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Foto di Jon Tyson su Unsplash
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2 luglio 2023

Mt 10,37-42 (2Re 4,8-11.14-16a)
di Luciano Manicardi

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli"  37Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; 38chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. 39Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà.
40Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. 41Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. 42Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d'acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».


La fecondità dell’accoglienza è un tema che unisce la prima lettura e il vangelo. Eliseo, ospite accolto dalla donna di Sunem, diviene portatore di benedizione per la donna ricca, ma senza figli, che sarà resa madre grazie all’intercessione del profeta. Il vangelo attesta che chi accoglie i discepoli di Gesù non resterà senza ricompensa, anzi, l’ospite accolto e riconosciuto nella sua identità profonda, attrae e assimila a sé colui che lo accoglie: “Chi accoglie un profeta in qualità di profeta, riceverà ricompensa di profeta, e chi accoglie un giusto in qualità di giusto, riceverà ricompensa di giusto” (Mt 10,41). Nel mistero (termine più che mai appropriato) dell’accoglienza e dell’ospitalità avviene che aspetto attivo (dare ospitalità) e passivo (ricevere ospitalità) si fondano e facciano sì che colui che accoglie diviene, in certo modo, colui che è accolto. Chi accoglie chi? Non a caso in diverse lingue (tra cui l’italiano) i termini che indicano chi dà accoglienza e chi la riceve sono identici. Non è questa la stessa dinamica che si presenta di fronte allo straniero? Lo straniero rende noi stranieri, e questo spaesamento può divenire il luogo in cui siamo restituiti a noi stessi in verità: esseri che si interrogano: “Chi sono?”. “L’essere straniero è scuola di fraternità e appello alla solidarietà. Spaesamento del sé e prossimità all’altro costituiscono il ritmo della fraternità. Questo ritmo è l’apertura necessaria alla nostra epoca: perché tutti i razzismi nascono dal misconoscimento dello straniero che ciascuno è a se stesso” (Antonio Prete). Solo l’accoglienza libera i nostri incontri dal rischio della superficialità: possiamo incrociarci ma non incontrarci. L’altro è una possibilità che ci è continuamente offerta di uscire da noi stessi, di guarire dal nostro solipsismo, di ritrovare il senso genuino e gioioso della vita che è sempre nella relazione.

L’ospitalità accordata dalla donna di Sunem a Eliseo ha un aspetto logistico: si tratta di un concreto apprestare uno spazio per venire incontro alle necessità dell’altro (“una piccola camera in muratura con un letto, una sedia e una lampada”: 2Re 4,10); ma preliminare a questo è l’aspetto interiore e spirituale dell’accoglienza, ovvero il riconoscimento e l’accoglienza dell’identità profonda dell’altro: “uomo di Dio, santo” (2Re 4,9), “profeta, giusto, discepolo” (Mt 10,41-42). Il costruire uno spazio materiale per l’altro si accompagna al costruire uno spazio spirituale per lui, cioè al fare spazio in noi stessi a lui.

