The spiritual struggle: biblical approaches
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b) Tre passi scritturistici fondamentali
Il racconto delle origini presente nella Genesi testimonia l’importanza che proprio la paura della morte riveste nel processo di tentazione e caduta dell’uomo e della donna. Dopo averlo creato a sua immagine e a sua somiglianza (cf. Gen 1,26-27), Dio aveva detto all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui ne mangerai, certamente morirai» (Gen 2,16-17). Questo comando, volto a insegnare alla creatura che la sua libertà è tale all’interno di un limite, innesta invece in lei il meccanismo della frustrazione: l’essere privati di una sola possibilità equivale ad essere privati di tutto. È infatti proprio su questo limite, garanzia e alveo della libertà umana, che fa leva la tentazione del «serpente antico» (Ap 12,9; 20,2), di Satana: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen 3,4-5). E così dalla paura che la prospettiva della morte ha immesso nella donna (cf. Gen 3,3: «altrimenti morirete»), passando attraverso il dialogo interiore con la suggestione, si giunge all’elaborazione di una contro-verità, che si accompagna a una nuova visione della realtà: «Allora la donna vide che l’albero era
buono da mangiare,
appetitoso agli occhi
e desiderabile per acquistare sapienza / potere» (Gen 3,6).
L’ansia di immortalità, onnipotenza e onniscienza, accresciuta dalla frustrazione per l’incapacità di accettare il proprio limite creaturale, spinge a considerare il mondo esterno come una preda di cui impossessarsi; a questo punto il peccato è già consumato, e il gesto della mano che carpisce il frutto non è che l’inevitabile manifestazione esterna di una realtà che abita il cuore. E così l’uomo e la donna acconsentono alla tentazione di contraddire la comunione voluta da Dio e cadono nella disobbedienza al loro Creatore…
Ad Adamo si contrappone il nuovo Adamo (cf. Rm 5,14), Gesù di Nazaret, nato da donna e da Spirito santo, anche lui tentato come ogni uomo che viene nel mondo, ma «senza commettere peccato» (cf. Eb 4,15): Gesù è l’antitipo dell’Adamo genesiaco, perché là dove Adamo è caduto, Gesù ha lottato e ha vinto. Ora, se Marco ci presenta Gesù che all’inizio del suo ministero pubblico è tentato da Satana per quaranta giorni nel deserto (cf. Mc 1,12-13), Matteo e Luca, meditando su questo evento, sono giunti a esemplificare in numero di tre le tentazioni subite da Gesù (cf. Lc 4,1-13; Mt 4,1-11):
mutare le pietre in pane,
possedere i regni della terra,
gettarsi dall’alto del tempio per essere miracolosamente salvato.
Siamo di fronte a una parafrasi della narrazione genesiaca, che presenta tre modalità di attuazione della vocazione nella via della philautía. A tale proposito, è significativo che nell’inno cristologico della Lettera ai Filippesi (Fil 2,6-11) Paolo rilegga la vicenda di Gesù proprio come rigetto della logica auto-centrata di Adamo: a colui che ha voluto farsi «come Dio» (Gen 3,5) risponde il comportamento di Cristo che, «essendo in forma di Dio, non stimò un possesso geloso l’essere come Dio, ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo e diventando partecipe dell’umanità» (Fil 2,6-7). All’innalzamento di sé risponde l’abbassamento, la kénosis, che giunge fino all’umiliazione e alla vergogna della croce (cf. Fil 2,8). Se Adamo ha considerato l’essere come Dio una preda da conquistare e ha cercato di soddisfare la sua brama stendendo la mano verso l’albero per cogliere la qualità divina e renderla suo patrimonio esclusivo, Gesù Cristo ha invece percorso il cammino opposto: ha steso le sue mani sul legno della croce per offrire la sua vita fino alla morte, nella libertà e per amore di Dio e degli uomini.
Posto di fronte alle lusinghe di Satana, Gesù reagisce con un atteggiamento di radicale obbedienza a Dio e alla propria creaturalità: egli custodisce austeramente e con vigore la propria umanità, salvaguardando in tal modo anche l’immagine di Dio rivelata dalle Scritture, senza sostituirvi un’immagine «manufatta». Inoltre, l’arma con cui Gesù combatte la sua lotta e perviene alla vittoria è la piena sottomissione alla Parola di Dio, come mostra il fatto che egli risponde all’Avversario solo con parole della Scrittura (cf. Mt 4,4.7.10; Lc 4,4.8.12): «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Dt 8,3); «Solo al Signore tuo Dio ti prostrerai, lui solo adorerai» (Dt 6,13); «Non tenterai il Signore Dio tuo» (Dt 6,16). Una Parola che Gesù assume e vive nel suo significato profondo, non nella sua semplice lettera, come invece fa Satana (cf. Mt 4,6; Lc 4,10-11).
E la lotta di Cristo non può che essere la lotta dei suoi discepoli, i cristiani. Lo mostra bene l’apostolo Giovanni, quando rivolge alla sua comunità un’esortazione costruita mediante un’ulteriore parafrasi della tentazione genesiaca: «Non amate il mondo – ossia la mondanità –, né ciò che è mondano. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui. Perché tutto ciò che è mondano,
la voracità della carne
la pretesa degli occhi
e l’arroganza della vita
non viene dal Padre, ma dal mondo» (1Gv 2,15-16).
Con queste parole egli fornisce un icastico ritratto della mondanità, così da spronare i cristiani a verificare la qualità della loro lotta anti-idolatrica. E lo fa riferendosi, ancora una volta, a tre ambiti.
La «voracità della carne» (epithymía tês sarkós) indica la concupiscenza quale appare nei comportamenti di chi è teso unicamente a soddisfare il proprio egoismo, e così trasforma ogni desiderio in bisogno impellente; essa riassume le tendenze malvagie che spingono l’uomo ad appartenere a quel mondo di tenebra che si oppone al piano di Dio (cf. 1Gv 1,5-6; 2,8-9.11). La «pretesa degli occhi» (epithymía tôn ophthalmôn) si riferisce alla «suggestione seducente» (Sal 36,2) che cattura gli occhi dell’uomo e lo spinge a orientare tutto ciò che vede alla sua brama di possesso. L’accumulo di beni diventa un fine in sé, in vista del quale tutto è giustificato, e la logica che presiede a tale insaziabile mania è quella mortifera del «tutto e subito». L’«arroganza della vita» (alazoneía toû bíou), infine, è l’atteggiamento di chi si considera l’unico metro della realtà, e pretende che il proprio «io» sia affermato sopra gli altri; è la ricerca del potere, della propria gloria ad ogni costo. In sintesi, è l’esatto contrario della sottomissione reciproca richiesta da Gesù ai suoi discepoli: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti» (Mc 9,35).
Ma il cristiano può affrontare queste tre tentazioni fondamentali nella certezza che la propria lotta si innesta in quella di Cristo, secondo le penetranti parole di Agostino: «Ti preoccupi perché Cristo sia stato tentato, e non consideri che egli ha vinto? In lui fosti tu ad essere tentato, in lui tu riporti la vittoria» (Esposizione sui Salmi 60,3).