Venire fuori

Davide Balliano
Davide Balliano

12 aprile 2025

Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 11,1-45


Il racconto della resurrezione di Lazzaro è un punto di svolta decisivo: non solo nella narrazione evangelica, ma anche nel cammino interiore di ogni essere umano. Nella liturgia del Grande sabato di Lazzaro, che precede la settimana santa, questa pagina risuona come un’irruzione di luce nelle tenebre, una soglia tra morte e vita, tra pianto e promessa, tra il sepolcro e la voce che chiama alla rinascita.

Questo racconto non si limita a prefigurare il miracolo pasquale, ma rivela attraverso il dolore una possibilità altra di esistenza. È un gesto incarnato, dove la voce di Cristo rompe il silenzio del sepolcro e interroga ogni cuore sulla disponibilità a lasciarsi trasformare. È il giorno in cui la luce sfiora la tenebra senza dissolverla, e la morte inizia a tremare.

“Colui che tu ami è malato” (v. 3): qui inizia il mistero. L’amore non previene la malattia, e Gesù non interviene subito ma si ferma ancora due giorni nel luogo dove si trova (cf. v. 6). Nel ritardo, nell’attesa, nel sentimento di abbandono e nell’apparente assenza di Dio nei momenti cruciali, si apre uno spazio per la rivelazione. “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio” (v. 4): un momento in cui la nostra fede viene messa alla prova.

Quando Gesù arriva, Lazzaro è nel sepolcro da quattro giorni (cf. v. 17), e la morte sembra definitiva. Marta esprime la tensione tra speranza e disillusione: “Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto” (v. 21). Eppure nella sua voce c’è ancora speranza: “Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, Dio te la concederà” (v. 22). Gesù le risponde con una parola perentoria che non consola, ma converte: “Io sono la risurrezione e la vita” (v. 25). Marta crede, ma proietta il miracolo nel futuro. Gesù lo radica nell’oggi, in un mondo afflitto dalla paura e dalla cultura della morte travestita da efficienza. Questa parola è una promessa e una provocazione.

E poi, “Gesù scoppiò in pianto” (v. 35). Non è una semplice emozione fugace, ma compassione profonda di un Dio che non resta impassibile al dolore umano. Il dolore non viene negato, ma attraversato. È lo stesso Dio che raccoglie le lacrime dell’uomo (cf. Sal 56,9). In quel pianto c’è tutto il peso della morte, ma anche il resisterle: Dio non accetta la morte come ultima parola.

Il miracolo avviene con un grido: “Lazzaro, vieni fuori!” (v. 43), un grido personale, come in Isaia: “Ti ho chiamato per nome” (Is 43,1). Gesù chiama alla vita ogni parte dell’anima imprigionata nel sepolcro della rassegnazione, del peccato, del vuoto. L'invito è chiaro: uscire, lasciarsi liberare dalle bende interiori, respirare la luce dopo il buio. La trasformazione è possibile, ma richiede una risposta, un atto di fede che si fa azione, scelta, rinascita. È un cammino che richiede coraggio e decisione di scegliere la vita (cf. Dt 30,19).

Lazzaro non parla. È la presenza muta della grazia, ma la sua esistenza, ora viva, è testimonianza. La resurrezione non è mito, è una possibilità concreta, oggi. “Se crederai, vedrai la gloria di Dio” (v. 40). Ognuno ha un sepolcro da cui uscire, e una voce che ancora dice: “Vieni fuori” (v. 43). Anche oggi, là dove sembrava esserci la fine, può cominciare un’altra storia, se si ha il coraggio di ascoltare quella voce e rispondere, anche con passi incerti, all’invito a venire fuori.

sorella Mónica