La preghiera del debole

Giovanni Frangi
Giovanni Frangi

19 ottobre 2025

XXIX domenica nell’anno 
Luca 18,1-8 (Es 17,8-13)
di Luciano Manicardi

In quel tempo, Gesù 1diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: 2«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. 3In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: «Fammi giustizia contro il mio avversario». 4Per un po' di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: «Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, 5dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi»». 6E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. 7E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? 8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».


La preghiera come lotta e intercessione (Es 17,8-13); la preghiera insistente e che non viene meno (Lc 18,1-8): questo il tema che unisce prima lettura e vangelo. La preghiera non come opera di forti, ma di deboli: Mosè viene aiutato a sostenere le sue braccia stese nella preghiera; nel vangelo è una povera vedova che si fa soggetto di una preghiera insistente. Deboli resi forti dalla fede e che perseverano nella preghiera. La perseveranza come elemento di verità della preghiera e la preghiera come autentificazione della fede sono altri elementi che arricchiscono l’insegnamento sulla preghiera contenuta nei testi biblici di questa domenica. Insegnamento che potrebbe suggerire ai pastori l’idea di un cammino di catechesi sulla preghiera come elemento fondamentale di formazione alla fede trasmettendo l’arte della vita spirituale.

Mosè con le mani tese verso l’alto nello sforzo dell’intercessione, aiutato da due uomini che sostengono le sue braccia che diventano sempre più pesanti con il passare del tempo, è una bella immagine della fatica della preghiera. La preghiera è opus, lavoro, e come ogni lavoro, è faticoso, per il corpo come per lo spirito. Ma quella immagine indica anche un aspetto della dimensione comunitaria della preghiera. La comunità cristiana non è solo il luogo in cui si è chiamati a intercedere, ma anche a porsi a servizio della preghiera dell’altro. Aiutarsi e incoraggiarsi nella fede e nella preghiera, è compito richiesto ai credenti nella comunità cristiana.

L’episodio narrato nel libro dell’Esodo si focalizza maggiormente sull’atteggiamento di Mosè che, ritto in piedi, teneva le mani alzate verso il cielo, che non sulla battaglia tra Israele e Amalek. La battaglia sembra fare da sfondo e proiettare su quelle mani tese verso l’alto l’immagine della lotta che viene così riferita alla preghiera. Sono le mani tese nell’atteggiamento della preghiera e della supplica che danno la vittoria, non le mani tese contro il nemico per colpire e uccidere. E che l’atteggiamento di Mosè sia da intendersi come preghiera appare già da un’antica aggiunta alla versione latina del libro di Giuditta in cui si dice che il sommo sacerdote Eliachim fece un giro in Israele mentre incombeva la minaccia portata dal generale nemico Oloferne e annunciò al popolo che digiunava e pregava: “Sappiate che il Signore esaudirà le vostre preghiere se persevererete nel digiuno e nella preghiera al cospetto del Signore. Ricordatevi di Mosè, servo del Signore: Amalek confidava nella sua forza, nella sua potenza, nel suo esercito, nei suoi scudi, nei suoi carri, nei suoi cavalieri, ed egli lo respinse non combattendo con la spada, ma offrendo preghiere sante. Altrettanto avverrà di tutti i nemici di Israele se persevererete nell’opera che avete iniziato” (Gdt 4,12-14). Il passo dell’Esodo mostra la fatica anche fisica che può arrivare a costare la preghiera. Il corpo partecipa alla preghiera, anzi, i Salmi – magistero di preghiera – sono “corpi in preghiera” e chiunque prega sa come il corpo si faccia sentire: le mani tese verso l’alto arrivano a pesare come se sostenessero macigni; le gambe a lungo inginocchiate arrivano a dolere; restare in piedi a lungo senza il conforto di una sedia affatica; vegliare nella notte appesantisce gli occhi che a fatica restano aperti e la testa ciondola per la stanchezza. Emerge la dimensione della preghiera come lotta: si tratta di lottare con se stessi, con la tentazione di lasciar perdere, di cedere al cinismo, di sottrarsi alla fatica e alla stanchezza, di non perseverare. Il testo di Esodo presenta le mani di Mosè che si stancano e devono essere sorrette da altri: nella tradizione ebraica il termine Refidím, nome del luogo dove si svolge la battaglia tra Israele e Amalek (Es 17,8), viene interpretato nel senso di luogo in cui “le mani diventano deboli”.

