Un corpo piegato per i fratelli

Croce Rossa - Macerata - Photo by Il Vagabiondo on Unsplash
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1 aprile 2021

Gv 13,1-15
La Cena del Signore
di Luciano Manicardi

1 Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. 2Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, 3Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, 4si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. 5Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugamano di cui si era cinto. 6Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». 7Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». 8Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». 9Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». 10Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». 11Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».
12Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? 13Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. 14Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. 15Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi.


Nel nostro impegno a seguire Gesù nel suo cammino verso la Pasqua, questo giovedì santo ci porta a sostare, meditare e contemplare sul corpo piegato di Gesù davanti ai suoi fratelli, su Gesù che si china, si inginocchia davanti a loro per servirli con il gesto della lavanda dei piedi. Noi contempliamo così la verità di Gesù, cioè il suo rivelare Dio, chi Dio è e come agisce. Il triduo santo sarà il culmine di questa contemplazione della verità che è in Gesù, della verità cioè di Dio e dell’uomo. Questi giorni santi sono più che mai magistero che ci consente di mettere in atto ciò che dice la lettera agli Efesini, ovvero di imparare ed essere istruiti “secondo la verità che è in Gesù” (Ef 4,21). La verità dunque della sua pratica di umanità che è rivelativa dell’essere e dell’agire di Dio e che tende a trasformare il credente a sua immagine.

Il vangelo ci presenta il corpo piegato nel gesto del servo, gesto che sintetizza tutto quanto il vivere di Gesù: non è un gesto isolato, scisso da tutto il resto che Gesù ha detto e fatto, ma un gesto che nella forza iconica e simbolica, in certo modo, è stato presente in tutto l’agire di Gesù, nel suo incontrare i malati e curarli, nel suo parlare a folle assetate di vita, nel suo farsi prossimo a esclusi ed emarginati. Contempliamo, questa sera, e lo contempliamo tanto nella lavanda dei piedi quanto nell’eucaristia, il suo rendere il proprio corpo servo del corpo dei suoi fratelli, il suo servire e non farsi servire, il suo dare e non pretendere, il suo farsi servo e non padrone, il suo servire e non usare. E comprendiamo che dietro a ogni gesto positivo di Gesù, come servire e donare, amare e curare, vi è sempre anche un no, un rifiuto opposto alla pratica contraria. Non si può tenere insieme questi due elementi: servire e al contempo ergersi a padrone, donare e al tempo stesso trattenere gelosamente per sé o pretendere. Gesù lo esprime con vigore: Non si possono servire due padroni contemporaneamente, non si può servire Dio e la ricchezza (Mt 6,24), non c’è intesa possibile fra Cristo e Beliar (2Cor 6,15). Questo no, che vale anche per i discepoli, è pronunciato con molta forza da Gesù proprio nel discorso di addio durante l’ultima cena nella redazione del terzo vangelo. Durante quel pasto Gesù legifera con forza e perfino con durezza nei confronti dei discepoli: “Tra voi però non così”. C’è un aut-aut a cui non si può sfuggire. Questo no riguarda il modo in cui si esercita il governo e l’autorità nella comunità cristiana, ma anche i rapporti interpersonali nella comunità che possono divenire rapporti di potere, di sopraffazione e di abuso. Questo no impegna i discepoli di Gesù nella storia, tanto quanto li impegna il sì con cui essi sono chiamati ad obbedire al “fate questo in memoria di me” in riferimento all’eucaristia. Al cuore della lavanda dei piedi noi abbiamo il corpo di Gesù che si fa servo e non padrone del corpo dei suoi fratelli.

Paolo presentandoci l’eucaristia, mostra la stessa dinamica: l’eucaristia è sacramento del corpo donato di Cristo, del corpo del Servo, non di colui che si erge a padrone dei corpi e dunque delle vite degli altri. E così crea la fraternità e la comunione. Sappiamo bene come per la Scrittura la corporeità sia eminentemente spirituale, in quanto designa l’interezza della vita di una persona, dunque relazionalità, spiritualità, interiorità, intimità. E anche sulla croce, quella croce che è già ben

