Un impossibile praticabile
7 settembre 2025
XXIII domenica nell’anno
Luca 14,25-33 (Sap 9,13-18)
di Luciano Manicardi
In quel tempo 25una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: 26«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
28Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30dicendo: «Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro». 31Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. 33Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.
La prima lettura (Sap 9,13-18) fa parte della preghiera che il libro della Sapienza mette in bocca a Salomone per ottenere il dono della sapienza. Il brano liturgico si apre con l’affermazione dell’impossibilità per l’uomo, se lasciato alle sue sole forze, di conoscere la volontà di Dio, e prosegue elencando gli ostacoli che la condizione propria dell’uomo pone alla comprensione delle “cose del cielo” (Sap 9,16). Questa conoscenza necessita della sapienza “che viene dall’alto” (Gc 3,17), che solo Dio può elargire. In modo analogo a quanto espresso nella pagina evangelica (Lc 14,25-33) dove si afferma l’impossibilità della sequela di Cristo (Lc 14,26.27.33) se non si adempiono esigenze radicali, siamo di fronte a una sorta di impossibile praticabile. E questa è una verità che si può estendere a tutta la vita spirituale cristiana. Vi è un “impossibile agli uomini” (Lc 18,27) che, essendo “possibile a Dio” (Lc 18,27), richiede l’atto di fede, l’uscita da sé fino a non contare più su ciò che costituisce la propria “potenza” o su ciò che dona sicurezza (la famiglia, i beni), per appoggiare la propria esistenza su Dio stesso. L’impossibile diviene praticabile all’interno di un movimento pasquale di morte a sé per trovare la propria saldezza nel Signore. L’episodio soltanto lucano dell’annunciazione, in cui Maria dice il suo sì alla vocazione e missione impossibile che le viene affidata (concepire e partorire un bambino senza conoscere maschio) estende tale dimensione di impossibile praticabile alla vocazione cristiana in quanto tale (cf. Lc 1,26-38).
Il testo sapienziale si dilunga sull’affermazione dell’impossibilità umana di conoscere, immaginare, farsi un’idea di ciò che il Signore vuole. Un motivo risiede nei ragionamenti esitanti, timidi, degli umani, nelle loro riflessioni segnate da ineliminabile precarietà e fragilità e dunque impossibilitate a fornire una base di saldezza e certezza su cui contare (Sap 9,14). Con linguaggio platonico l’autore afferma poi che “un corpo corruttibile appesantisce l’anima” e che “una tenda fatta di terra (gheôdes) opprime una mente carica di preoccupazioni (Sap 9,15). Non vi è espressione di disprezzo per il corpo, ma di transitorietà (l’immagine della tenda), di limitatezza e fragilità, che rende l’uomo, nel suo cammino esistenziale, alle prese con “molte preoccupazioni” di tipo materiale (il cibo, il vestito, il lavoro) che si riflettono anche sul piano emotivo e psichico e distolgono l’uomo dalla vigilanza e dalla tensione verso l’alto. Gesù, nel discorso escatologico presente in Luca, mette in guardia dall’appesantimento del cuore causato, tra l’altro, da “preoccupazioni esistenziali” (Lc 21,34: merímnais biotikaîs). Con disilluso realismo l’autore nota poi che solo a stento e con molta fatica riusciamo a conoscere adeguatamente le realtà terrestri, quelle che abbiamo a portata di mano, dunque, figuriamoci quelle celesti (Sap 9,16)! L’argomentazione sembra qui echeggiata dalla riflessione del filosofo André Comte-Sponville nella sua proposta di una spiritualità atea: “Credere in Dio, da un punto di vista teorico, equivale a voler spiegare qualcosa che non capiamo – il mondo, la vita, la coscienza – con qualcosa che capiamo ancora meno: Dio”. Ovviamente a tutt’altra conclusione giunge l’autore sapienziale: l’incapacità umana di conoscere il volere di Dio è superato dal dono della sapienza. E il v. 17 equipara la sapienza allo Spirito santo (come in Sap 1,5): “Chi avrebbe potuto conoscere la tua volontà se tu non avessi dato la sapienza e non avessi inviato il tuo Spirito santo dall’alto?”. E qual è la volontà di Dio che necessita della sapienza-Spirito santo per essere compresa e diventare accessibile e praticabile dagli umani? Le “cose del cielo” (v. 16), la “volontà di Dio” (v. 13.17), “ciò che a Dio è gradito” (v. 18) si sintetizzano nella Torah. La sapienza viene indicata come la possibilità stessa di comprensione e dunque di messa in pratica della Torah. Probabilmente il testo della Sapienza raccoglie l’eredità dei profeti Geremia ed Ezechiele che parlavano l’uno della necessaria interiorizzazione della Torah e l’altro annunciava che questa sarebbe stata possibile grazie al dono dello Spirito. Ma se essi annunciavano ciò per il futuro e per tutti, il libro della Sapienza lo riconosce come già avvenuto, almeno per alcuni (cf. Sap 10). Nel v. 18 infatti l’autore parla di tre effetti del dono della sapienza con verbi al passato. “Ha raddrizzato i sentieri di chi è sulla terra”, cioè li ha riportati sulla retta via mostrando di essere una forza con valore morale. Essa esplica la funzione propria di Dio che, secondo Sap 7,15, è tôn sophôn diorthotés, “colui che corregge il cammino dei sapienti”. Quindi ha esercitato una funzione didascalica istruendo su ciò che è gradito a Dio e ha svolto un compito salvifico (“gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza”: Sap 9,18). Dal capitolo 10 in poi della Sapienza apparirà chiaro che essa è il dono dall’alto che consente un’ermeneutica della storia come ambito dell’intervento di Dio. Essa istruisce guidando alla comprensione della Torah e al discernimento della presenza e dell’azione di Dio nella storia.
