Fine della preghiera cristiana è l’amore

All’interno di ogni tradizione religiosa la preghiera, nelle sue forme e nei suoi modi, appare essere direttamente connessa al volto del Dio che essa intende raggiungere. E il Dio della rivelazione biblica è il Dio vivente che non sta al termine di un nostro ragionamento, ma nella libertà amorosa dei suoi atti, dei suoi interventi che lo mostrano essere egli stesso alla ricerca dell’uomo. È pertanto vero che, lungi dall’essere il frutto del naturale senso di autotrascendenza dell’uomo o l’esito del suo innato senso religioso, la preghiera cristiana, che contesta ogni autosufficienza antropocentrica, appare come risposta dell’uomo alla decisione gratuita e prioritaria di Dio di entrare in relazione con l’uomo. È Dio che, secondo tute le pagine bibliche, cerca, interroga, chiama l’uomo, il quale è condotto dall’ascolto alla fede, e nella fede reagisce attraverso il rendimento di grazie (la benedizione, la lode…) e la domanda (invocazione, supplica, intercessione, eccetera), cioè attraverso la preghiera sintetizzata nei suoi due movimenti fondamentali. La preghiera è dunque oratio fidei, preghiera della fede (Giacomo 5,15), eloquenza della fede, espressione dell’adesione personale al Signore. Al tempo stesso la rivelazione biblica attesta anche la dimensione della preghiera come ricerca di Dio fatta dall’uomo: ricerca come spazio che l’uomo predispone allo svelarsi, che resta libero e sovrano, di Dio a lui; ricerca come apertura dell’uomo all’evento dell’incontro in vista della comunione; ricerca come affermazione dell’alterità di Dio stesso rispetto all’uomo, come segno del fatto che egli non può essere posseduto dall’uomo anche quando dall’uomo è conosciuto; ricerca come elemento costitutivo della dialettica dell’amore, della relazione di dialogicità centrale nella preghiera. Se la preghiera cristiana è risposta al Dio che ci ha parlato per primo, essa è anche invocazione e ricerca del Dio che si nasconde, che tace, che cela la sua presenza. È questa dimensione relazionale ciò che meglio esprime il proprio della preghiera cristiana, preghiera che si immette e vive all’interno della relazione di alleanza stabilita da Dio con l’uomo. Posta questa fondamentale premessa, possiamo dire che, se la vita è adattamento all’ambiente, la preghiera che è vita spirituale in atto, è adattamento al nostro ambiente vitale ultimo che è la realtà di Dio in cui tutto e tutti sono contenuti. Essenziale, come disposizione fondamentale della preghiera cristiana, è l’accettazione e la confessione della propria debolezza. Esemplare è l’atteggiamento del pubblicano della parabola evangelica (Luca 18,9-14) che prega presentandosi a Dio così com’è in realtà, senza menzogne e senza maschere, senza ipocrisie e senza idealizzazioni, e accettando come propria verità quello che Dio pensa di lui, lo sguardo di Dio su di lui. Solo chi è capace di un atteggiamento realistico, povero e umile, può stare davanti a Dio accettando di essere conosciuto da Dio per ciò che egli è veramente. Del resto ciò che davvero è importante è la conoscenza che Dio ha di noi, mentre noi ci conosciamo solo in modo imperfetto (Prima lettera ai corinti 13,12; Galati 4,9). Base di partenza per la preghiera è allora la confessione della nostra incapacità a pregare (Romani 8,26). Da questa confessione scaturisce l’apertura all’accoglienza della vita di Dio in noi. La preghiera porta il soggetto a decentrarsi dal proprio “io” per vivere sempre più della vita di Cristo in lui, per vivere sotto la guida dello Spirito, per vivere da figlio nei confronti del Padre. Questo decentramento non ha nulla a che vedere con il “far il vuoto in se stessi” che scimmiotta atteggiamenti spirituali afferenti ad altre tradizioni culturali e religiose. È un decentramento finalizzato all’amore. Infatti fine della preghiera cristiana è la carità, l’uscita da sé per l’incontro con la persona vivente di Gesù Cristo e per pervenire ad amare gli uomini “come lui ci ha amati”. Questa relazionalità, che è riflesso della vita del Dio trinitario e che abbraccia tanto Dio quanto gli altri uomini, è dunque il contrassegno fondamentale della preghiera cristiana (E. Bianchi, Lessico della vita interiore, Rizzoli, Milano 2004, pp. 119-122).

“Gesù vide Simone e Andrea”

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Non un progetto, ma una persona

Questo vedere ha un carattere di creazione, fonda qualcosa di nuovo e di perenne, significa la meraviglia dell’incontro da persona a persona. A ciò segue un gesto dalle incalcolabili conseguenze, appunto la chiamata. È l’inizio e il fondamento di una relazione duratura, che segna l’intera vita ...

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La chiamata alla sequela

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Soffermiamoci un attimo sul verbo “seguire”. Il termine sequela, fin dall’inizio, aveva un significato assolutamente preciso, anzi materiale: era un camminare dietro a Gesù, che era sempre in movimento, non aveva una sede e svolgeva un ministero itinerante. Chi voleva stare con lui doveva camminare, mettersi in moto. Dunque il seguire è un fatto concreto e materiale oltre che fisico...

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La fede è sempre poca!

