziale, che costituisce anche parte integrante della nostra condizione umana. Il potere come dominio svela così la sua qualità di menzogna, e menzogna anzitutto antropologica. Il sogno di dominio dei potenti di questo mondo diventa l’incubo delle moltitudini di poveri oppressi e perseguitati: l’Agnello-Pastore invece è capace di consolare asciugando le lacrime da ogni volto (Ap 7,17; cf. 21,4). Il “potere” dell’Agnello-Pastore è potere di consolazione (“Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati”: Mt 5,4). Ma chiediamoci: chi può esprimere con questa immagine il mondo redento? Chi nella vita ha pianto e ha anche, già qui e ora, ha consolato chi era nel pianto, “piangendo con chi è nel pianto” (Rm 12,15), facendosi prossimo e asciugando le lacrime di chi si trovava nell’afflizione. Il potere rettamente inteso, il potere alla scuola del “buon pastore” va di pari passo con la compassione, con il no radicale all’indifferenza di fronte al male del prossimo. E si radica nell’amore e si esprime come amore.
Questo dice anche la pagina evangelica accennando alla simbolica della mano. “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno le può strappare dalla mano del Padre mio” (Gv 10,27-29). In tantissime ricorrenze bibliche la mano indica “potenza”, “forza”, “autorità” (si pensi alla “mano forte” con cui Dio liberò i figli d’Israele dall’Egitto: Es 3,19-20). Nel IV vangelo la mano diviene il simbolo dell’amore dato e ricevuto, della relazione per cui il Padre ama il Figlio (“Il Padre ama il Figlio e ha rimesso tutto nelle sue mani”: Gv 3,35) e il Figlio “sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani” (Gv 13,3), compie il gesto dell’amore radicale, simbolo del dono della sua vita per i discepoli amandoli “fino alla fine” (Gv 13,1). E compie, lui il Signore e il Maestro, il gesto dello schiavo abbassandosi per lavare con le sue mani i piedi dei suoi discepoli, anche di chi si era fatto suo nemico. La mano aperta del Padre che ha donato tutto al Figlio diviene la mano aperta del Figlio che tutto riceve dal Padre e tutto custodisce e protegge, come vero e buon pastore. E diventa anche la mano che il Figlio mostra, quale Crocifisso Risorto, a Tommaso, pecora che si era distaccata dal gregge, affinché riconosca al tempo stesso l’amore del Padre e del Figlio (“Mio Signore e mio Dio”: Gv 20,28). E, chiedendogli di stendere, a sua volta, la sua mano, Gesù chiede a Tommaso di entrare nel mistero dell’amore manifestato dalla mano trafitta. Davvero, il buon pastore è colui che dona la vita per le sue pecore e proprio in questa donazione e perdita di sé egli, donando l’amore, custodisce le sue pecore nell’amore.