Speranza e responsabilità

Photo by Nicolene Olckers on Unsplash
Photo by Nicolene Olckers on Unsplash

16 maggio 2021

Mc 16,15-20
Ascensione del Signore
di Luciano Manicardi

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:«15Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. 16Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. 17Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, 18prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». 19Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.  20Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.


Che cosa celebriamo nella solennità dell’Ascensione del Signore? Innanzitutto il compimento della missione del Figlio: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al padre” (Gv 16,28). Il mistero dell’amore di Dio per l’uomo, manifestato come discesa e abbassamento nell’incarnazione, trova la sua pienezza nell’Ascensione, con cui il Figlio porta nella vita trinitaria la carne umana e ci conduce a confessare che alla destra del Padre siede ormai un corpo umano, la carne di Cristo che è anche la nostra carne, la condizione della nostra umanità. Nel Cristo asceso “quale primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29) c’è la caparra della nostra destinazione ultima, c’è la memoria della nostra chiamata alla piena “partecipazione alla natura divina” (2Pt 1,4). Così l’Ascensione celebra anche il mistero della salvezza a cui siamo chiamati: la vita in Dio per sempre nel Figlio. E infine nell’Ascensione contempliamo il compimento di una parola della Scrittura. Il Cristo che sale al cielo e siede alla destra del Padre adempie al comando “Siedi alla mia destra” (Sal 110,1) rivolto da Dio al re-messia nell’Antico Testamento e che accompagnava l’ascesa al trono e la presa di possesso, da parte del nuovo re, del palazzo regale che si trovava appunto alla destra del Tempio, della dimora di Dio. L’Incarnazione e l’Ascensione sono allora i due poli di un unico mistero di obbedienza del Figlio alla volontà di amore e di salvezza universale del Padre.

Ora, dell’evento dell’Ascensione ci parla soprattutto Luca (nel vangelo: Lc 24,50-51 e anche negli Atti degli Apostoli: At 1,2.9-11), ma anche l’evangelista Marco, in una menzione concisa all’interno della finale aggiunta al testo originario del vangelo. Così dice il secondo vangelo: “Il Signore Gesù, dopo aver parlato agli Undici, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio” (Mc 16,19). “Dopo aver parlato”: il Cristo ascende al cielo dopo aver lasciato una parola ai discepoli. Il suo distacco dai discepoli non è muto, ma accompagnato da parole. Qui si parla delle parole rivolte agli Undici, ma di certo i discepoli dovranno ricordare tutte le parole che Gesù ha rivolto loro durante gli anni della loro vita itinerante vissuta insieme. Gesù lascia le parole che diverranno gli scritti evangelici. Le sue parole sono la sua eredità che egli lascia ai discepoli e di cui essi sono ora responsabili.

Le parole poi, dice Qoelet, “sono come frecce” (Qo 12,11): esse indicano, orientano, danno un senso e una direzione. Sono dunque un’altra forma di presenza del Signore. Forma che implica la memoria e l’interpretazione da parte dei discepoli. Si tratta di ricordare ciò che il Signore ha detto e di interpretalo per viverlo nel nuovo contesto. Di certo, nel testo odierno di Marco, tra le parole pronunciate da Gesù immediatamente prima della sua ascensione al cielo, vi è il comando di andare e annunciare il vangelo ovunque: la missione e la predicazione della chiesa coprono il “vuoto” dell’assenza fisica di Gesù. “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura” (Mc 16,15). Sta alla chiesa visibilizzare il volto di Cristo nel tempo in cui l’ascensione l’ha sottratto alla

vista, nel tempo tra la Pasqua e la Parusia. Sta alla chiesa renderlo presente tra gli uomini. “La sorte di Dio ci è affidata nella misura in cui, portatori di Dio in questo mondo, è dal nostro atteggiamento che dipenderà la conoscenza e l’immagine che gli uomini si faranno di Dio. Dio stesso potrà essere buono, giusto e salvatore di un certo uomo soltanto se, in quel dato momento e in quelle date circostanze, io sarò buono e giusto con quell’uomo esercitando così nei suoi confronti, in qualche modo, quella potenza di salvezza che mi è stata comandata da Dio. Come dicevano i Padri della chiesa, noi siamo le mani e le braccia di Dio” (Adolphe Gesché).

