Lettera agli amici - numero 6
Pasqua 1976
Questa lettera, già pronta per la Pasqua 1976, viene invece spedita a Pentecoste, «perché volevamo meditare più a lungo sugli eventi che si sono creati nella comunità cristiana». Quali eventi? Ancora una volta si tratta dell’intreccio tra la situazione politica italiana e le prese di posizione dell’autorità ecclesiastica in merito all’unità politica dei cattolici. Cerchiamo di sintetizzare brevemente i dati storici essenziali della questione. In vista delle elezioni politiche del 20-21 giugno 1976 alcuni autorevoli e ben noti intellettuali cattolici (tra i quali Raniero La Valle, Mario Gozzini, Piero Pratesi) maturano la scelta di presentarsi come candidati indipendenti nelle liste del Partito Comunista. La loro decisione, resa pubblica all’inizio di maggio, suscita però la dolorosa reazione dello stesso Paolo VI, che nell’udienza generale del 12 maggio giunge a qualificarla addirittura come «tradimento»: «Talvolta – afferma il pontefice – gli amici più cari, i colleghi più fidati, i confratelli della medesima mensa, i sacerdoti, i religiosi, sono proprio quelli che si sono ritorti contro di noi! La contestazione è divenuta abitudine, l’infedeltà quasi affermazione di libertà». Di lì a qualche giorno anche la presidenza della Conferenza episcopale italiana si pronuncia con una nota, nella quale invita a «evitare scelte che sono in aperto contrasto con il messaggio cristiano e possono mortificare la comunione ecclesiale». Le due prese di posizione sollevano all’interno degli ambienti cattolici un vivace e talora aspro dibattito, nel quale si inserisce una lettera aperta sottoscritta da numerose personalità cattoliche, responsabili di associazioni ecclesiali, sindacalisti cristiani, in cui si esprime stima e solidarietà ai candidati, «indipendentemente dal merito della vostra scelta politica», «ravvisando nella vostra decisione uno dei possibili e legittimi modi di realizzare la presenza dei cristiani credenti nella vita pubblica del nostro Paese». E’ su questo sfondo che si può comprendere la riflessione svolta da Enzo Bianchi nella lettera di Pentecoste.
Essa prende le mosse dall’esperienza profetica di Geremia, «testimone nei suoi giorni della caduta di un regno, della dissoluzione di una massiccia ma anche insincera cultura religiosa», che confida nel tempio, nel potere dell’istituzione, nella falsa garanzia della circoncisione. Quindi interpreta le nuove divisioni sorte tra gli ambienti cattolici come «un prezzo pagato per la purificazione di tutta la chiesa» e in questa prospettiva si rivolge in modo pacato prima ai vescovi e poi ai credenti impegnati in politica. Ai primi dichiara di condividere «la preoccupazione per le scelte politiche dei cattolici, ma questa preoccupazione è sproporzionata rispetto a quella che molti mostrano nei confronti dei veri fondamenti dell’unità ecclesiale, cioè l’annuncio della Parola e l’Eucaristia». Perciò si chiede perché lo zelo mostrato nei confronti di un problema politico non sia visibile con la stessa intensità nei confronti di molte situazioni ecclesiali che lo richiederebbero, a partire dalla predicazione della Parola fino alle modalità con cui in molti casi si svolgono le celebrazioni eucaristiche. Infine si domanda quale sia l’ideologia più pericolosa che si è fatta strada in quegli anni e la individua «nell’ideologia dominante del neocapitalismo avanzato», con il suo consumismo, edonismo, pansessualismo e la sua «pretesa di libertà velleitarie»: questo è il pericolo reale che minaccia «non solo l’identità cristiana ma lo stesso annuncio dell’Evangelo».
