Verso la luce
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10 marzo 2024
Giovanni 3,14-21
IV Domenica di Quaresima
di Sabino Chialà
In quel tempo Gesù diceva ai suoi discepoli:" 14Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, 15perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
19E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. 20Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. 21Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio»
Dopo l’immagine del tempio su cui abbiamo sostato domenica scorsa, in questa quarta domenica, la domenica laetare, il cammino pasquale ci invita a meditare su una seconda immagine: il serpente innalzato nel deserto (v. 14).
Anche questo brano evangelico, come quello della scorsa domenica, è chiaramente pasquale, orientato alla passione e resurrezione di Gesù. Potremmo considerarlo il primo degli annunci della passione secondo Giovanni. Il quarto vangelo non riporta i tre annunci della passione della tradizione Sinottica. Tuttavia in tre occasioni esso torna a parlare dell’innalzamento del Figlio dell’uomo: qui, in Gv 8,28 e ancora in 12,32-34. Avremmo così anche in Giovanni i tre annunci, rappresentati nell’immagine dell’innalzamento.
Tale innalzamento rinvia evidentemente alla croce, che per Giovanni costituisce il momento della glorificazione del Figlio e della rivelazione dell’amore del Padre per l’umanità. Ma è anche luogo di ricongiungimento del Figlio con il Padre, al quale fa ritorno portando con sé l’umanità intera, come dirà più avanti: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32).
L’immagine dell’innalzamento ha un antefatto che Gesù evoca e che orienta il significato dell’immagine: il serpente innalzato da Mosè nel deserto (v. 14). L’episodio è narrato in Nm 21,4-9, dove è descritto come un’esperienza di guarigione. Dopo l’ennesima mormorazione, il popolo è colpito da serpenti velenosi che ne causano la morte. Chiede dunque perdono a Dio e questi incarica Mosè di farsi un serpente di bronzo e di innalzarlo su un’asta, perché chiunque, guardandolo, fosse guarito dal morso dei serpenti. Una sorta di medicina omeopatica in cui si guarisce dal morso dei serpenti, guardando il serpente.
Il contesto in cui Gesù richiama questa immagine è il dialogo con Nicodemo “recatosi da Gesù di notte” (v. 2). Al fariseo che apprezza l’autorevolezza di questo rabbi, fino a osare incontrarlo, Gesù però chiede qualcosa che sconvolge il suo interlocutore: “Se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio” (v. 3). Perché quel dialogo notturno si trasformi in via luminosa verso il Regno è necessaria una rinascita, una resurrezione. Il vecchio maestro ne è sorpreso e ribatte: “Come può nascere un uomo quando è vecchio?” (v. 4).
Gesù risponde che rinascere è possibile. Non è opera umana, ma dello Spirito di cui “senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va” (3,8). Nicodemo resta incredulo e ribatte: “Come può accadere questo?” (v. 9). Domanda nella quale s’innesta l’annuncio del Figlio dell’uomo che, essendo disceso dal cielo” (v. 12), sarà innalzato perché in lui si compia la rinascita dell’umanità intera. Dice infatti Gesù: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (vv. 14-15).
Come il serpente aveva ridato vita ai figli d’Israele feriti dal male, così il Figlio dell’uomo innalzato trasmette la vita a coloro che credono in lui. Ecco quello che chiede Gesù a Nicodemo, come a ogni lettore del Vangelo: credere nel Figlio, che per Giovanni è l’opera per eccellenza (6,29). Tutta l’economia di salvezza, e in particolare la croce del Figlio, è orientata a che “nulla vada perduto” (v. 16) e a che “il mondo sia salvato per mezzo di lui” (v. 17).
La rinascita che aveva lasciato dubbioso Nicodemo si realizza tramite il Figlio innalzato, che chiede solo fede, tema che domina l’ultima parte del nostro brano: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto” (v. 16); e ancora: “Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato, ma chi non crede è già stato condannato (vv. 17-18).
Credere non come azione intellettuale, ma come affidamento: questo è ciò che l’essere umano è chiamato a fare perché gli effetti benefici della salvezza operata dal Figlio passino nella sua esistenza. La fede salva, guarisce, perché rompe il cerchio dell’autosufficienza e dell’autoreferenzialità.
Ma qui il discorso ci invita a fare un ulteriore passo. Facendo ricorso ad una delle sue antinomie preferite – quella luce-tenebre – l’evangelista accosta il credere al “venire verso la luce” (v. 21). Chi fa il male, dice Giovanni, non viene alla luce, perché teme che le sue opere siano svelate. Chi invece “fa la verità, viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio” (v. 21).
In quel dialogo notturno tra Gesù e Nicodemo questo riferimento alla luce assume un’importanza particolare. È il Figlio che, innalzato da terra, opera la rinascita di cui Nicodemo si sente incapace. Ma perché la vita possa operare in quel corpo ormai segnato dal tempo, come nei corpi piagati dei figli d’Israele nel deserto, è necessario credere in lui, volgere lo sguardo verso di lui, venire alla luce, fare la verità, come dice Giovanni con un’espressione curiosa: “Chi fa (ho poión) la verità viene verso la luce” (v. 21).
Non è facile venire alla luce. Si può essere presi dal timore di perdere e di perdersi. Ma quella luce è una luce benefica, è una luce che risana, che non umilia per il peccato commesso. Si tratta di una luce che guarisce, che rende finalmente liberi dalle proprie paure, che riconduce in quello spazio di autenticità in cui solo è possibile fare esperienza di libertà. La libertà di chi non ha nulla da perdere perché sa di essere nelle mani di Dio, ovunque sia, qualsiasi cosa faccia, quale che sia il momento della vita che attraversa. Questo è la fede!
Ecco dunque l’immagine che la domenica laetare ci consegna: Gesù è il Figlio dell’uomo innalzato come il serpente nel deserto. L’innalzato che ci fa dono della vita, ogni giorno. A noi chiede solo di “guardarlo”, di accordargli la nostra fiducia, di credere in lui, senza temere di esporsi alla luce che emana dalla sua croce, perché non è luce che acceca o uccide, ma luce che libera. Questo nella consapevolezza che tutto quanto Dio opera è solo espressione del suo amore, della sua fedeltà eterna, del suo dono incondizionato. Quello che Gesù dice qui, all’inizio del vangelo, del Figlio dell’uomo (v. 17), lo ripeterà appena prima di entrare nella passione: “Non sono venuto per condannare il mondo ma per salvare il mondo” (12,47).
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