Nel vangelo secondo Matteo colpisce il fatto che il discorso sull’accoglienza dell’inviato (Mt 10,40-42) faccia seguito alle indicazioni ed esigenze dure sulla sequela di Gesù (Mt 10,37-39). In questo modo la tematica dell’accoglienza è sottratta alla morale delle buone maniere e pienamente inserita nell’ambito del radicalismo cristiano. Va poi notato che, se il testo parallelo di Luca parla di ascolto di un messaggio (“Chi ascolta voi ascolta me”: Lc 10,16), Matteo sottolinea l’accoglienza del messaggero. I due aspetti sono evidentemente correlati e inscindibili, ma è importante ricordare la dimensione umana dell’accoglienza di una persona, che richiede di mettere in atto gesti, attenzioni, premure, intelligenza dei bisogni dell’altro (si noti il dettaglio del dar da bere “un bicchiere d’acqua fresca” in Mt 10,42 che ci rinvia al clima caldo e secco palestinese e alla sete di colui che ha percorso molta strada a piedi), perché l’accoglienza è sempre accoglienza di un corpo da parte di un altro corpo. La realtà dell’amore non si misura su slanci affettivi, ma su questa effettività. E poiché noi non sappiamo mai chi incontriamo, chi ci è inviato, chi riceviamo, il lavoro di accoglienza richiede attenzione e discernimento, ascolto e osservazione per lasciarsi raggiungere e toccare dall’altro. Così l’incontro con l’altro diviene una visita che assomiglia a una rivelazione. Diviene una visitazione. E richiede una disponibilità al cambiamento, all’apertura, un vero lavoro di conversione personale. Accogliere l’altro comporta infatti anzitutto il disporsi all’ascolto: e non solo delle parole, ma delle sofferenze dell’altro, del suo corpo come del suo animo. Quindi comporta la sospensione del giudizio, che equivale anche alla fuoriuscita dai pregiudizi: dobbiamo imparare tutto dell’altro che incontriamo e l’atteggiamento fecondo è quello del discepolo di fronte a un maestro. Incontrare e accogliere l’altro è possibile nell’umiltà. L’ascolto apre all’empatia, al sentire, anche solo per intuizione, ciò che l’altro prova e sente. Tutto questo conduce al dialogo, che è scambio di storie, di esperienze, di vissuti attraverso la parola ed è costruzione di un terreno comune di intesa e di comprensione. È ricerca e costruzione insieme di un senso. In sintesi: accogliere significa dare tempo, dare ascolto, dare parola, dare presenza all’altro. E comprendiamo che tutto questo rientra nella radicalità cristiana. Perché tutto ciò è dare la vita: dare vita ad altri donando la propria vita. E Gesù ha appena detto: “Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 10,39). Come nel grandioso affresco del giudizio finale (Mt 25,31-46) Matteo afferma l’autorità escatologica del povero e del malato, del prigioniero e dell’affamato, qui attesta che il gesto anche più elementare di dono, come dar da bere a chi ha sete, non resta perduto ma viene visto e raccolto dal Signore: “Chi avrà dato da bere anche solo un bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa” (Mt 10,42). Come potrebbe essere diversamente per quegli umani che agli occhi di Dio valgono molto più di tanti passeri (cf. Mt 10,31)? L’accoglienza è arte di riconoscimento che l’altro non mi appartiene ma gli faccio spazio, gli dico un sì che è fondato ultimamente sull’identica appartenenza alla condizione umana che rende ogni umano un figlio di Dio: siamo uniti da una comune origine, da una comune appartenenza e da una comune destinazione. Preparo uno spazio per lui, lo ospito in casa mia, gli offro cibo e bevanda, possibilità di riposo e di ristoro, gli offro ascolto, disponibilità e tempo, affinché lui sia libero di ripartire e proseguire il suo viaggio. Accogliere è porsi a servizio della libertà dell'altro. E come l’accoglienza richiede il movimento profondo di non rifiutare e di non assimilare, di non respingere e di non inglobare, così la sequela chiede di non rifiutare la croce e di non gettarla sugli altri, ma di assumerla su di sé. La postura del discepolo è la responsabilità: né la rimozione né la proiezione sono atteggiamenti sensati tanto umanamente quanto dal punto di vista cristiano. E dunque che significa quel prendere la propria croce e seguire Gesù? Significa che chi abbraccia la fede cristiana deve aspettarsi una croce, la sua croce. Deve mettere in conto che il cammino sarà difficile, che potrà incontrare ostacoli impensabili e che si riveleranno sconcertanti. Che potrà conoscere contraddizioni aspre e amare che lo faranno dubitare della bontà del cammino scelto. Ma paradossalmente, proprio nel trovarsi in situazioni non solo indesiderabili ma anche inimmaginabili, potrà dare il nome di croce a ciò che sta vivendo e scoprirsi così nella diretta sequela di Gesù. E proprio quelle situazioni di spaesamento radicale in cui il discepolo può arrivare a trovarsi e in cui gli amici appaiono come nemici, la propria casa diviene estranea, il volto stesso di Dio non è più riconoscibile, insomma le situazioni vissute da Gesù in particolare nella sua personale via crucis, sono il concreto luogo e la concreta modalità di perdita della propria vita e verificano se il cammino di sequela fino ad allora è stato autentico oppure abbisogna di purificazione e conversione. Se necessita di una più profonda discesa nel mistero della vita di Gesù e del lancinante vivere di Cristo in noi: non io vivo, ma Cristo vive in me, dice Paolo (Gal 2,20). Lancinante perché non vi è nulla di desiderabile o piacevole in quel far vivere la vita di Cristo in noi. Vi è l’assunzione della dolorosa e scandalosa croce: “Sono stato crocifisso con Cristo e non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,19-20). Ciò che viene richiesto per essere “degni di Gesù” (cf. Mt 10,37.38), cioè appartenenti a lui, suoi veri discepoli, è questa libertà radicale e anch’essa scandalosa perché avanza pretese anche nei confronti di realtà buone come la famiglia (Mt 10,37). Al tempo stesso questa libertà è radicale perché tende a liberare dalla tirannia del nostro “ego”, che ci spinge a trattenere per non perdere, a possedere per saperci vivi, a considerarci al centro del mondo per sfuggire all’angoscia di essere uno dei tanti … Ma in questo modo, queste parole che suonano così dure, così inattuali, così in controtendenza rispetto ai dolci cammini di realizzazione di sé e di ricerca di felicità oggi proposti sulle bancarelle del mercato psicologico e delle spiritualità della dilatazione di sé e del potenziamento delle proprie capacità, indicano la via di una libertà anche antropologicamente ben fondata. Ha scritto Alberto Mello: “La vita non è un tesoro da rapire o da custodire gelosamente: essendo un dono, non si può ottenere che donandola”.


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