Conclusioni del Convegno
XXI Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
LE ETÀ DELLA VITA SPIRITUALE
Bose, 4-7 settembre 2013
in collaborazione con le Chiese Ortodosse
CONCLUSIONI DEL CONVEGNO
Eminenze,
reverendi padri,
cari amici!
È con gioia e gratitudine che diciamo qualche parola a conclusione di questo cammino che ci ha impegnato in questi giorni, ristrutturando anche il tempo e lo spazio nella forma del dialogo e nella forma dell’ascolto reciproco. Una forma che cerca di modulare anche la speranza cristiana che attraversa il tempo e le età della vita.
«Antonio non si ricordava del tempo trascorso ma ogni giorno, come se cominciasse in quel momento la sua vita di ascesi, intensificava gli sforzi per progredire, ripetendo continuamente a se stesso il detto di Paolo: “Dimentico del passato, mi protendo verso ciò che sta davanti” (Fil 3,13)» (Atanasio, Vita Antonii).
È Atanasio che ripete questo detto nella sua Vita di Antonio. Ed è il detto che ha accompagnato questi giorni di riflessione, in cui ci siamo sforzati in una comune ricerca della verità in obbedienza alla parola di Dio e nel solco della sapienza trasmessa dai padri. La parola che è stata messa in bocca ad Antonio ma che troviamo anche in altri detti, è stata così da subito accostata all’espressione di Gregorio di Nissa che parla dell’ascesa incessante di chi è impegnato nel progresso spirituale, dove ogni limite raggiunto è in realtà sempre l’inizio di un nuovo cammino.
L’uno e l’altro detto sviluppano in realtà un’espressione paolina, tratta dalla lettera ai cristiani di Filippi, che Atanasio cita per esteso: “… dimentico del passato mi propendo verso ciò che sta davanti”. Paolo sta parlando della giustizia che deriva dalla fede in Cristo. È questa fede in Cristo che permette a Paolo di “conoscere lui, di conoscere la potenza della resurrezione di Cristo, di partecipare alle sue sofferenze diventandogli conforme nella morte con la speranza di giungere alla resurrezione dai morti” (Fil 3,10-11). Dietro ai detti dei padri, che hanno accompagnato dall’inizio il nostro itinerario di studio, risuona questa parola della resurrezione dai morti. L’inizio di questa nascita in Cristo coincide con la morte in Cristo: è di questo che Antonio e Gregorio parlano. Questo inizio nel tempo apre il tempo a un significato che lo trascende e lo attraversa nel susseguirsi delle generazioni, nel passaggio dell’età della vita, dove ogni stadio, ogni momento di superamento della crisi è un’esperienza di morte e di resurrezione, di disperazione e di speranza. Perché Cristo non ha tolto la morte, ma ha cambiato l’uso della morte, come diceva Massimo il Confessore. È un modo molto profondo di comprendere che cosa significa quando cantiamo “calpestare la morte con la morte”: significa dare la vita per gli altri per riceverla di nuovo, risuscitata in una avventura di comunione che non ha fine.
Tuttavia questa capacità di dono di sé, di dare vita, di morire a se stessi per nascere alla comunione con gli altri, per nascere alla grazia di Dio, non è data in modo naturale nella nascita. È ricevuta in un processo di maturazione spirituale e umana a un tempo; una fecondità non solo biologica di generare alla vita, di divenire padre e madri, ma una maturazione che è anche spirituale, e che è psicologica e umana insieme.
Ecco allora la consapevolezza di Paolo, “dimentico del passato e proteso verso il futuro corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama ricevere in Cristo Gesù”. Questa espressione, “proteso verso il futuro”, ci parla anche di un oblio buono. Abbiamo sentito poco fa il pericolo di una memoria totale, totalitaria, che imprigiona la persona nel suo passato, nei suoi peccati, nelle sue chiusure. Antonio non si ricordava del tempo trascorso: viveva l’oggi di Dio.
C’è un oggi al cospetto di Dio in cui il cristiano è chiamato a santificare il tempo: a vivere il senso del presente accogliendo l’eredità del passato, ma aprendolo al futuro.
È questo il nocciolo della vita spirituale consente di arrivare anche a un’unità della persona, un’unità della comunità, un’unità dei cristiani. Il cristianesimo, come manifestazione di Dio che è amore, non è solo una religione che pone davanti a Dio, ma introduce in Dio, con Dio, per Dio; è un’avventura che viene da Dio e che ha nell’uomo il suo interlocutore. Allora la vita spirituale, vita in Dio, con Dio, per Dio ma al tempo stesso negli altri, con gli altri, per gli altri, è vita anche dagli altri, perché dagli altri noi riceviamo la vita. Non solo all’inizio della nostra avventura umana, ma anche tutte le volte in cui la crisi, la difficoltà, la disperazione ci fanno crollare e dagli altri riceviamo una parola, un sostegno. Riceviamo la speranza.