Le dimensioni di fatica e di lotta della preghiera dicono che essa non coincide con una preghiera naturale o con l’innato senso di autotrascendimento dell’uomo, così come non è uno spontaneo moto dell’animo o impulso interiore. La tradizione cristiana ha sempre affermato che la preghiera è ascesi, fatica, sforzo. Un detto dei padri del deserto recita: “I fratelli chiesero al padre Agatone: ‘Padre, nella vita spirituale quale virtù richiede maggiore fatica?’ Dice loro: ‘Perdonatemi, ma penso che non vi sia fatica così grande come pregare Dio. Infatti, quando l’uomo vuole pregare, i nemici cercano di impedirlo, ben sapendo che da nulla sono così ostacolati come dalla preghiera. Qualsiasi opera l’uomo intraprenda, se persevera in essa, possederà la quiete. La preghiera, invece, richiede lotta fino all’ultimo respiro’” (Agatone 9). L’immagine di Aronne e Cur che sorreggono le braccia di Mosè è una suggestiva evocazione della dimensione comunitaria e fraterna della preghiera, in cui si è chiamati non solo a pregare gli uni per gli altri, ma anche a sostenersi gli uni gli altri nella preghiera. La preghiera diventa allora una lotta condotta insieme. Nel Nuovo Testamento troviamo espressioni significative a questo proposito, come quando Paolo si rivolge ai cristiani di Roma esortandoli così: “Lottate con me nelle preghiere che rivolgete a Dio” (Rm 15,30), oppure quando scrive ai cristiani di Colossi dicendo loro che Epafra “non smette di lottare per voi nelle sue preghiere” (Col 4,12).

La parabola evangelica della donna che continuamente si rivolgeva a un giudice per chiedergli, com’era suo diritto, che le venisse fatta giustizia e si scontrava con l’indifferenza e la non volontà di ascoltarla da parte di quel giudice empio e disonesto, diviene immagine esemplare di una preghiera insistente, determinata, quotidiana, che non si arrende. L’evangelista introduce infatti la parabola affermando che Gesù la pronunciò per sottolineare “la necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai” (Lc 18,1). Dove il non stancarsi significa il non venir meno, il non tralasciare, il non scoraggiarsi. Come non si scoraggia la donna della parabola di fronte alla non volontà di esaudirla del giudice e continua a bussare a una porta che resta chiusa. Si tratta dunque di non desistere, di non perdersi d’animo anche di fronte a situazioni che non si sbloccano.

Il comportamento della donna mostra un altro aspetto particolare della fatica della preghiera: la sua quotidianità, e, in particolare, la sua ripetitività. La ripetitività è uno dei fattori che più possono rendere fastidiosa la preghiera e possono indurci ad abbandonarla, quasi senza accorgercene, nel lento passare del tempo. Ma la preghiera abbisogna di tempo ed è un dare tempo per il Signore. In questo emerge un altro aspetto che la rende faticosa e induce l’essere umano a rifuggirla: dare tempo è dare vita. E il tempo passato in preghiera è “sottratto” ad altro che si potrebbe fare e che può apparire più efficace. La preghiera va dunque sottomessa alla prova della durata. Non a caso nel testo lucano ricorre una gran quantità di espressioni temporali: “sempre” (v. 1), “per un po’ di tempo” (v. 4), “poi” (lett.: “dopo ciò”; v. 4); “continuamente” (lett.: “fino alla fine”; v. 5), “giorno e notte” (v. 7); “aspettare a lungo” (altre traduzioni di un testo difficile: “tarderà nei loro riguardi”; “temporeggia con loro”; v. 7); “prontamente” (v. 8). Ora, la ripetitività è una struttura antropologica in cui la preghiera è chiamata a calarsi divenendo così quotidiana, ordinaria. La ripetitività, il ritorno del medesimo, scandisce il ritmo delle giornate, dal mattino alla sera e dalla sera al mattino: le attività umane conoscono la ripetitività quotidiana. Un’immagine troppo alta, sublime, stra-ordinaria della preghiera, rischia di scontrarsi con i ritmi del quotidiano. Ma proprio la ripetitività è invito alla profondità e all’interiorità: sfuggire il meccanicismo, la monotonia, significa entrare in uno stato di vigilanza, di attenzione e lucidità interiore. E questa operazione è percepita come particolarmente ostica, come una difficoltà che può portare a far provare ripugnanza per la preghiera.

I vv. 6-8 del testo di Luca operano il passaggio dalla parabola alla realtà della vita di fede e della chiesa. Il testo si chiude con una domanda inquietante: “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8). Luca stabilisce un legame inscindibile tra fede e preghiera. Dopo aver mostrato il carattere impegnativo ed esigente della preghiera, egli si interroga circa il futuro della fede. Perché se viene meno la preghiera, anche la fede si estingue. La fede abbisogna di nutrimento e di convinzione. Ed è la preghiera che può alimentare la convinzione e darle continuità. L’esempio della donna che continua contro tutto e contro tutti a chiedere giustizia è una bella illustrazione di coraggio e di fede. Di fede che si declina come coraggio. L'ingiustizia protratta nel tempo avrebbe potuto sfiancarla e indurla a desistere essendo evidente la sua impotenza di fronte all’uomo potente. Ma grazie alla sua fede, lei trae forza dalla sua debolezza (cf. Eb 11,34) e proseguendo imperterrita la sua battaglia, riesce a spuntarla.