Un’osservazione che emerge dal passo evangelico è che Gesù non si lascia incantare dal numero e dalla quantità dei seguaci. Il testo dice che sono “numerose” le folle che fanno strada con lui (óchloi polloí: Lc 14,25). Ad esse Gesù, “voltatosi”, rivolge parole forti, chiare e dure circa ciò che comporta la sequela e questo anche a costo di perdere seguaci. Gesù sembra quasi scoraggiare chi pure lo sta accompagnando con atteggiamento di simpatia e di fiducia. E questo dovrebbe interpellare seriamente chi nella chiesa è sempre preoccupato del numero e giudica la riuscita o meno dell’azione di evangelizzazione dal numero dei praticanti, quasi misurando la fede a partire dalla visibilità di gesti pubblici, constatabili e, di fatto, riducendola a questi. In una sorta di materialismo pastorale. Di fronte al quale non dovrebbe stupire, ma anzi essere segnale che interpella e chiede autocritica, il volgersi di tanti a forme di “spiritualità” fuori dai recinti ecclesiali tradizionali.
All’opposto della chiarezza impietosa di cui Gesù dà prova con queste folle, si situerebbe un atteggiamento pastorale che, edulcorando le esigenze evangeliche, presentasse la vita cristiana come “porta larga e via spaziosa” (Mt 7,13) e non invece come “porta stretta” (Lc 13,22). Sappiamo bene come questa sia una tentazione forte per la chiesa e in particolare per la vita religiosa in tempi di diminuzione numerica e scarsità di vocazioni.
Il testo poi interpella il credente di ogni tempo su cosa significhi “essere discepolo di Gesù”. Commenta l’esegeta François Bovon: “Il testo non parla di ‘diventare discepolo’, perché l’espressione farebbe pensare che questo divenire dipenderebbe da noi. ‘Essere discepolo’ vuol dire essere accettato dal maestro. Per questo bisogna essere qui e non altrove, attenti e non distratti; pronti a imparare, non sapienza umana, ma divina; non nel corso di un tirocinio intellettuale, ma globale: con la testa, il cuore, la volontà, il corpo. Avvenimento formidabile! Per farlo capire, il Nuovo Testamento ricorre a diverse immagini: svestirsi, morire, lasciare, non voltarsi indietro, odiare””. Potremmo aggiungere “uccidere” (Col 3,5), “crocifiggere” (Gal 6,14), “dimenticare ciò che sta dietro” (Fil 3,13), ecc. Le espressioni urtanti usate da Gesù sono indicazioni di via verso la libertà. Libertà che si fa strada attraverso distacchi, abbandoni, rinunce. Attraverso una morte. Ora, essendo chiaro che il comando di “odiare” non prescrive un sentimento ma esprime un atto, come appare da Lc 18,29 che parla di chi ha “lasciato” casa e famiglia, tale cammino di libertà si personalizzerà in ciascun credente attraverso l’incontro tra la propria creaturalità e le esigenze evangeliche. È innegabile che le dure parole di Gesù risultano ostiche alle nostre orecchie e ne sentiamo repulsione, ma così facendo dimentichiamo che tali parole hanno anzitutto una valenza di rivelazione, svelando dei possibili che altrimenti ci resterebbero inaccessibili. E ci svelano, proprio con la loro forza urtante che ci colpisce come con un pugno, dei nemici della libertà di cui non avremmo altrimenti coscienza e che non si identificano soltanto con dimensioni malvagie o ignobili da cui ovviamente occorre prendere le distanze, ma che si annidano anche nei rapporti più buoni e quotidiani. La sequela di Gesù è poi esigente anche perché il discepolo è chiamato non solo a iniziare, ma anche a portare a compimento (vv. 28.29.30). Come per costruire una torre o affrontare una battaglia vi è un indispensabile, così anche per la sequela. Ma l’indispensabile per la sequela è la disponibilità a perdere tutto, anche “la propria vita” (v. 26). Ma questa disponibilità è quanto il battesimo chiede al credente. Le esigenze espresse da Gesù sono le esigenze insite nel battesimo. Di cui il credente deve, prudenzialmente, essere cosciente. E allora, forse, l’unica cosa necessaria per affrontare la vita cristiana e le rinunce che essa chiede, è la fede nella resurrezione e il vivere da “risorti con Cristo” (Col 3,1).