Un cammino di verità

Davide Balliano
Davide Balliano

13 aprile 2025

Domenica delle Palme
Luca 22,14 – 23,56
di Luciano Manicardi


La passione e morte di Gesù (Lc 22,14-23,56) è “commentata” come umiliazione dalla pagina di Isaia (Is 50,4-7) e come abbassamento, kenosi, dal passo di Paolo (Fil 2,6-11). Nella prima lettura la sottomissione alla violenza dei suoi avversari fa emergere la determinazione e la risolutezza del Servo e del suo fare non-violenza; nella seconda lettura l’abbassamento e lo spogliamento radicali di Cristo fino alla condizione di schiavo manifestano la sua signoria che la resurrezione estenderà al cosmo intero; nel vangelo l’abbracciare passione e morte di croce da parte di Gesù si rivela essere linguaggio potente che raggiunge il cuore degli astanti e li conduce a conversione (Lc 23,47-48).

Il racconto lucano della passione e morte di Gesù è la storia di una contraddizione al cui centro si erge la scandalosa condanna di un innocente (per tre volte Pilato rileva che Gesù non ha commesso nulla di male: cf. Lc 23,14.15.22). Entrare nella passione e seguire Gesù nel cammino della croce significa per il credente accettare di essere svelato nelle proprie contraddizioni, nelle proprie false credenze e nelle proprie menzogne: solo vedendo la propria ombra e nominando la propria menzogna o la propria errata opinione o i propri pregiudizi, si potrà intraprendere un cammino di ritrovamento di verità. Quel cammino ben espresso dalle folle che, dopo aver assistito alla crocifissione, “se ne andarono battendosi il petto” (Lc 23,48), dunque riconoscendo la propria responsabilità e colpevolezza. Giungere alla contemplazione del crocifisso e da lì al pentimento: questo il cammino che il racconto lucano fa percorrere. La narrazione lucana della passione espone la verità già affermata, riguardo a Gesù, quand’era ancora un infante: “Egli è segno di contraddizione affinché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2,34-35). Numerosi sono i personaggi che, incontrando Gesù nella passione vengono svelati nella loro intima contraddizione. Contraddizione tra parola e comportamento, tra volontà e realizzazione: Pietro, dopo aver proclamato la sua volontà di andare in prigione e alla morte con Gesù (Lc 22,33), per tre volte lo rinnega, e così, di fatto, rinnega anche se stesso, la sua storia, la sua sequela, la sua comunità (Lc 23,54-62). Contraddizione tra funzione (se le donne che fanno il lamento su Gesù sono delle prefiche professioniste) e verità: “le figlie di Gerusalemme” (Lc 23,28) sono invitate da Gesù a non piangere su di lui, ma su loro stesse intravedendo la prossima distruzione di Gerusalemme (Lc 23,26-32). Così la contraddizione si manifesta anche come cecità. Contraddizione poi tra gesto e intenzione del cuore: Giuda consegna Gesù a coloro che lo arrestano con il gesto di devozione del discepolo verso il maestro, ovvero “con un bacio” (Lc 22,48), svelando una doppiezza profonda che accompagnava la sua sequela. Vi è poi la contraddizione che nasce dalla paura di vedere toccato e intaccato il proprio potere inimicandosi le autorità giudaiche e che porta Pilato, dopo aver riconosciuto l’innocenza di Gesù, a consegnarlo alla morte (Lc 23,1-5.13-24). La contraddizione qui è figlia della pavidità e dell’attaccamento al potere. La contraddizione scatenata dalla condanna a morte del giusto comporta lo stravolgimento della realtà e presenta aspetti inquietanti sul piano etico e giuridico: Barabba, in prigione perché rivoltoso e omicida, viene rimesso in libertà (Lc 23,18-19.25). Insomma, il racconto lucano della passione mostra che le parole di Gesù, i suoi gesti, i suoi silenzi, la sua sola presenza, diventano un appello, rivolto a quanti lo incontrano, a ritrovare la propria verità uscendo dalla doppiezza, dalla menzogna, dall’autoinganno. E l’integrità è raggiunta integrando nella propria coscienza la contraddittorietà del proprio vivere, togliendo finalmente la maschera protettiva e arrendendosi all’evidenza della propria finzione. Così, il cammino dietro a Gesù nella sua passione diviene un cammino di assunzione della responsabilità della propria vita. Il malfattore che riconosce il male che ha commesso e l’innocenza di Gesù, appare come giudice veritiero: egli entra nella giustizia e anche nella verità. Verità che si esprime nell’umiltà della sua supplica: egli chiede solo il ricordo di Gesù (“Ricordati di me”: Lc 23,42), ma l’affidarsi al ricordo di Gesù è una forma di confessione di fede in lui. Possiamo perfino ipotizzare che Luca abbia voluto rendere figura del discepolo cristiano l’“altro (Lc 23,40) malfattore”, cioè quello che è normalmente chiamato, con insensata interpretazione moraleggiante, “buon ladrone”, quando invece Luca sottolinea che egli si trova nella sfera non della bontà, ma della malvagità, essendo un kakoûrgos, “uno che ha fatto il male”. Innanzitutto egli opera la correzione fraterna rimproverando colui che aveva bestemmiato Gesù (“L’altro lo rimproverava dicendo”: Lc 23,40), e così mette in pratica, di fatto, la parola di Gesù: “Se tuo fratello pecca, rimproveralo” (Lc 17,9). Inoltre egli appare esempio di assunzione di responsabilità in quanto riconosce il male che ha commesso e ne accetta le conseguenze, ovvero, accetta di pagarne il prezzo (Lc 23,41a); quindi esprime una confessione di fede riconoscendo l’innocenza e la giustizia di Gesù (Lc 23,41b) e rivolgendosi a lui umilmente con la preghiera che ne afferma anche la regalità escatologica (“Ricordati di me, quando verrai nel tuo Regno”: Lc 23,42). Possiamo dire che, in questa annata C, la domenica delle Palme, che chiude il tempo quaresimale aprendo il tempo di passione e introducendo alla settimana santa, diviene per il credente l’occasione di riformare la propria sequela trovando nella figura dell’“altro malfattore” una sorta di guida che indica la strada da percorrere per vivere il discepolato cristiano. Ritrovamento di verità significa ingresso nel pentimento. E il racconto lucano della passione è attento a questa dimensione. La narrazione lucana tende alla contemplazione del crocifisso. L’evangelista utilizza il termine theoría, “contemplazione” (meglio di “spettacolo”, come traduce la Bibbia CEI in Lc 23,48) per sollecitare anche nel lettore un ascolto che diventi confessoine del giusto Messia e riconoscimento del proprio peccato. Modelli di pentimento diventano allora Pietro che piange amaramente il proprio rinnegamento (Lc 22,61-62), l’altro malfattore che confessa la giustizia di Gesù e riconosce le proprie colpe (Lc 23,39-43) e le folle che dopo aver assistito alla crocifissione se ne tornano battendosi il petto. In sintesi: è la croce che attua nella storia il programma di Gesù espresso con queste parole: “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a conversione” (Lc 5,32; solo Luca, rispetto a Matteo e Marco, specifica la conversione come fine della chiamata).