Tuttavia, se la parola dell’annuncio a ogni creatura si riferisce certamente anzitutto agli esseri umani, è pur vero che dietro a quell’“ogni creatura” possiamo vedere tutto ciò che è uscito dalle mani creatrici di Dio. Possiamo vedere pertanto le creature animate e inanimate, anch’esse destinatarie della buona novella. “Ogni creatura” abbraccia anche animali e piante, ruscelli e colli, erbe e fiori, insomma tutte le creature che sono dichiarate anch’esse destinatarie dell’annuncio pasquale che promette la trasfigurazione di questo mondo in cieli e terra nuovi. Ci sono una fratellanza e una sororità che non si limitano agli umani, ma che comprendono tutte le creature. San Francesco lo sapeva bene, lui che nella sua predicazione si rivolgeva anche agli animali e che proclamava l’amicizia con tutti gli elementi del creato. Ma che significa annunciare il vangelo a ogni creatura? Sempre san Francesco afferma, rivolto ai suoi frati: “Predicate sempre il vangelo e, se fosse necessario, anche con le parole”. Predicare sempre significa che la predicazione non può essere un’attività solamente verbale, ma deve investire l’essere stesso della persona in tutte le sue modalità espressive e relazionali. Significa diventare vangelo vivente: esprimere il vangelo con parole e silenzi, con gesti e sguardi, con tutto se stesso. Questo annuncio nasce da uno sguardo evangelizzato che vede in ogni realtà una traccia della presenza divina, uno sguardo che si lascia ferire dalla precarietà del fiore che appassisce, dalla sofferenza dell’animale ferito, dalla pazienza della terra. Annunciare il vangelo a ogni creatura, ovvero entrare sempre più nella compassione verso per tutto ciò che esiste, che vive e che muore. Questa estensione universale della presenza di Dio nel Cristo risorto e asceso al cielo, è suggerita da Paolo quando afferma: “Che significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli per essere pienezza di tutte le cose” (Ef 4,9-10). Il Cristo risorto, divenuto spirito vivificatore al cuore delle umili realtà terrene, è ormai presente ovunque, riempie ogni spazio.

Il modello poi della missione e della predicazione a cui il Risorto che ascende al cielo destina i discepoli, è Gesù stesso che aveva iniziato il suo ministero predicando il Regno di Dio e chiedendo conversione e fede nel vangelo (cf. Mc 1,14-15). E poiché il Risorto continua a precedere i discepoli (cf. Mc 16,7), la missione si configura come sequela di Cristo. L’andare cui essi sono invitati altro non è che un seguire. Solo così la missione sarà sacramento della presenza del Signore tra gli uomini. Come era la missione svolta dagli Undici, in cui era presente e attivo il Signore stesso. “Gli Undici predicarono dappertutto, mentre il Signore cooperava (con loro) e confermava la parola con i segni che l’accompagnavano” (Mc 16,20). Affermando che il Signore coopera con gli Undici nella loro missione e conferma la parola del loro annuncio, la chiesa primitiva esprime la sua fede nel Risorto quale soggetto della missione della chiesa. E poiché la missione avviene con parole e gesti intimamente connessi, ecco che l’azione di sinergia e di conferma della parola attuata dal Signore si esplica in “segni” (Mc 16,20).

E se la missione della chiesa tende a suscitare l’adesione teologale, la fede nel Signore, essa avviene grazie alla fede. Gli inviati, i predicatori sono i primi chiamati alla fede. Nel testo evangelico si parla della cooperazione del Signore alla missione ecclesiale in termini analoghi a quelli che troviamo in At 14,3: “(Paolo e Barnaba) parlavano fiduciosi nel Signore, che rendeva testimonianza alla predicazione della sua grazia e concedeva che per mezzo loro si operassero segni e prodigi”. È la fede in Gesù risorto e asceso al cielo lo spazio di azione della grazia e di manifestazione della sua potenza e fecondità. Chiesa evangelizzatrice è, semplicemente, una chiesa credente.

Mentre dunque nel Cristo asceso al cielo il credente contempla la ricapitolazione in Dio di tutta l’umanità, nella storia egli vede la missione della chiesa che annuncia il vangelo a ogni creatura. Questo, pertanto, il messaggio che dall’Ascensione discende alla chiesa: speranza e responsabilità. Speranza della trasfigurazione universale, responsabilità di rendere presente Cristo a ogni creatura. Anzi, la speranza diviene la responsabilità che i credenti hanno nei confronti di tutta l’umanità. L’evangelizzazione dischiusa dall’Ascensione implica la capacità di destare speranza, di aprire spiragli di senso nella vita e nella storia degli uomini. Implica la sovrana libertà di chi sa di essere cittadino del cielo, dove “il Cristo è seduto alla destra di Dio” (Col 3,1), di chi è cosciente di essere “nel mondo, ma non del mondo” (cf. Gv 17,11.14). E implica la fede che il battesimo è l’atto con cui Dio “ci ha resuscitati con Cristo e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù” (Ef 2,6). I battezzati sono dei con-risorti e dei con-ascesi al cielo con Cristo: questo aspetto della fede non è per nulla un’eresia di anticipazione, anzi, è il richiamo alla fede in Cristo, alla partecipazione alle energie della sua resurrezione, alla testimonianza escatologica che è compito della Chiesa. L’Ascensione, infatti, è caparra della venuta nella gloria di Cristo: “Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1,11).