Ai credenti impegnati in politica, «ai nostri fratelli che operano nel partito con pretesa di essere cristiano come a quelli che fanno la scelta socialista», la lettera ricorda che «l’Evangelo ispira ma non determina le nostre scelte politiche», perché la realizzazione storica appartiene all’uomo di ogni tempo e di ogni cultura senza che esistano sistemi o modelli ricavabili dal Vangelo come universalmente validi. Perciò nel campo politico tutto è affidato al discernimento e alla responsabilità dei cristiani, che possono tradursi in «un pluralismo dinanzi al quale si esige il rispetto per le scelte di ciascuno». Tuttavia, conclude la lettera, se esiste «un criterio discriminante oltre quello della fede per mantenere la nostra identità cristiana», questo criterio è «la scelta dello stare con i poveri, con gli oppressi a livello personale e collettivo», perché ciò significa «metterci in continuità con la scelta preferenziale operata da Gesù e continuare così la sua opera».
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Cari amici, ospiti, e voi che ci seguite da lontano,
alla vigilia della Pentecoste, mentre si fa più profonda ed intensa la nostra e vostra invocazione dello Spirito santo su tutta la chiesa, vogliamo con queste parole ridestare la comunione con voi, partecipandovi ciò che ci brucia nel cuore in questo momento così difficile e carico di tensioni per la situazione politica ed ecclesiale italiana.
La nostra vita continua tenacemente ad essere vita di credenti e di monaci non appartati «in isole felici» vivendo del nostro lavoro come voi, in fabbrica, in ospedale, nella scuola, e immergendoci quotidianamente nelle differenti situazioni mondane. La nostra comunità, porzione di mondo radunato dalla Parola di Dio intorno al Cristo unico Signore, ministero specifico di preghiera e di accoglienza all'interno della chiesa, cerca di restare come il gruppo dei discepoli del Signore presente nel mondo senza essere del mondo (Gv 17,16) e per questo partecipa senza privilegi e senza garanzie al cammino degli uomini credenti e non credenti, condividendone le speranze e le lotte, i buoni e i cattivi momenti storici.
Non possiamo perciò in questo momento sentirci estranei e tacere riguardo alla situazione dell'hic et nunc, non possiamo scrivervi senza esprimere un giudizio su quest'ora, non possiamo inviarvi una pia meditazione spiritualistica; questa lettera era pronta per la Pasqua, ma abbiamo ritardato a scriverla perché volevamo meditare più a lungo sugli eventi che si sono creati nella comunità cristiana per non consegnarvi impressioni momentanee e spontaneistiche e soprattutto perché volevamo ascoltare la Parola di Dio lasciando che essa emergesse quale giudizio di Dio attualizzato senza forzature o facili usufruizioni.
Abbiamo soprattutto ascoltato la profezia di Geremia, questo credente che è stato testimone nei suoi giorni della caduta di un regno, della dissoluzione di una massiccia ma anche insincera cultura religiosa. Geremia seguiva di qualche anno un tentativo di riforma della sua chiesa operato da Giosia e proprio ispirandosi anche ad esso chiedeva un vero ritorno al Signore e alla sua parola: profetizzò con dolore e sofferenza alla gente, ai pastori e ai capi, a tutto quel popolo di credenti che amava come carne della sua carne e di cui si sentiva parte viva ma non fu ascoltato e fu giudicato un contestatore. Eppure il suo messaggio veniva da Dio e chiedeva alla chiesa di non confidare più nel tempio, nel potere dell'istituzione, nella falsa garanzia della circoncisione e degli altri segni sacramentali, in una cultura che era dissolta, ma di rendere prassi la giustizia e il diritto proclamati nella liturgia e di fare opera di liberazione del povero, dell'oppresso e del debole (cfr. Ger 7,4; 9,24; 22,16).