Diversi sono gli elementi che caratterizzano il racconto lucano della passione rispetto a quello di Marco e Matteo. La preghiera di Gesù è particolarmente sottolineata. Gesù affronta e sostiene la passione e il morire grazie alla preghiera: Gesù prega al Getsemani (cf. 22,39-46), sulla croce (cf. 23,34) e al momento della morte (cf. 23,46). Pregando egli vive le tensioni terribili di quei momenti davanti a Dio, nella coscienza della vicinanza con il Padre e in questa cosciente figliolanza egli dà compimento al suo cammino terreno. Gesù appare sereno e fiducioso, non angosciato: l’ultima sua parola non grida l’abbandono di Dio (Mc 15,34; Mt 27,46), ma esprime il suo abbandono fiducioso nelle mani del Padre (Lc 23,46). Gesù fa il bene anche ai suoi nemici (solo Luca afferma che Gesù risana l’orecchio reciso del servo sommo sacerdote: Lc 22,51) e invoca da Dio il perdono per i suoi crocifissori (Lc 23,34). Gesù appare mite e dolce fino alla fine, come quando si volta verso Pietro che lo ha rinnegato e lo guarda negli occhi, con uno sguardo mansueto che conduce Pietro a ricordare le parole che Gesù gli aveva detto e a piangere, convertito – forse anche – da quello sguardo non giudicante ma mite e sempre accogliente (Lc 22,61-62). Se i racconti della passione di Marco e Matteo fanno ricorso soprattutto ai Salmi di supplica per tessere la trama della narrazione, il clima che traspare dal racconto lucano è piuttosto quello della fiducia. Per cui, anche se cita un Salmo di supplica come il Sal 31, lo fa riprendendo un’espressione di fiducia (“Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”: Lc 23,46). Per ben tre volte nella sua preghiera invoca il Padre (Lc 22,42; 23,34.46): egli sente la sua presenza e la sua prossimità così che vi si affida con confidenza. Al cuore dei Salmi di fiducia vi è l’espressione e, soprattutto, l’esperienza del Dio che è con il suo fedele. Al cuore di uno dei più intensi Salmi di fiducia, il Sal 23, si trova l’espressione “tu sei con me” che il salmista rivolge a Dio riconoscendo la sua vicinanza anche nei momenti più bui dell’esistenza (“Se anche vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me”: Sal 23,4). Quella confessione di compagnia, di presenza accanto, di “essere con” da parte di Dio, è ciò che Gesù vive fino all’affidamento ultimo della sua intera esistenza nelle mani e al volere del Padre. Ed è all’interno di quella fede che egli pronuncia la promessa all’altro malfattore: “Oggi tu sarai con me in paradiso” (Lc 23,43).