Solo l’uomo tra tutte le creature può trasformare allora questo tempo naturale lineare della successione fisica in un’altra dimensione temporale. Lo abbiamo ascoltato poco fa: è la dimensione del kairòs, del tempo opportuno, del tempo favorevole alla conversione di Dio, del tempo che apre all’éschaton e che avviene per i cristiani nella celebrazione liturgica della mensa del Signore.
Questo kairòs del tempo è l’incontro, è l’incontro con Dio; è ciò che permette di discernere il tempo. “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore”, canta il salmo 89. C’è una sapienza da acquisire che solo il tempo della vita può insegnare; c’è un tempo da vivere che solo un cuore sapiente sa discernere. Contare i propri giorni non è solo affrontare l’esperienza ineludibile della finitezza, ma è anche l’esercizio di accogliere questa finitezza come un dono e di acconsentire a diminuire perché la vita di Cristo cresca in noi.
Questi giorni hanno modulato, hanno cercato di far sentire tutti gli armonici che questo inizio, in cui coincide anche la nostra fine, può dispiegare nel corso del tempo.
Non ripercorrerò in dettaglio le molte osservazioni che sono state fatte in questi giorni ma cercherò di raggruppare le riflessioni che abbiamo sentito, che abbiamo fatto nostre e a cui abbiamo partecipato nel dibattito, intorno ad alcuni momenti che sono anche i tempi della vita dell’uomo: il tempo della nascita, il tempo della maturità e delle scelte, il tempo del declinare nell’anzianità e nella morte, che deve anche diventare il tempo della speranza.
La nascita della vita in Cristo
Nella prima lettera di Pietro noi leggiamo che Dio ha rigenerato i cristiani “con una speranza viva attraverso la resurrezione di Cristo”. La vita cristiana, nella fede, nella speranza, nella carità, non è più una condizione naturale vissuta nel solco delle generazioni, ma è un evento frutto della misericordia di Dio. In apertura del convegno abbiamo ascoltato una riflessione sul sacramento del battesimo, impartito nel nome della Trinità, che attraverso una triplice immersione realizza la morte al peccato e una nuova nascita del credente, integrandolo nel corpo di Cristo. Una morte e una resurrezione in cui il credente è immesso in questa vita come dono, che è stata la vita vissuta da Gesù Cristo.
Nicola Cavasilas commenta un passo degli Atti – lo abbiamo ascoltato citare spesso – in cui dice che il battesimo “dona l’essere e la piena esistenza in Cristo perché ci accoglie i morti e in decomposizione e primo tra tutti i sacramenti ci introduce nella vita”. L’iniziazione cristiana segna questi passaggi della vita, questo diventare adulti in Cristo. È stato ricordato il senso della crismazione, con le sue differenze tra Oriente Occidente, come piena maturità della vita cristiana, e il senso dell’eucarestia, come continuo dono che ci permette di vivere in Cristo.
Questa dinamica consente di vedere la vita come un tutto. Romano Guardini coglieva la necessità di mettere in relazione le fasi dell’esistenza con la vita nella sua interezza, e ricordava che questa dialettica tra la parte e il tutto non si allenta mai, ma evolve nel tempo: “Nessun tempo va sottratto ai propri ritmi e nessun tempo va forzato a essere un altro. Nessun tempo è il tempo migliore … l’inizio della fine sono dei misteri. La distinzione tra l’inizio della vita, la nascita e l’infanzia non significa che la vita prende le mosse da un punto di partenza poi lasciato dietro di sé, ma che questo punto di partenza accompagna la vita nel suo svolgimento … Inversamente, la fine agisce a ritroso sino al primo inizio … La vita non è un affastellamento di parti, bensì una totalità che – con un’espressione un poco paradossale – è presente in ogni punto dello sviluppo”.
Nel mistero dell’inizio della vita noi siamo gettati – è stato ricordato il romanzo di Dostoevskij dove Kirillov, uno dei personaggi, in modo molto drammatico protesta contro questa sua immissione della vita senza la sua autorizzazione –; ma proprio questo essere dato della vita, questo mistero dell’inizio coincide con il mistero della vita della fine, in cui siamo noi a riconsegnare la vita che abbiamo ricevuto. Ecco allora perché tra questo inizio e questa fine a noi compete un esercizio: è l’ascesi del tempo, lo sforzo di non fare delle età della vita un mosaico di frammenti, ma una totalità presente in ogni stagione.
