Attendere con vigilanza

Giovanni Frangi
Giovanni Frangi

28 novembre 2025

Dal Vangelo secondo Luca - Lc 21,29-33 (Lezionario di Bose)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli 29una parabola: «Osservate la pianta di fico e tutti gli alberi: 30quando già germogliano, capite voi stessi, guardandoli, che ormai l'estate è vicina. 31Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino. 32In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto avvenga. 33Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno».


Questa pagina del vangelo, siamo portati a dire, ci esorta alla vigilanza. E mi sembra che sia vero, ma a monte di questa esigenza vi è un annuncio per cui l’esigenza si trasforma in promessa, l’esigenza si trasforma nell’invito ad accogliere una lieta notizia, un evangelo, che appunto vuol dire “buona notizia”. E quale è questa buona notizia? Essa è duplice: in primo luogo, l’annuncio che è Dio che compie qualcosa per l’umanità. Sì, forse siamo abituati a pensare che la vita cristiana sia un insieme di opere che il credente deve compiere per Dio, ma questa pagina del vangelo, come del resto anche molte altre, ci annuncia che è Dio che prepara e compie qualcosa per noi umani, e che perciò si tratta da parte nostra di scorgerlo, di rendercene conto, di esserne consapevoli, e per questo si rende necessario rimanere attenti, vigilanti appunto, perché altrimenti l’azione del Signore ci coglie impreparati, finisce per scivolarci come a lato senza che ce ne accorgiamo; il dono ci sfugge, e così noi manchiamo la vita.

La vigilanza, infatti, esige consapevolezza, anche se la consapevolezza non è di per sé garanzia di accoglienza dell’evento che ci viene incontro (si veda ad es. la parabola dei vignaioli omicidi in Lc 20,9-19). E tuttavia la vigilanza richiede che non si abbia l’animo assopito, assuefatto al ritmo quotidiano senza che non si attenda più nulla e nessuno. La vigilanza pone il credente in uno stato di desiderio e di attesa, inocula nel suo cuore quell’apertura al possibile che lo mantiene desto e vivo, e che non fa spegnere in lui la capacità dello stupore. 

Se attendiamo qualcosa che il Signore opera per noi aguzziamo gli occhi del cuore per discernerlo, sgombriamo il nostro animo da inutili pesi, da eccessi ingombranti e da affanni e preoccupazioni fuorvianti. Se attendiamo qualcosa che il Signore opera per noi, e lo attendiamo davvero, con tutta la nostra persona e con tutta la nostra vita, come l’anziano Simeone e la profetessa Anna nel tempio, i quali erano in attesa, rispettivamente, della consolazione di Israele e della redenzione di Gerusalemme (cf. Lc 2,25.38), allora gli occhi del nostro cuore diventeranno capaci di riconoscere il Signore che ci viene incontro e che ci visita, e sapranno stupirsi di fronte al dono che ci raggiunge.

Ma questo discernimento non è automatico, poiché se l’attesa è vera essa purifica, brucia ciò che nel nostro cuore e nella nostra vita ci induce ad assopirci. La purezza dello sguardo ha un prezzo; la luce che ci consente di vedere richiede, infatti, una virtù provata, la quale sola rende possibile la speranza (cf. Rm 5,4), quella speranza che non delude grazie all’amore che Dio ha “riversato nei nostri cuori mediante lo Spirito santo che ci è stato dato” (Rm 5,5). Per questo coloro che hanno un cuore in questo modo purificato sono beati, poiché sanno riconoscere il Signore (cf. Mt 5,8) che si fa loro incontro e che li visita gratuitamente e per amore.

Ecco allora il secondo punto: ciò che il Signore prepara per l’umanità è, come solo Luca in questo passo annuncia, “il regno di Dio”, cioè la stabile dimora fra gli uomini di quella pace che è pienezza di vita e che solo da Dio proviene (cf. Lc 2,14).

sorella Cecilia