Rientrare in sé
30 marzo 2025
IV domenica di Quaresima
Luca 15,1-3.11-32 (Gs 5,9a.10-12)
di Luciano Manicardi
In quel tempo 1 si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola: 11 «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». 20Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». 22Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.
25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». 31Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»».
L’annuncio dell’amore fedele e misericordioso di Dio che diviene perdono è al cuore del messaggio di questa domenica. Perdono è il nome che il figlio minore della parabola evangelica (Lc 15,1-3.11-32), una volta tornato a casa, potrà dare all’amore fedele del padre che ha continuato ad amarlo anche quando lui si è allontanato e ha disdegnato la sua vicinanza. La parabola rivela la difficoltà di riconoscere e comprendere l’amore e di accogliere la misericordia: i due figli, per vie diverse, faticano ad accettare la loro condizione di figli, dunque la loro fraternità e l’amore del padre. Il passo del libro di Giosuè (Gs 5,9a.10-12), che presenta la prima pasqua celebrata da Israele in terra di Canaan, mostra Israele, il figlio di Dio (cf. Es 4,22; Os 11,1), che entra nella casa che il Signore ha preparato per lui dopo averlo fatto uscire dalla casa dove ha vissuto come schiavo: la celebrazione della Pasqua è la necessaria festa che esprime la gioia di Dio e del popolo liberato. Certo, una volta entrato nella terra, Israele (come il figlio maggiore della parabola evangelica) correrà il rischio di sentirsi giusto, e potrà vivere il dono di Dio come motivo di autosufficienza fino a non discernere più la misericordia divina. Il testo paolino (2Cor 5,17-21) contiene l’invito alla riconciliazione che l’Apostolo rivolge ai cristiani di Corinto fondandolo sulla riconciliazione che Dio ha già attuato in Cristo con il suo amore misericordioso. Nei tre testi è implicita una dinamica pasquale: in Giosuè la festa pasquale celebra il passaggio dall’Egitto alla terra promessa; nella seconda lettura l’accoglienza della grazia di Dio in Cristo rende amici di Dio coloro che erano peccatori e li fa divenire nuove creature; nel vangelo la dinamica pasquale è sottesa al passaggio dalla morte alla vita del figlio che era perduto.
Il testo evangelico si apre dicendo che accanto a Gesù vi sono due gruppi, “i pubblicani e i peccatori” e “i farisei e gli scribi” (vv. 1-2). I primi lo ascoltano, i secondi mormorano contro di lui e sparlano dei primi. Ad entrambi Gesù rivolge la parabola del padre che aveva due figli invitandoli a specchiarsi nei due figli della parabola. E invita anche noi, visto che nessuno dei due figli è esemplare: in ciascuno di loro vi è l’essere figlio e la rivolta contro la figliolanza, vi è l’essere fratello e il rifiuto della fraternità. Anche la casa è una protagonista della parabola: luogo in cui padre e figli sono chiamati a vivere insieme, ma da cui un figlio se ne va per tornarvi al momento del bisogno e un altro ci resta senza veramente abitarla e appartenervi. Presentato lo scenario famigliare (“Un uomo aveva due figli”), subito irrompe la pretesa del figlio minore: “Padre, dammi” (v. 12). Il minore esige la sua parte di eredità. Nessuna motivazione è data alla richiesta del figlio minore e nessun giudizio è formulato su di essa. Ma quando si dice che il padre “divise tra loro” (v. 12) le sue sostanze, si palesa il fatto che la decisione di uno ha conseguenze anche per l’altro. Esigendo di ricevere la sua parte, egli impone una scelta che ha conseguenze anche per il fratello. Sempre, ogni nostra azione ha conseguenze su altri. Responsabilità è averne coscienza. Il padre si sottomette alla richiesta del figlio minore. Anche della decisione paterna non si dicono le motivazioni. Invece ci viene detto della partenza del figlio minore. La casa è per il giovane il luogo da cui andarsene: è più importante l’uscita che la destinazione: qualunque posto, ma non più la casa. L’indicazione generica che se ne andò in un “paese lontano”, sottolinea come decisivo l’aspetto della distanza. Tutto il movimento messo in atto dal figlio minore è di separazione dalla casa, dal padre, dal fratello. Nel paese lontano egli vive “in modo dissoluto” (v. 13), o meglio “senza discernimento”: vive fuori di sé, separato sì, ma da se stesso. Se ne è andato dalla casa accusando e incolpando di fatto chi vi è rimasto, ma arriva a scoprire che la casa e le relazioni domestiche erano l’esteriore che gli consentiva di non affrontare la sua interiorità, l’alibi che gli consentiva di non vedere se stesso, che è la cosa davvero difficile, ma l’unica che può introdurre in quella salvezza da cui lui è lontano: egli infatti vive asótos, “lontano dalla salvezza” (v. 13). Salvezza nel senso di integrità, di riconciliazione con se stesso. La riconciliazione, prima di essere un riavvicinamento