Due amori

3 novembre 2024

XXXI domenica nell’anno
Marco 12,28-34
di Sabino Chialà

In quel tempo 28si avvicinò a Gesù uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». 29Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l'unico Signore; 30amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. 31Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c'è altro comandamento più grande di questi». 32Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all'infuori di lui; 33amarlo con tutto il cuore, con tutta l'intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». 34Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.


Il racconto evangelico di questa domenica muove dalla domanda che uno scriba, vale a dire un esperto della Legge, rivolge a Gesù, nel quale, come lui stesso dirà, riconosce un “maestro”. La domanda è semplice e complessa al tempo stesso: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?” (v. 28). Interpretabile a più livelli. Il più ovvio, tenuto conto di chi la pone, è che si tratti una domanda “di scuola”, con cui a Gesù è chiesto di dar prova della sua capacità esegetica. Tale genere di discussioni è ben attestato per il primo secolo dell’era cristiana, quando le varie scuole rabbiniche si applicavano a enumerare e ordinare i vari precetti che, per vie diverse, erano dedotti dalla Torah.

Ma dietro questa domanda possiamo leggere anche un’istanza meno scolastica e che tocca più direttamente la vita e la vita di fede. Un’istanza che porta dento di sé domande che potremmo declinare molto più semplicemente con: qual è il fine verso cui tutto tende? Cos’è che davvero vale? Quel “primo” (v. 29), riferito al comandamento, non è dunque da intendersi come primo di una lista, ma come principio e fine di tutto.

Non a caso il dialogo viene a concludere una serie di confronti tra Gesù e vari interlocutori, di cui Marco dà conto nei versetti precedenti, mentre si trova nella città di Gerusalemme, prima della sua passione, morte e resurrezione. Confronti in cui Gesù è messo alla prova su questioni fondamentali: l’origine della sua autorità (11,27-12,12), il rapporto con l’autorità politica (12,13-17); la resurrezione dei morti (12,18-27). Ad esse ora si aggiunge l’altro grande tema: la Torah, cui segue un’ultima questione, sollevata questa volta da Gesù stesso, circa l’origine della sua messianicità (12,35-37). L’esito di tali confronti, ai quali Gesù non si sottrae pur percependo nei suoi interlocutori un atteggiamento di sfida e mancanza di vero ascolto, è sempre piuttosto deludente. Quello con lo scriba fa invece eccezione, non solo per l’esito cui perviene, ma anche per il clima positivo in cui si svolge.

Lo scriba è ben disposto nei confronti di Gesù, perché favorevolmente impressionato dal modo in cui egli ha appena risposto ai sadducei sul tema della resurrezione dei morti (12,18-27). Dice infatti il testo: “Allora si avvicinò a lui uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò” (v. 28). In tale impressione positiva lo scriba sarà poi confermato da quanto Gesù risponderà anche a lui, per cui ribatte: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità” (v. 32).

Lo scriba dunque ha avuto modo di apprezzare il discernimento di cui il Maestro ha dato prova nelle dispute precedenti, ed è questo che lo spinge a porgli la domanda cruciale: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?” (v. 28). Cruciale perché mira al cuore, all’essenziale. È come se gli chiedesse: Dov’è dunque l’essenziale cui tendere? Cos’è che davvero vale nella vita? E di conseguenza, dove è possibile verificare se una vita di fede e una sequela, sono ben orientate oppure no?

Se anche la domanda dello scriba fosse stata mossa unicamente da un interesse scolastico, Gesù lo conduce a un altro livello, a quello del senso di tutto e, soprattutto, dell’osservanza dei comandamenti. Lo rimanda non a due precetti tra tanti, o a un semplice e banale ordine da ricercare, ma al fondamento dell’intero apparato della Torah. Richiamando il comando sull’amore per Dio (Dt 6,4-5) e quello sull’amore per il prossimo (Lv 19,18), Gesù indica il principio e il fine di tutto l’agire religioso, e dunque il metro di misura con cui tutto dev’essere valutato. Un metro unico, benché descritto da due parole. Infatti, a chi gli chiede quale sia il “primo” comandamento, Gesù risponde aggiungendo quel “secondo” (v. 31) non richiesto dal suo interlocutore.

Disegna così un itinerario che parte da un amore unificato per il Signore, e totalizzante al punto che il vangelo aggiunge un’ulteriore dimensione a quelle evocate nel testo ebraico di Deuteronomio 6,5, poiché parla di cuore, anima, mente e forze, vale a dire di tutto l’essere; un amore che tende a pervadere tutte le facoltà umane, a plasmarle, a orientarle, a vivificarle. E continua con quel “secondo comandamento”, inseparabile dal primo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (v. 31). Secondo rispetto all’amore per Dio, non secondo in una sequenza lineare, in cui al primo segue il secondo, ma come prosecuzione di un medesimo movimento. Matteo, infatti, nel passo parallelo lo dice “secondo” perché “simile” (Mt 22,39).

I due amori sono così criterio di verifica l’uno per l’altro, e di mutuo sostegno: l’amore per Dio alimenta quello per il prossimo e viceversa. Ne risulta che essi non siano più percepiti in concorrenza, che è una delle distorsioni in cui cade non di rado l’uomo religioso che è in ciascuno di noi. Si tratta infatti di percepire come l’amore per Dio non possa togliere nulla all’amore per il prossimo, e viceversa. Sono due amori che possono crescere solo insieme.

Gesù quindi conclude: “Non c’è altro comandamento più grande di questi” (v. 31). Come a dire che niente può essere contrapposto a questi comandamenti, niente può essere invocato contro questi due amori, niente ha senso se non conduce ad essi.

Lo scriba concorda con Gesù e rincara con un’affermazione che sulle sue labbra assume una valenza ancora più decisiva. Aggiunge che questo duplice amore “vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici” (v. 33). Vale più di tutto, anche del sacro e delle liturgie del tempio. Il che significa che non solo il comportamento etico, significato dai comandamenti della Torah, ma anche la prassi religiosa e liturgica va misurata sul duplice amore. Tutto, etica e prassi liturgica, trova la sua ragion d’essere nell’amore per Dio e per il prossimo.

La conclusione di Gesù è di apprezzamento per lo scriba: “Non sei lontano dal regno di Dio” (v. 34), che nel linguaggio di Marco equivale a dire che quello scriba non è lontano da Gesù, dal suo modo di pensare e di agire.

In questo vangelo ci sono dunque consegnati i due criteri su cui misurare la vita, le azioni, i pensieri, i sentimenti. A noi, costantemente tentati dalla dispersione, anche dietro a realtà non necessariamente cattive, dalla dispersione in una miriade di comandamenti, di prassi religiose e di liturgie, è qui indicato il criterio con cui verificarne il fondamento, e dunque la via per ordinare e porre tutto nella giusta direzione.

I due amori di cui ci parla il vangelo di questa domenica sono le luci con cui è possibile orientarsi nelle scelte, nelle valutazioni, nei gesti. Inoltre, solo se ordinato ad essi, il cammino nei comandamenti della Torah, potrà rivelarsi una via di libertà e non di schiavitù, una vita piena e felice.


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