presente anche al momento della lavanda dei piedi, come è presente nell’eucaristia, Gesù è nella postura di chi offre e dona il suo corpo. Ecco il sigillo dell’autorità cristiana, dell’autorità evangelica. Ecco la conferma dell’autentica autorità nella comunità cristiana, nella chiesa come in una comunità monastica. Lavanda dei piedi, eucaristia, croce: nei tre momenti sempre è presente la stessa dinamica e dunque l’unica verità. E questa verità è sottostante a tutta quanta l’esistenza di Gesù. La contemplazione di questa sera, ma che è ciò che noi abbiamo davanti in ogni eucaristia, ci pone di fronte a una visione di sintesi, ma visione che chiede di essere accolta per operare in noi una trasformazione. In quell’incontro di corpi, dunque, di vite, di totalità personali, che è l’eucaristia, sacramento di tutta quanta l’esistenza del Figlio, sacramento del dono del Figlio, noi contempliamo la libertà di Gesù. Ma tale libertà noi la vediamo anche nella lavanda dei piedi, la vediamo anche sulla croce. E da cosa si vede la libertà di Gesù? Gesù è libero perché si dona, perché non ha paura, perché non attacca, perché serve perfino Giuda e gli lava i piedi, perché non si difende, perché non fugge e non mente, perché, come dice la prima lettera di Pietro, sulla croce “non insulta e non minaccia vendetta” (1Pt 2,23), perché non avanza pretese, non aggredisce, sapendo che ciò che subisce è qualcosa che lui può trasformare. E lo può trasformare con la forza della mitezza.

E come noi possiamo lasciarci trasformare dalla contemplazione di questi eventi? Anzitutto attraverso lo stupore. Lo stupore di contemplare Gesù che si inginocchia ai piedi dei suoi fratelli. Nessuna invettiva nei confronti di Giuda che lo tradisce, di Pietro che lo rinnega, dei discepoli che lo abbandonano. Ma mitezza. Mitezza che è verità, ovvero, narrazione e rivelazione dell’agire e dell’essere di Dio. Questo stupore è quello che non possiamo non sentire nella celebrazione eucaristica in cui siamo di fronte al sacramento dell’abbassarsi e impoverirsi e indebolirsi storico di Dio in Gesù. Siamo di fronte allo scambio mirabile per cui chi era in alto è disceso, chi era forte si è fatto debole. Il testo di Fil 2, l’inno cristologico centrato sulla kenosi, sull’abbassamento e svuotamento di Dio, è inno che non ha al centro la morte, ma l’amore, l’amore che porta a non voler fare violenza, a non voler rispondere al male con il male. Anzi, l’amore, o meglio, prima dell’amore, la mitezza. Che è la forza di non lasciarsi contagiare dal male e dalla sua irruenza debordante e corruttiva. Lo stupore di fronte alla lavanda dei piedi, all’eucaristia e alla croce, è stupore per la via che Dio sceglie in Gesù per incontrare l’uomo. L’agire di Dio è radicalmente non mondano. Non la forza o la violenza, non l’invettiva o la maledizione, non l’imposizione e la pretesa, non la rivendicazione e l’accusa, ma, come di nuovo dice l’inno presente nella prima lettera di Pietro: sulla croce “Cristo patì per voi lasciandovi un esempio perché ne seguiate le orme: … sulla sua bocca non si trovò doppiezza, insultato non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia” (1Pt 2,22-23). La via della nostra trasformazione è qui indicata come sequela di Cristo e del Christus patiens. Sulla croce, ma la croce è già ben presente nell’ultima cena, ed è ben presente nella lavanda dei piedi, Gesù vince la tentazione, la pulsione della violenza che è anzitutto tentazione di rispondere con parole violente alla violenza altrui: parole che ribattono, che aggrediscono, che ingiuriano. Se nei misteri della passione, morte e resurrezione noi contempliamo la verità di Dio che è in Gesù, in Gesù crocifisso noi contempliamo la pienezza di Dio e dell’uomo. Sulla croce c’è l’uomo perfetto, l’anér téleios, di cui parla Ef 4,13 e che è “il Figlio di Dio”, ma contemplandolo e seguendolo ecco che anche l’uomo può tendere a questa perfezione, o, meglio, a questa maturità: “Se uno non pecca nel parlare, questi è un uomo perfetto (anér téleios), capace anche di tenere a freno tutto il corpo” (Gc 3,2). La parola della mitezza è verità di Dio e dell’uomo.