Nei suoi giorni dovette ricordare di fronte all'espandersi dei Caldei, un popolo non credente in IHWH, che anche in mezzo a loro e collaborando con loro era possibile vivere la fede, e invitò a pregare per loro (Ger 29,4-7). Anche se l'Israelità finiva, non finiva però la fede se i credenti fossero restati obbedienti alla Parola; anzi la chiesa ne sarebbe uscita più purificata e più fedele e l'identità dei credenti più trasparente e significativa, aprendosi così le possibilità della missione universale. Ma il suo messaggio non fu capito e Geremia fu giudicato un collaborazionista, un traditore, uno che voleva stare dalla parte vincente e gli fu detto: «Tu passi ai Caldei» (Ger 37,13). Geremia non passava ai Caldei, non era un profeta di sventura, non si arrendeva al potere dominante ma indicava come via di resistenza più efficace e più vera il ritorno al Signore nella fede e nella prassi. Egli conservava la speranza e anche in quel momento così difficile per Israele comprò un campo per dire che c'era un futuro preparato da Dio per tutto il popolo, per dire che nella storia, letta come storia di salvezza, quando la chiesa perde molte sicurezze, molti privilegi, le è assicurata la vittoria dal Signore se c'è conversione, se c'è ascolto della Parola, se c'è sottomissione al piano di Dio. Fu poi arrestato, gettato in una cisterna, morì fuori della sua terra ma la sua profezia fino a noi è parola di Dio, lampada per i nostri passi personali e collettivi nella storia.
Questa vicenda di un credente, e lo affermiamo con timidezza e senza applicazioni comode, forse può dire ancora qualcosa anche nel nostro "oggi" almeno come messaggio di consolazione e di speranza.
Cari amici, noi vorremmo dirvi che certamente siamo preoccupati della situazione che si è venuta a creare negli ultimi mesi all'interno della chiesa italiana ma che cogliamo per essa anche molti segni positivi. Ciò che oggi ci turba, domani si manifesterà come un prezzo pagato per la purificazione di tutta la chiesa, come un affacciarsi più chiaro nella storia della croce, il segno del figlio dell'uomo, stampato nel corpo della comunità del Signore. Certamente a dieci anni dal concilio, alla fine dell'anno santo, l'anno della riconciliazione e della remissione reciproca delle colpe, non ci attendevamo il manifestarsi della mortificazione della comunione e l'accentuarsi della divisione tra credenti e non credenti. Nella precedente lettera pregavamo e intercedevamo le differenti componenti della chiesa di compiere reali passi di riconciliazione sicuri che in Cristo avvicinandoci tutti di più a lui questo incontro comunionale era fattibile: è vero che ci sono stati appelli a questa pace ecclesiale ma cosa si è fatto perché ci fosse non ritorno di qualche fratello verso l'altro ma ritorno di entrambi, anzi cammino insieme verso una maggiore fedeltà all’Evangelo?
Dobbiamo invece constatare che le divisioni esistenti alla vigilia dell'anno santo sono rimaste, anzi oggi sono state accentuate ritornando a tempi che lo spirito di Giovanni papa e profeta e del Concilio avevano voluto dimenticare e sorpassare. Perché questa sconfessione dello spirito di riconciliazione e di incontro evangelico con ogni uomo, perché questo ritorno alla crociata da parte di quelli che nella chiesa hanno il ministero di mettere in evidenza ciò che unisce e non ciò che divide? Perché una parte dei vescovi italiani vuole creare una divisione ecclesiale su un terreno che non è quello della fede? Noi condividiamo coi vescovi la preoccupazione per le scelte politiche dei cattolici, ma questa preoccupazione è sproporzionata rispetto a quella che molti mostrano nei confronti dei veri fondamenti dell'unità ecclesiale cioè l'annuncio della Parola e l'Eucarestia. Se la chiesa cresce e vive innanzitutto su queste due realtà e se da esse trae il criterio della propria fedeltà al Signore, perché lo zelo mostrato nei confronti di un problema politico non è visibile neppure con la stessa intensità nei confronti di molte situazioni ecclesiali che lo richiederebbero? Diciamo questo soprattutto nei confronti della lettura, della preghiera, della predicazione della Parola di Dio e nei confronti della celebrazione eucaristica. Si celebrano eucarestie con molta fretta, si riduce la predicazione a pochi minuti incapaci di far crescere una identità cristiana e in cui magari non si predica l'Evangelo, si raffredda ogni giorno di più la carità, l'agape nelle comunità cristiane e su tutto questo che è costitutivo della chiesa si pazienta o si tace: e poi invece su un problema politico su cui è possibile soltanto un giudizio storico-pratico si finisce per porre in questione l'appartenenza al Signore e la comunione con la chiesa. Questo per noi è gravissimo ed è un sintomo di come per molti non ci sia ancora coscienza che la chiesa è fondata sulla fede professata da Pietro e che pertanto essa non può essere ridotta a "società cristiana", come la fede non può essere ridotta ad ideologia.
