Dio vestito di umanità
28 dicembre 2024
Dal Vangelo secondo Luca - Lc 2,22-24 (Lezionario di Bose)
In quel tempo 22quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore - 23come è scritto nella legge del Signore:Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore - 24e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
Quasi l’estuario di un fiume, in cui le acque del Primo Testamento confluiscono in quelle del Secondo, questi versetti del Vangelo di Luca rappresentano in qualche modo il passaggio e la saldatura fra la Prima e la Nuova Alleanza.
Il Dio fatto uomo, nei tratti ordinari di un bambino in braccio a sua madre, viene presentato al tempio, nel luogo della visibilizzazione dell’incontro fra umanità e Alterità, fra terra e Cielo.
Maria e Giuseppe presentano quel bambino davanti al volto dell’Altissimo: porre il primogenito davanti a Dio significa riconoscere che in Dio è la sorgente della vita e alla sua luce noi vediamo la luce (cf. Sal 36,10), anzi che Dio è la sorgente stessa della vita e della luce.
Questo gesto di presentazione e di offerta significa affidare al Dio affidabile un bene grande che è stato deposto nelle nostre mani, ridonargli il dono che ci è stato donato, consegnargli il tempo della nostra vita, con le sue opere e i suoi giorni, non per privarcene, ma per salvarli: non è l’immolazione di un sacrificio per placare una divinità lontana e arcigna, per procurarsi qualche favore celeste o per assicurarsi la benevolenza di un dio da blandire, ma è il gesto di chi riconosce un amore che ci previene e ci supera, ci accompagna e ci salva, ci custodisce e ci sostiene; è il gesto di chi riconosce che solo il Signore è Dio: egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo (cf. Sal 100,3).
E questa presentazione avviene secondo la Legge di Mosè, secondo la codificazione religiosa della fede e della tradizione di Israele, del Popolo di Dio. In qualche modo, non si dà qui una logica di opposizione (un aut-aut fra Prima e Seconda Alleanza), né un mera giustapposizione (una semplice convivenza di et-et, fra due possibili), ma una logica di in, di incarnazione: la Luce del mondo entra in una storia fatta di carne e sangue (la propria carne e il proprio sangue, ma anche la carne e il sangue altrui), in un punto del tempo e dello spazio, in un presente, in un quotidiano, in una tradizione religiosa, in un popolo, in una comunità; e il Figlio non è venuto ad abolire un passato, ma ad inscriversi sulle tracce di un cammino attestato dalla Legge e dai Profeti, non è venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento (cf. Mt 5,17).
Questo ingresso “in” avviene all’interno delle coordinate storico-geografiche del Tempio di Gerusalemme: è questa la porta attraverso la quale il Figlio di Dio entra nel mondo, nel chinarsi umile di una coppia di genitori che, forse con un certo timore reverenziale, varcano le porte di quell’imponente costruzione sulla quale è invocato il nome del Signore (cf. Ger 7,11).
Anni dopo, mentre Gesù uscirà dal tempio, uno dei suoi discepoli gli dirà: «Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!». «Queste grandi costruzioni» – nel loro essere opere umane – sono realtà penultime, distruttibili, imponenti e fragili, sono un segno e un rimando ad un’ulteriorità di pienezza e di compimento che la Lettera agli Ebrei descrive mediante la figura di un altro edificio, immagine di un altrove che ci attende: con la sua vita, la sua morte e risurrezione, «Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore» (Eb 9,24).
Nessun tempio
ti contiene, o nessuna chiesa
t’incatena:
Cristo sparpagliato
per tutta la terra,
Dio vestito di umanità.
(D. M. Turoldo).
un fratello di Bose