Lo “spirito di preghiera robusto” (RBo 37) di cui parla la nostra Regola nasce anzitutto dall’assiduo ascolto della Parola di Dio che può corroborare una vita che, se affidata semplicemente alle nostre forze, non può che venir meno. Ora, solo se la centralità della Parola di Dio contenuta nelle Scritture, e massimamente nel Vangelo, viene concretamente vissuta tanto nella lectio divina personale come comunitaria, nell’ufficio come in ogni liturgia, la nostra vocazione monastica ha basi salde.
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Il Vangelo ci pone di fronte due magisteri. Da un lato quello del gesto della vedova che getta nel tesoro tutto ciò che ha per vivere: magistero di gratuità, di donazione, di purezza e semplicità, di nascondimento. D’altro lato il magistero dello sguardo di Gesù che smaschera l’ipocrisia degli uomini religiosi, dei loro vizi e dei loro vezzi.
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È tutta la persona a essere chiamata ad assumere in piena libertà il servizio all’altro. Il che significa che il servizio non lo si fa lamentandosi, che ad esso non ci si sottrae, ma che lo si fa nella gioia, la gioia di chi sa che sta cercando di amare un’altra persona, sta spendendosi per un altro, sta seguendo il Signore venuto per dare la vita per molti. Servire esige una grande attenzione agli altri.
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Esiste una pratica, vitale nella chiesa e in ogni comunità monastica: la collegialità. Si tratta di una corresponsabilità che nella vita monastica si manifesta nei momenti sinodali per eccellenza come i consigli, ma che ha il suo luogo autentico nella vita quotidiana, trova la sua cartina di tornasole nelle relazioni fraterne. Perché anche le istituzioni sinodali sono a servizio della vita, della reale vita relazionale fraterna e comunionale che è il cuore di ogni comunità.
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