È in nome della signoria di Cristo su ogni ideologia, ormai messa in crisi definitivamente dalla morte del Signore che accettiamo l'invito dei vescovi a considerare la gravità dell'ora, che vogliamo interpretare la loro preoccupazione come urgenza richiesta ai cristiani di testimoniare e tenere viva la propria identità nel mondo, ma non possiamo accettare di porre sul piano della fede le opzioni politiche operate dai cattolici. Nessun falso irenismo di fronte all'attuale situazione: l'Avversario opera sulla scena del mondo oggi come ieri e va individuato certamente nell'ideologia dominante del neocapitalismo avanzato. È qui che la chiesa deve compiere senza crociate ma con fermezza un urto: con questo insieme di idee che tendono a far considerare normale ciò che è contro l'uomo, a dichiarare legittimo e per il servizio comune ciò che in realtà è asservimento dell'uomo e a servizio di pochi privilegiati. Il consumismo, l'edonismo. il pansessualismo sono i tipici elementi di questa ideologia dominante. Se c'è un pericolo reale in questo momento per noi in Italia, questo è costituito dall'ideologia radicale che sotto la pretesa di libertà velleitarie si sta facendo dominante tramite ogni mezzo di comunicazione sociale: diventa l'aria che tutti sono costretti a respirare.
È l'ideologia del « tutto è nostro ": il corpo, la pancia, il matrimonio ... ciò è davvero quanto vi è di più anticristiano. Questo è il pericolo più grave di fronte al quale noi cristiani dobbiamo stare molto vigilanti perché essa tende a infiltrarsi in mezzo a noi sotto il segno di libertà che sono false in Cristo ormai unica nostra realtà (cfr. Col 2,17) «Tutto è vostro» ricorda Paolo « ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio ". Nulla noi possiamo rivendicare come proprietà privata: dal corpo, alla pancia, al diritto alla vita, a tutte le altre cose, perché noi non ci apparteniamo più. Noi siamo per il Signore come « il Signore è per il nostro corpo" (cfr. 1 Co 3,21 e 7,19). Su questo terreno sono veramente minacciati non solo l'identità cristiana ma lo stesso annuncio dell’Evangelo.
Per quanto riguarda la scelta politica dei cattolici noi ci sentiamo di dire come parola di fede ai nostri fratelli che operano nel partito con pretesa di essere cristiano come a quelli che fanno la scelta socialista, che l'identità del cristiano sta nel confessare Cristo come l'unico Salvatore da cui si dipende totalmente ed esclusivamente. Questo non significa togliere efficacia storica alla fede ma ribadisce che la fede è radicalmente "altra" rispetto ai progetti politici, anche se questi non sono indifferenti alla fede. « Non avrai altro Dio all'infuori di me e non farti immagine di Dio» cioè il primo comandamento significa anche non identificare il progetto politico con il piano di Dio consacrandolo di per se stesso come storia di salvezza. Ogni scelta politica che venga attribuita a Dio è una negazione e una disobbedienza del primo comandamento. Noi in questi ultimi anni assistiamo all' incontro tra cristiani e marxisti perché ci si trova uniti in scelte storiche per la liberazione degli oppressi e degli sfruttati. Ma il Vangelo ci spinge verso queste scelte con indicazioni profetiche e dunque pre-politiche mentre i marxismi non si situano su questo terreno ma in quello ulteriore e storico dell' analisi della società e della prassi di liberazione. Il Vangelo resta fede, il marxismo invece una ideologia che, come ogni cosa che viene dall'uomo, possiamo vagliare, criticare e usare per il nostro impegno nella storia. Tra fede ed ateismo non ci può essere che lotta, la lotta tra luce e tenebre, ma nella misura in cui i marxisti come gli altri uomini compiono scelte politiche che sono una concretizzazione umana e storica del messaggio profetico ed evangelico, la collaborazione, l'essere insieme non è solo legittimo ma doveroso. Infatti l'Evangelo ispira ma non determina le nostre scelte politiche, perché la realizzazione storica appartiene all'uomo di ogni tempo e di ogni cultura senza che esistano sistemi o modelli politici ricavabili dal Vangelo come universalmente validi: tutto qui è affidato alle nostre responsabilità. In questo senso è quindi certamente compito dei vescovi chiedere e imporre all’interno della chiesa un'unità non solo nella fede ma anche nella proposizione delle esigenze sociali dell'Evangelo in modo profetico-prepolitico, ,ma la traduzione propriamente politica di queste esigenze va vagliata all’interno delle precise situazioni storiche, anche con i non credenti, e può assumere un pluralismo dinanzi al quale si esige il rispetto per le scelte di ciascuno: altrimenti si depaupera la profezia, e si impone per autorità dI fede una scelta storico-pratica.