Dove Gesù trova forza per non reagire con violenza e al tempo stesso non fare della mitezza una mera passività? Nella fede. Sulla croce Gesù “si affidava a colui che giudica con giustizia” (1Pt 2,23). Ma la fede è quella che lo porta a inginocchiarsi davanti ai suoi discepoli, la fede è quella che lo porta a farsi lui pane spezzato e vino versato per la vita degli uomini e anzitutto dei suoi discepoli, dei suoi amici come dei suoi nemici. La fede di Gesù noi la contempliamo sulla croce, ma anche nell’eucaristia e nella lavanda dei piedi. Che non è un gesto puramente etico, o di un maestro, ma, come sottolinea Gesù stesso, del Signore, del Kyrios: “Se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i

piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri” (Gv 13,14). Non è un gesto che dice la bontà di Gesù, ma un gesto rivelativo, che narra Dio stesso. Sì, la fede è anche capacità di stupirsi. E lo stupore è essenziale a ogni contemplazione, la quale esige tempo. E solo così può divenire efficace agente di trasformazione interiore. Mitezza poi è anche capacità di durare, di resistere alla prova del tempo senza cedere alla fretta, all’improvvisazione, alla rapidità, al momentaneo, all’immediato. Un bel testo di Isaia è tradotto dal nostro fratello Alberto, secondo il senso genuino del testo ebraico, “chi crede non avrà fretta” (Is 28,16). Il latino della Vulgata va nello stesso senso traducendo “qui crediderit non festinet”. La fede è invito alla calma, la fede crea calma nel cuore del credente: “Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nella quiete fiduciosa sta la vostra forza” (Is 30,15). Lo stupore chiede di sostare, di dare tempo alla rivelazione di raggiungerci e di toccarci e così di iniziare in noi un processo di trasformazione. Trasformazione grazie alla fede. Quella fede che, come scrive sempre Alberto commentando il testo di Isaia, invita a “non affannarsi, a non essere precipitosi, in particolare nel ricorrere a strategie difensive che si rivelano poi fallimentari o ‘patti con la morte’”. Chi ha fretta, chi agisce sempre e in ogni caso, in qualsiasi situazione, in realtà confida in sé, nel proprio agire, e spesso è spinto dall’ansia e dall’angoscia ben più che dalla fede. Il dramma di chi non sa dare fiducia e affidarsi ad altri, e dunque nemmeno a Dio, è che fidando solo in sé arriva a rinchiudersi nella propria prigione interiore in cui egli è l’unico che può fare e agire, operare e salvare.

L’eucaristia invece ci chiede apertura allo stupore per il dono di Dio. Dono che nell’eucaristia è il dono assolutamente non contraccambiabile: la vita del Figlio e la salvezza che Lui è e ci offre. L’eucaristia non ci pone davanti semplicemente il pane, ma il pane spezzato, non ci presenta semplicemente il vino, ma il vino versato. Ed entrambi sono segno del corpo donato, della vita donata di Gesù. Dividere il pane con i commensali è atto di con-divisione che crea unità. Dal pane spezzato e dal vino versato siamo dunque rinviati al corpo donato di Gesù. Un dono che può creare comunione. Ecco l’agire di Dio, ecco la verità di Dio in Gesù. Paolo ricorda le parole di Gesù pronunciate nella notte in cui veniva tradito: “Egli prese il pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò” (1Cor 11,24). Paradossalmente, è un atto di spezzamento, di divisione, di frazione (la fractio panis) che crea la comunione. I cristiani di Corinto, divisi nei loro particolarismi, posti di fronte al pane spezzato e al vino versato, cioè, come dice Gesù “al mio corpo che è per voi” (1Cor 11,24), possono vedere riflesse, rispecchiate e leggere le loro divisioni e le loro reciproche violenze nell’atto del Signore che spezza il proprio corpo e versa il proprio sangue donando la sua vita per amore e liberamente. E possono vedere come Gesù ha saputo trasformare la violenza contro di lui in un dono. E anche loro possono trarre forza di trasformazione della propria violenza in mitezza. Perché questa è la via di Dio per incontrare l’uomo. Questa la sua verità. Che si manifesterà pienamente nell’evento della morte di croce da cui sgorga la vita piena della resurrezione.