La porta stretta della verità
2 novembre 2025
Memoria dei fedeli defunti
Giovanni 6,37-40 (Gb 19,1.23-27)
di Luciano Manicardi
In quel tempo Gesù disse alla folla: 37«Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, 38perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. 39E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell'ultimo giorno. 40Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno».
La XXXI domenica del tempo Ordinario cade quest’anno il 2 novembre, memoria di tutti i defunti. È dunque nel giorno che è il sacramento ebdomadario della resurrezione che noi facciamo memoria dei morti. E così rinnoviamo la confessione di fede nella resurrezione e confermiamo la fiducia nella promessa di Cristo: “Chi crede nel Figlio … io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,40). Tutte e tre le letture che il Lezionario presenta illuminano dunque l’esperienza della morte. Di fronte al limite radicale della morte si incontrano l’anelito umano, il desiderio umano di una pienezza di vita e di amore, di una ulteriorità rispetto a questa vita (si veda l’invocazione di Giobbe nella prima lettura: Gb 19,1.23-27) e il dono di Dio mosso dal suo amore per l’uomo, dono che si manifesta nel Cristo che muore per i peccatori (così Paolo nella seconda lettura: Rm 5,5-11). I due movimenti – rispettivamente di ascesa e di discesa – trovano la loro sintesi nell’uomo Gesù che è disceso dal cielo non per fare la sua volontà, ma la volontà del Padre che l’ha inviato (il vangelo: Gv 6,37-40). Dunque, questa domenicale memoria dei morti ci porta ad ascoltare la Parola di Dio che anzitutto presenta la morte di Gesù come evento che ha narrato l’amore di Dio (Rm 5,5-11). E la morte di Gesù, compimento di una vita segnata dall’amore, diviene apertura di speranza e di vita per i credenti in lui: la morte è trasfigurata quando diviene un atto di amore. L’amore di Dio e di Gesù è all’origine della resurrezione, atto di amore. E la resurrezione è la promessa che Gesù fa nei confronti degli esseri umani, di coloro che Dio gli ha dato e che egli non perderà ma risusciterà nell’ultimo giorno. Si manifesta così la realizzazione dell’anelito e della speranza di Giobbe che proclama la sua fiducia nel suo Redentore e in una comunione con il suo Signore dopo la morte.
Noi non abbiamo parole che siano all’altezza di un evento così grave come la morte. Ma il ricordo dei morti suscita in noi il silenzio, linguaggio che ha in sé un profondo potere di concentrazione, di riduzione all’essenziale, di verità. Al ricordo dei morti si addice il sostare del silenzio, non il vagare delle parole, che più che mai in questa occasione rischiano di mostrarsi vane, tali da doverne rendere conto nel giorno del giudizio. In questo silenzio, muti come sono muti i morti, diviene possibile ascoltare quella parola originaria che per gli umani è la morte, diviene possibile ascoltare la parola insita nella memoria dei volti e dei nomi di quanti abbiamo amato, di quanti ci hanno amato e ora non ci sono più, diviene possibile ascoltare quella parola fondante che è il Cristo, il Verbo fatto carne, la Parola di Dio che anche i morti ascolteranno (cf, Gv 5,25). La memoria dei morti ci fa rientrare in noi stessi e ci convince che la morte è la porta stretta della verità. La memoria di “tutti” i morti passa poi forzatamente, attraverso la memoria degli “alcuni” che abbiamo amato e conosciuto e che, morendo, hanno fatto morire anche qualcosa di noi. E in tale memoria essi ci indicano la via della vita, l’essenziale del vivere: l’amore. E così noi assistiamo a questo umanissimo e dolente miracolo per cui coloro che morendo, attraverso la loro stessa morte, ci hanno fatto fare l’esperienza della morte possibile a noi vivi, costoro, nel nostro silenzioso ricordo, ritrovano parola in noi e ci guidano al centro della nostra esistenza, ci insegnano a vivere, cioè ad amare quei volti e quei nomi che ci stanno accanto, che hanno accordato la loro esistenza alla nostra. Ci insegnano ad amare il frammento in cui esperiamo il tutto. Se Paolo chiede ai cristiani di Tessalonica che, di fronte alla morte, non venga meno la loro speranza (1Ts 5,13), noi possiamo aggiungere che, di fronte alla morte, non venga meno e anzi si accresca il nostro amore per i viventi, per coloro che sono legati a noi dal sottile filo della vita, sempre pronto a essere reciso. E possiamo aggiungere che, di fronte alla morte, non venga meno e anzi si radichi in noi e si accresca la fede nelle parole di Cristo: “Io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,40); “Io sono la resurrezione e la vita, chi crede in me anche se muore vivrà” (Gv 11,25). È attraverso le esperienze delle perdite, dei distacchi, delle separazioni, che scopriamo la preziosità dell’altro per noi, l’essenzialità dell’amore