La parabola della vita del credente si configura in modo esemplare in Mosè. Nella lettura tipologica e allegorica dei padri – abbiamo ascoltato in particolare l’esegesi di Gregorio di Nissa – Mosè diventa un esempio. Nella figura dell’esodo è rispecchiata la nostra maturazione umana e spirituale. Il racconto biblico non traccia un quieto sviluppo lineare della vita di Mosè, in cui si rappresentano le diverse età della vita, ma un cammino segnato da crisi e da rotture. Mosè va di fuga in fuga: fugge dalle acque, fugge dagli egiziani. “… fuggì via Mosè a quelle parole e si rifugiò nella terra di Madian” (Es 2,15). È solo un incontro, un kairòs, a trasformare Mosè in profeta: è l’evento del Roveto ardente.
Allora anche la sua fuga si trasforma nell’inizio di un’uscita, diventa l’esodo di tutto il popolo. E l’esodo ? lo sappiamo ? è un lungo e difficile battesimo che attraversa la morte. Il perfezionamento, paradossalmente, non ha fine; ma questo significa che la perfezione non è altro dal camminare nella giusta direzione, cioè facendo giustizia: vivendo nell’adempimento dei comandi di Dio.
In Gregorio di Nissa questo inizio, che è la creazione, diventa l’inizio che è la fede, il principio che è la trasfigurazione di tutte le cose. Al centro di questo cammino sta il monte dell’incenso, che significa la deificazione, e al tempo stesso il monte della mirra: il monte che ricorda la morte del Messia, il cammino come attraversamento della morte, battezzati nella morte di Cristo. Il percorso non si ripiega sull’inizio, come l’eterno ritorno dell’Uguale della filosofia nichilista del xx secolo, perché Dio crea una cosa nuova.
Questo inizio, che sono molti inizi, lo ritroviamo descritto e analizzato negli autori che hanno codificato le tappe di maturazione spirituale soprattutto nella tradizione monastica. Abbiamo ascoltato gli autori della tradizione siriaca con i diversi modelli di sviluppo della vita spirituale. Dalla sapienza di Isacco il Siro abbiamo constatato come la progressione nella vita spirituale non sia una successione temporale lineare, ma un movimento verticale che alterna alti e bassi, sottoposto all’azione concomitante della lotta contro le tentazioni da una parte e dell’assistenza dell’aiuto di Dio dall’altra.
Così la scala di Giovanni il Sinaita disegna un cammino che non è solo per il solitario, come nella tradizione evagriana, ma conduce a un’integrazione di tutto l’uomo, dei sensi dell’uomo con il suo spirito e con la sua mente, e soprattutto a un completamento della persona nel rapporto con gli altri. La perfezione solo interiore è un inganno. Occorre anche questo movimento di estroversione, come ci ha ricordato uno dei relatori della tavola rotonda, nel tentativo di aggiornare la sapienza dei padri, di metterla in contatto e in dialogo con i temi e le attese dell’umanità contemporanea.
Già nella tradizione non è presente solo la ricerca della perfezione nel deserto, nell’anacoresi, ma avviene quella che si può definire la dislocazione del deserto nel cuore di ogni cristiano, luogo di lotta spirituale, ma anche nel cuore del mondo. I padri, nel definire la perfezione, non ponevano come discriminante la scelta del celibato; erano anzi convinti che in tutti gli stati di vita fosse possibile vivere in perfetta obbedienza ai comandamenti di Dio. Proprio il ciabattino di Alessandria rivelerà ad Antonio ciò che abita il suo cuore. Chi può sostenere il pensiero di Antonio?, si sarebbe chiesto molti secoli dopo san Silvano del Monte Athos, meditando il detto di Antonio.
E il pensiero di Antonio, secondo Silvano, è proprio quello che il ciabattino aveva consegnato al padre dei monaci: “Tutti saranno salvati, tutti quelli che vedo passare per la strada, uomini e donne, anziani e giovani, vecchi e bambini, forti e deboli, santi e peccatori. Il cammino della loro vita è una grande carovana che naviga verso il Cristo, che li accoglie nel cielo. Solo io sarò escluso, solo io sarò nell’inferno”. Questo è il pensiero di Antonio, questo è il pensiero che ritorna in Silvano del Monte Athos: questo è il pensiero che fa della speranza una speranza contro ogni speranza. Per sostenere questo pensiero occorre crescere alla misura di Cristo.
La maturità della vita in Cristo
Il convegno ha offerto un commento molto approfondito, nelle sue implicazioni ecclesiologiche e cristologiche, della pericope di Efesini 4,7-13, se vogliamo centrale per il nostro tema: crescere alla misura dell’età di Cristo. La maturazione della vita umana del cristiano diventa anche la misura della maturazione della sua vita nella chiesa. La vita umana, infatti, cresce con gli altri e l’incontro con l’altro spesso segna una crisi di passaggio. Non siamo nati solo una volta nel passato, ma ogni volta rinasciamo in questi momenti di crisi e di difficoltà.
