La forza della mancanza
5 novembre 2025
Dal Vangelo secondo Luca - Lc 14,25-33 (Lezionario di Bose)
In quel tempo, 25Una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: 26«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
28Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30dicendo: «Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro». 31Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. 33Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
Gesù pronuncia queste parole perché – dice Luca – “una folla numerosa andava con lui”. Gesù non temeva né fuggiva le folle, anzi nei loro confronti manifestava sempre un atteggiamento di benevola accoglienza. E tuttavia il suo sguardo cerca sempre il “faccia a faccia” dell’incontro personale con chiunque voglia seguirlo (cf. Mc 10,21). È significativo che si dica che Gesù si volta: “voltatosi, disse”, un’espressione tipicamente lucana che ritroviamo altrove. È il volto di Gesù, quello “risolutamente diretto verso Gerusalemme” (9,51) a voltarsi. E se si volta, è perché cerca altri volti, non gli basta essere seguito da folle anonime, vuole discepoli che lo guardino in faccia, perché è questo che fa la differenza. Pensiamo a quando Pietro lo rinnegherà nella notte del suo arresto: è proprio lo sguardo del maestro, che si volta verso di lui e lo fissa, a richiamarlo alla sua verità, e a ricondurlo sulla via della sequela. Così qui Gesù si volta perché non si lascia impressionare dal numero di quanti sembrano seguirlo nel cammino. Desidera un’adesione personale, convinta, libera.
Essere chiamati a seguirlo certo è una grazia e Gesù non chiede patenti di virtù e di giustizia: i Dodici non furono chiamati perché erano più degni di altri... e tuttavia, se tutto è grazia, tutto è anche libertà dell’uomo, che può accogliere o meno il dono; e da questo punto di vista, ci sono situazioni che predispongono e situazioni che impediscono l’accoglienza della grazia.
Per questo al discepolo è richiesto di liberarsi da ogni legame che si pretenda possessivo ed esclusivo, e perfino dall’attaccamento alla “propria stessa vita” (in greco c’è la parola psyché, che qui può esprimere la vita nella sua individualità personale, noi diremmo “l’io”). Si tratta di “mollare la presa” su tutto, per attaccarsi unicamente al Signore.
Gesù sembra quasi compiacersi di radicalizzare le esigenze della sequela, fin quasi a renderle impossibili. E, come dicevano gli antichi, ad impossibilia nemo tenetur! Ma di fatto la sequela obbedisce a una logica di fondo che è intrinseca a quella che è e rimane una follia, la “follia della croce”, espressa emblematicamente in altri passi del vangelo con queste parole: “Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la salverà” (cf. Lc 9,24; 17,33); ed è salutare il momento in cui ci rendiamo conto che la forza e la volontà umana, anche le più generose non bastano, non ci permettono di entrare veramente in questa logica per proseguire il cammino.
In questo senso, le due brevi parabole non vanno fraintese: esse ci invitano sì a una sosta e a un discernimento, ma non tanto per vedere se abbiamo davvero le forze o se siamo “degni” e capaci di seguirlo... onestamente dobbiamo riconoscere che non lo siamo e non lo saremo mai. Ma per ritrovare il vero fondamento che sostiene la nostra sequela. Se l’uomo della parabola calcola quante ricchezze e quanti soldi deve avere per costruire la torre, il discepolo da parte sua può contare solo su quanto è disposto a “perdere” (e a riconoscersi mancante e povero) in modo che il Signore sia la sua unica forza. “Gli uni contano sui carri, gli altri sui cavalli, noi invochiamo il nome del Signore nostro Dio” (Sal 20,7). Nonostante il paragone con il re che parte in guerra contro un altro re, il vero modo per vincere in questa lotta spirituale non è armarsi ma “disarmarsi”, come diceva il patriarca Athenagoras. Non è un più, ma un meno, non un pieno ma un vuoto a rendere possibile la sequela: è l’ammissione di una mancanza (cf. Mc 10,21), di una “sete” (cf. Gv 7,37) che sa di poter trovare ristoro e pace solo nell’incontro con il Signore (cf. Mt 11,28). Questo il senso vero della rinuncia cristiana: aiutarci a non confidare su ciò a cui ci attacchiamo e che consideriamo come “nostro”, anche se non lo è veramente. L’unica forza su cui possiamo contare è quella del Signore.
È il ricordo di quel volto, che almeno una volta abbiamo incrociato, a sostenerci nel cammino. Solo la memoria e la custodia di quello sguardo personale che ha toccato il nostro cuore e lo ha “ferito” in modo indelebile e profondo può farci perserverare fino alla fine (cf. Mt 24,13).
fratel Luigi