Nessun qualunquismo e nessun depotenziamento della fede e delle sue esigenze ma anche nessuna pretesa di unità là dove ci sono in gioco solo opzioni politiche che devono restare pluralistiche.
Le recenti dichiarazioni dell'autorità ecclesiastica emerse senza un dialogo approfondito tra gli stessi vescovi e tra loro e le comunità loro affidate ci paiono non tener conto del pluralismo già in atto fin dai tempi del Concilio e rischiano dI presentare la fede non primariamente come annuncio di salvezza ma come progetto politico di potere: esse rischiano di mostrare una chiesa non comunione di credenti ma aggregazione storica di interessi storici di atteggiamenti politici particolari, una chiesa arroccata in posizione dI isolamento difensivo.
Noi cristiani certamente dobbiamo restare vigilanti, non idolatrando ideologie o partiti ma usando questi strumenti in modo critico per l'emancipazione degli oppressi, la promozione umana, l'opera di pace; dobbiamo recuperare un momento specifico di unità profetico ma pre-politico nel nostro incontrarci come fratelli nelle assemblee ecclesiali e nella predicazione: questo non è certamente facile ma è l'unica strada per fare scelte nella storia che non siano integralistiche o per non ricadere in una situazione di evasione o di fuga escatologica. Dobbiamo soprattutto far risaltare un criterio discriminante oltre quello della fede per mantenere la nostra identità cristiana: quello della scelta dello stare con i poveri, con gli oppressi a livello personale e collettivo: questo significa metterci in continuità con la scelta preferenziale operata da Gesù (cfr. Lc 4,16-21) e continuare così la sua opera.
Il cristiano che agirà così, pagherà certamente questo servizio con la croce, che è l’unica via per demitizzare ogni signoria e potere, e scoprirà che la componibilità tra la sua fede e il potere non è facile: perché la fede é, giudizio di Dio contro ogni potere. Concludiamo questa nostra lettera con l’unico appello urgente possibile e vero per tutti i cristiani: facciamo unità intorno alla Parola di Dio e all'Eucarestia, in un regime di carità tra pastori e fedeli, in una comunione non certo docetica ma seria e reale e traduciamo nella storia, pur nel pluralismo, le esigenze del Vangelo: perché beati sono i poveri, gli affamati e gli assetati di giustizia, beati i perseguitati, beati i miti; andiamo nel mondo senza progetti di presa di potere ma come agnelli poveri testimoni di un Evangelo che dev'essere annunciato come buona novella a tuttI gli uomini e non come ideologia; servitori di pace e di giustizia, non trionfalistici dominatori, perché « se avessimo fede solo in questo mondo allora saremmo i più sciocchi e i più miserabili di tutti!» (1 Co 15,19).
Salutandovi tutti vi ricordiamo dinanzi al Signore.
i fratelli e le sorelle di Bose