come unico necessario, come unica parola capace di dare senso al vivere e al morire, ed è attraverso la perdita radicale, la perdita della vita, che noi potremo conoscere e vedere faccia a faccia Colui che non perde nulla e nessuno di quanti il Padre gli ha affidato, colui il cui amore è più forte della morte. “Questa, infatti”, dice Gesù, “è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno” (Gv 6,39). Una poesia di Rilke dice: “Concedi, Signore, a ciascuno la sua morte, il morire che fiorì da quella vita, in cui ciascuno trovava amore, senso, sofferenza”. Per molti questa preghiera resta inesaudita. Ma l’essenziale è che anche nella discontinuità fra modo della morte e modo della vita, fra modalità della morte e vita vissuta, quest’ultima sia stata traversata dall’amore, abbia conosciuto qualcosa dell’amore, abbia obbedito all’amore. Allora si delineerà la continuità veramente importante, davvero essenziale fra l’amore di Dio che ci ha creati, il nostro amore con cui abbiamo amato gli altri e l’amore di Dio che in Cristo ci dona la vita eterna. Se dunque l’amore è la forza della resurrezione, la fede è il luogo della resurrezione. Certo, la morte di chi amiamo, la prospettiva della nostra morte ci sprofondano nella paura e nell’angoscia. “Contro tutte le altre cose è possibile procurarsi una sicurezza, ma a causa della morte, noi, gli uomini, abitiamo una città senza mura”. La morte, ricordano queste parole di Epicuro, pone un sigillo di precarietà e di insicurezza sulla vita umana. E l’insicurezza produce la paura, e la paura schiavizza. Gli uomini, ricorda la lettera agli Ebrei, sono schiavi tutta la vita a causa della paura della morte (cf. Eb 2,15). E sentendoci città senza mura, noi cerchiamo di costruirci protezioni e difese che, mentre vogliono preservarci dalla morte in realtà ci allontanano dalla vita. E quanta parte della nostra esistenza passa in questo inganno! Mentre facciamo memoria in Cristo di coloro che sono morti, le parole di Gesù nel vangelo concentrano la nostra attenzione non su atteggiamenti difensivi e di paura, ma sulla fede, sull’affidarsi al Signore, sul credere alla sua parola. “Chi crede nel Figlio ha la vita eterna” (Gv 6,40.47); “Chi ascolta la mia parola è passato dalla morte alla vita” (Gv 5,24). Sì, la fede in Cristo è esperienza di resurrezione. Quando tutta la nostra vita, la nostra persona, ma questo vale anche per una comunità e per la Chiesa tutta, si decide a un affidamento al Signore senza più riserve di sé, senza più nulla da difendere, senza più diffidenze e paure, senza mura e baluardi, senza bastioni e roccaforti, allora essa abita lo spazio della resurrezione. E allora conosce l’amore e la speranza, l’audacia e la libertà evangeliche, quelle che Gesù stesso ha vissuto. E Gesù ha vissuto la sua esistenza, cioè le sue relazioni con gli altri, sotto il segno del dono del Padre e del suo personale affidamento al Padre che è divenuto la sua consegna ai fratelli: gli altri sono ciò che il Padre gli ha dato e di cui lui assume la responsabilità fino in fondo. Affidandosi al Padre egli non respinge da sé chi viene a lui, non rigetta, non si difende dagli altri, ma accoglie. Vivendo il primato della fede nel Padre che l’ha mandato, Gesù vive non per fare la sua volontà, ma la volontà del Padre, che è volontà di vita piena per ogni uomo. Una vita così vissuta, una vita in cui uno smette di voler fare la propria volontà, ma cerca di fare quella del Signore, è una vita libera, una vita che integra la morte e la trasforma in amore, che è forza di resurrezione. Non vi è solo la paura della morte che ci porta a difenderci, ma anche e soprattutto la paura della vita, delle perdite e delle sofferenze che il vivere comporta, dei confronti impietosi con gli altri che ci conducono a chiuderci in noi e a vivere nel risentimento, dei timori che gli altri ci possano sottrarre qualcosa. Credere, aver fede in Gesù Cristo, significa fare dell’amore il luogo in cui la morte viene messa a servizio della vita, e anzitutto della vita degli altri. C’è una morte vitale che vivifica la nostra vita mortale.
Un gruppo umano, una famiglia, una comunità vive anche della memoria condivisa dei propri morti. Questi amati che non sono più fra noi chiedono di rendere sempre più armonici i rapporti tra le membra del corpo affinché sia l’agape la linfa vitale che percorre e unifica il corpo comunitario, affinché sia la fiducia il respiro di quel corpo, affinché sia la gratitudine l’alveo in cui esso vive. Allora potrà avvenire forse anche a noi di morire nella gratitudine e nella benedizione, dando sostanza e carne alla bella e antica immagine formulata dall’imperatore filosofo: “L’oliva matura cade benedicendo la terra che l’ha portata in sé e rendendo grazie all’albero che l’ha fatta crescere” (Marco Aurelio).