con l’altro da cui si è separati, è integrazione di sé e in se stessi, è capacità di mettere insieme i frammenti della propria esistenza trovando un centro intimo attorno a cui si raccolgono. Rivolto com’era verso l’esterno, sono fatti esterni che lo costringono a prendere atto della sua realtà: una carestia lo costringe a trovarsi un lavoro umiliante: il guardiano di maiali. A quel punto egli attiva di nuovo il meccanismo che l’aveva condotto ad andarsene da casa. Non sta bene e anche il paese lontano diventa una casa da cui andarsene. La dura realtà lo porta a guardarsi come dall’esterno e a vedersi in uno scacco totale. Ha dissipato i beni e si trova in una situazione di mancanza: “avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci ma nessuno gli dava nulla” (v. 16). Nessuno, nulla: ecco le parole chiave che lo portano a fare il movimento decisivo: rientrare in sé. Ha fuggito la relazione e ora ne sente la mancanza. “Cominciò a essere nella mancanza” (v. 14). Certo, egli è ancora abitato da una logica di calcolo, tanto che si prepara il discorso da fare al padre per essere accolto, ma come uno dei suoi servi. Non come figlio. Prima ha preteso quel che gli spettava come figlio umiliando il padre, adesso vuole andare dal padre ma non come figlio, bensì come servo. Dopo essere finalmente “andato in sé” (v. 17), ora va da suo padre: l’uso dello stesso verbo “andare” érchomai nei due casi indica che per ritornare a casa egli doveva rientrare in sé. Ed ora entra in scena il padre. Che aveva acconsentito alla sua partenza, ma che sempre aveva atteso il suo ritorno. Il padre ha avuto fiducia nel figlio, non l’ha trattenuto, ha dato credito alla sua libertà, e ora, come lo scorge da lontano, gli corre incontro e copre il tratto di strada che manca al suo arrivo a casa: lo vede, ne prova compassione, corre verso di lui, si getta al suo collo, lo bacia. E poi impartisce ai servi diversi ordini preceduti dall’avverbio “presto”, quasi per non far sfuggire il momento di grazia che si sta vivendo e per rispondervi adeguatamente. E interrompe il discorso che il figlio si era preparato. Il padre ha vissuto un’esperienza pasquale: suo figlio era morto ed è tornato in vita, ma anche lui stesso era morto come padre e ora rinasce grazie al figlio che torna. Ed esplode la gioia.
Iniziata la festa, il figlio maggiore che era nei campi, sentendo le musiche chiede a un servo che succeda. E il servo dà la sua interpretazione di ciò che è avvenuto: il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso perché il figlio minore è tornato sano e salvo, in buona salute. C’è una parte di verità in ciò che dice il servo, ma l’interpretazione è parziale. È avvenuto ben di più nel cuore del padre: un evento di resurrezione. Resurrezione di una relazione, di un figlio, di un padre: tutto è passato dalla morte alla vita. Il padre dunque ordina che si faccia festa, ma non è facile gioire con chi gioisce: il fratello maggiore non vuole entrare in quella casa da cui non si è mai allontanato finché si è trattato di servire e lavorare. La sua collera nasce dal confronto che egli istituisce tra il comportamento del padre con lui e con il fratello. Il padre gli esce incontro e lo supplica di entrare. E ascolta la recriminazione del figlio il cui discorso è mosso dalla passione della gelosia e dalla logica della retribuzione. “Perché a lui questo trattamento di favore e a me invece mai niente?”. La collera lo porta a esprimersi in maniera massimalista: “io ti ho sempre servito, non ti ho mai disobbedito, tu non mi hai mai dato nulla. Lui che si è comportato in maniera irresponsabile, provocando un danno economico, gettando nell’angoscia chi è rimasto a casa, lui che ha vissuto in maniera dissoluta con le prostitute, per lui tu fai festa e non gli rivolgi nemmeno un rimprovero”. La logica che guida il figlio maggiore è quella del merito e della retribuzione, quella del padre è quella della gratuità e della gioia di fronte al cambiamento intervenuto. E il padre lo chiama “figlio”, con affetto, e ribatte al suo “mai” e al suo “niente” con il suo “sempre” (“tu sei sempre con me”: v. 31) e con il suo “tutto” (“tutto ciò che è mio è tuo”: v. 31), e aggiunge ciò che ha provocato la gioia: il figlio che era perso è stato ritrovato. Il padre è a servizio della vita dei figli, e vedere che un figlio che poteva considerarsi perso è ritornato, è motivo di gioia. Il padre ricorda al maggiore che lui è figlio, tanto quanto il minore, e che il minore è anche suo fratello. A lui che gli dice “ora che questo tuo figlio è tornato …” (v. 30) risponde “questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita” (v. 32). La parabola è aperta. Per il figlio maggiore come per noi. Il maggiore si aprirà alla gratuità e alla gioia per il fratello perso e ritrovato? O resterà chiuso nella rivendicazione e nella recriminazione vittimizzando sé e colpevolizzando gli altri?