Anche all’inizio del cammino monastico c’è una crisi, un giudizio che è una scelta e porta con sé la necessità di un distacco dalla vita precedente. Ma anche nel loro ripresentarsi nel corso della vita, le crisi possono diventare un fecondo motore di cambiamento, una scoperta del potenziale di trasformazione che si trova in questi momenti di scacco, di crollo di tutte le convinzioni precedenti.
Il confronto con le scienze umane, in particolare la psicologia e la pedagogia, sarebbe stato forse occasione di un intero colloquio. In questo convegno abbiamo limitato la scelta al tema della crisi. La sapienza della tradizione monastica, d’altra parte, ha fatto vedere in san Benedetto come la diversità di età, di cultura, di educazione, sia uno degli elementi importanti nella formazione della comunità monastica e nel cammino verso l’unificazione, non solo interiore ma anche di tutto il corpo ecclesiale. In particolare, nel tempo della maturità, si scopre come la scala dell’umiltà sia anche una scala di acconsentimento.
Yves Congar, il grande teologo pioniere dell’unità dei cristiani, qualche anno prima dell’uscita del libro di Paul Evdokimov che ha ispirato il titolo e la riflessione del nostro convegno, in un articolo apparso sulla Vie spirituelle e dedicato alle età della vita spirituale, scriveva che c’è un momento nella vita, che coincide con la maturità, in cui bisogna ristabilire le cose. Occorre allora “interpretare la propria situazione nel mondo in un modo realista e consentire al fatto che probabilmente la nostra vita ha avuto degli esiti modesti. Allora noi interpretiamo di nuovo il nostro posto nel mondo, non nel mondo dei nostri sogni, ma nel mondo dell’esperienza, nel mondo della ragione, nel mondo della fede, delle affermazioni nude della fede, delle certezze provate nella preghiera e sotto la croce”. Solo allora noi “acquisiremo la vera misura delle cose e di noi stessi”, e la nostra vita di fede potrà “rimanere grande e bella, diventando più reale”.
Questo acconsentimento è il passo fondamentale da compiere nel momento della vecchiaia, quando l’uomo esteriore si va disfacendo ma quello interiore si rinnova di giorno in giorno. C’è una possibilità nell’anzianità, l’opportunità di sperimentarla come occasione, ancora una volta come kairòs: non un declino ineluttabile, ma una chiusura che si apre, un perfezionamento che si dona, secondo l’espressione del filosofo romeno Costantin Noica.
La morte in Cristo
Paul Evdokimov scriveva che “la fine del mondo non ha un domani terrestre. La morte non è per nessuno un giorno del calendario, e perciò la morte di ciascuno, come la fine del mondo, è per oggi; come pure non è domani, ma è il giorno stesso del pasto eucaristico che si entra nel regno”.
Ieri abbiamo colto l’occasione di una profonda meditazione sul senso cristiano della morte e su come Gesù Cristo ha narrato Dio proprio morendo come uomo. La tavola rotonda ha mostrato come questa sia la speranza cristiana: le età della vita umana non sono solo delle fasi biologiche, ma conservano in sé un’apertura spirituale. Queste tappe spirituali si ritrovano anche nella storia della Chiesa. È forse venuto il tempo di rileggere la storia della Chiesa in modo ecumenico, di rileggerla insieme non soltanto sotto il segno della verità-norma, ma anche sotto il segno della memoria fedele.
Una simile prospettiva ci guida allora a comprendere in modo più attuale anche l’insegnamento di un santo quale Gregorio Palamas, in cui la divinizzazione come compimento dell’umano diventa il paradigma della vera vita.
Il tempo della vita nella chiesa, nell’attualità dell’oggi eucaristico che apre agli ultimi tempi, delinea un’apertura etica. È la liturgia dopo la liturgia. La speranza cristiana significa dare speranza: ai disperati, ai diseredati, ai cacciati, agli esuli, ai profughi di guerra.
Questa speranza concretamente vissuta diventa anche un’apertura ecumenica per compiere insieme quella che Paul Evdokimov, alla conclusione del suo libro sulle Età della vita spirituale, definiva “epiclesi ecumenica”. Il vangelo ci parla dei violenti che s’impadroniscono del regno, ma uno dei segni dell’approssimarsi del regno, scrive Evdokimov, è l’unità del mondo cristiano ancora non visibile. In quest’attesa dell’ultimo compimento prende vita la speranza:
“La grande speranza cristiana, la preghiera di tutte le chiese sale per articolare un’epiclesi ecumenica, per invocare lo Spirito Santo e la sua discesa sul miracolo possibile dell’unità. È il nostro desiderio ardente e la nostra preghiera ardente. Il destino del mondo dipende dalla risposta del Padre ma questa risposta è sospesa la nostra trasparente sincerità, alla purezza del nostro cuore”.
ADALBERTO MAINARDI
a nome del comitato scientifico