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La poca fede non si presenta semplicemente come un’insufficienza quantitativa, una fede che c’è ma non raggiunge la misura necessaria. È una realtà molto più paradossale, un vero e proprio intrecciarsi di fede e incredulità ... Si tratta di una condizione permanente, ineliminabile. La fede è sempre poca! Sul discepolo incomberà sempre l’urgenza di aprirsi a una fede più grande!...

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Il cristianesimo è la religione della libertà

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Il cristianesimo è la religione della libertà. Se Cristo ha rifiutato di mutare le pietre in pane, se ha rifiutato di scendere dalla croce, fu per stabilire in modo definitivo la nostra libertà. La libertà è l’essenza del messaggio evangelico. La fede non soltanto ci libera – dalla paura, dalla morte, dalle potenze e dai potenti del mondo – ma è l’atto supremo della libertà...

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Ciò che è autenticamente umano è anche veramente spirituale

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Nel cristianesimo, dove la parola “Dio” è narrata dall’uomo Gesù, nel cristianesimo, così radicato nella storia e nella stessa carne umana, io trovo quella totale valorizzazione dell’umano che mi porta a dire che ciò che è autenticamente umano è anche veramente spirituale, e che criterio dell’autenticità spirituale è il rispetto della verità dell’umano. In questo senso comprendo l’affermazione neotestamentaria che Gesù Cristo “ci insegna a vivere” (Tito 2,12)...

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Prendere sul serio le domande sul senso della vita

La fede è chiamata a declinarsi come cammino del senso della vita, cioè a prendere sul serio, ma anche suscitare, tenere desta e orientare la domanda sul senso della vita in tutte le sue valenze: significato, direzione, gusto. La sete di senso che abita il cuore dell’uomo non potrà mai essere saziata da un senso imposto dall’esterno o dall’alto. Gli uomini vorrebbero vedere e incontrare dei testimoni del senso, e questo nel momento stesso in cui si mostrano assolutamente allergici a discorsi d’autorità che vorrebbero imporre decaloghi che dicono all’uomo ciò che è bene e ciò che è male, che gli dicono quel che deve o non deve fare. Chi oggi ha autorevolezza è colui che testimonia di un senso possibile perché lui stesso l’incarna. I testimoni del senso sono persone che nella loro stessa vita, nelle loro relazioni, danno realtà al senso della vita che hanno scoperto e a cui si sono asserviti ...
Occorre ricreare oggi una grammatica dell’umano che consenta l’accoglienza della parola di Dio e lo svilupparsi del dono della fede: questo sarebbe veramente un servizio, da farsi dialogicamente con chi attua una lotta anti-idolatrica , anche per altri, i non credenti. Declinare la fede come cammino del senso significa credere e testimoniare che Cristo può orientare il senso della vita e che la sua umanità può umanizzare la nostra ...


Prendere dunque sul serio oggi, nell’opera di trasmissione della fede, le domande umane e la domanda basilare sul senso, non solo non è estraneo al cristianesimo, ma è in linea di continuità con la logica dell’incarnazione. I discepoli hanno dato un senso radicale alla loro vita dopo aver visto l’umanità di Gesù, dopo aver ascoltato le sue umane parole, dopo essere stati testimoni dell’umanità del suo agire, dei gesti di guarigione e compassione con cui egli esprimeva la sua cura dell’umano menomato, e dopo averlo riconosciuto come risorto a partire dai gesti umanissimi con cui egli si è presentato loro: chiama per nome Maria (Giovanni 20,11-18), spezza il pane nel gesto quotidiano della condivisione della tavola (Luca 24,13-35), mangia e parla insieme con loro (Luca 24,36-49)... È dopo aver visto la sua umanità che essi hanno saputo riconoscere e confessare la divinità e ri-orientare la loro stessa esistenza. Questo discorso sul senso non vuole affatto dire che la chiesa ne sia la depositaria o ne abbia il monopolio, anzi! La fede non è una corazza fatta di certezze, non è un sistema di sicurezze e neppure una bacchetta magica: “Il credente esercita la sua fede sull’oceano del nulla, della tentazione e del dubbio: questo oceano dell’incertezza è il solo luogo in cui egli possa esercitare la fede” (Joseph Ratzinger).


La fede è, costitutivamente, anche rischio. Quando parlo della fede come cammino del senso intendo dire che la fede si apre alle dimensioni umanissime del senso stesso e cerca di illuminarlo col suo riferimento fondante e basilare a Gesù Cristo. Dicendo senso intendo significato, cioè ricerca dei motivi, del “perché” delle cose, che porta a comprendere il reale; ma senso dice anche orientamento, direzione, cioè ricerca del come camminare e del fine verso cui dirigersi; implica dunque il livello dell’etica (“come?), ma anche del destino della vita, dell’orientamento dell’intera esistenza, dei fini ultimi; infine senso ha a che fare con il gusto, dunque con i sensi e rinvia alla dimensione estetica, della bellezza, essenziale per far respirare l’uomo a piani polmoni e umanizzando pienamente. Ecco, la fede assume queste domande (“perché?”, “come?”, “verso dove?”) e in Gesù Cristo le orienta: egli infatti è “via, verità e vita” (Giovanni 14,6) (Luciano Manicardi, {link_prodotto:id=610}, Qiqajon , Bose 2005, pp. 18-21).