Comunione e Solitudine ieri e oggi
XVIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
COMUNIONE E SOLITUDINE NELLA TRADIZIONE ORTODOSSA
Bose, 8-11 settembre 2010
in collaborazione con le Chiese Ortodosse
RELAZIONE DI KALLISTOS WAREKALLISTOS WARE,
Metropolita di Diokleia
“Il regno dei cieli subisce violenza…”
“Il regno dei cieli, dice Cristo, subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11,12). Sono parole che si applicano in modo particolarmente immediato alla vita del solitario. Noi esseri umani siamo creati da Dio a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26-27). Come dire che siamo creati a immagine della santa Trinità, secondo la somiglianza di un Dio che non è solo uno ma uno in tre, di un Dio che è amore reciproco. Siamo icone di un Dio il cui essere è un essere relazionale, un Dio di società e di comunità, anche se in un modo che trascende infinitamente qualunque società e comunità umana. Gli uomini dunque, formati come sono a immagine di questa triuna divinità, sono creati per la relazione e per l’amore e il servizio reciproco. Sono creati come membri di un corpo unico, ed è precisamente questa interdipendenza che è riaffermata nella vita della chiesa (1Cor 12,12-27; Ef 4,25). La stessa parola che indica la persona in greco, prosopon, evidenzia lo stesso concetto, poiché significa letteralmente “faccia”, o “fisionomia”. Io non sono veramente persona finché non mi metto di faccia ad altri, guardando nei loro occhi e lasciando che essi guardino i miei.
Se tutto questo è vero, la conseguenza non è forse che la vita solitaria contraddice ciò che significa essere una persona nella divina immagine trinitaria? La vita in solitudine non è forse un atto di violenza contro il carattere relazionale della nostra natura umana? Questo è un problema che disturba particolarmente san Basilio il Grande. “Chi non sa”, egli protesta, “che l’uomo è un animale mansueto e socievole, non solitario e selvaggio?”. La parola che Basilio usa qui per dire “solitario” è monastikòn, che significa “monastico”. “Nulla”, egli continua, “è così caratteristico della nostra natura quanto l’associarsi l’uno all’altro, l’aver bisogno l’uno dell’altro, e l’amare i nostri simili”. Ciò che disturba Basilio è il fatto che al solitario manca l’opportunità di dimostrare agli altri quella compassione pratica che è fondamentale per il nostro essere uomini. “Di chi laverai i piedi”, chiede Basilio, di chi ti prenderai cura, in che modo potrai essere l’ultimo di tutti, se vivi da solo?”
Non bisogna concludere dalle parole di Basilio che egli fosse contrario per principio alla vita solitaria. Al contrario, secondo san Gregorio di Nazianzo Basilio lottò per riconciliare e unire la vita comunitaria e quella eremitica mediante la fondazione di celle per anacoreti non lontano dalle sue case cenobitiche. E qui certamente possiamo trovare degli inizi di risposta alle difficoltà da lui sollevate. Solitudine e comunione, si può sostenere, non si escludono a vicenda. Sono interdipendenti e complementari. È questa una verità che Cicerone evidenzia quando parla di se stesso come di persona “mai meno sola di quando è sola” (nec minus solum quam cum solus esset). Una persona, in altri termini, può essere sola nel senso che non è nell’immediata compagnia di altri, e tuttavia, se vive un’intensa e creativa vita spirituale, nelle proprie profondità scopre un indissolubile vincolo di comunione con gli altri. Ritiro non significa necessariamente isolamento, solitudine non implica lontananza e disinteresse. Quanti sono compartecipi della nostra umanità possono essere fisicamente assenti, ma sono spiritualmente presenti. La comunione può esistere a molti diversi livelli. Dal suo deserto cristiano, Evagrio Pontico afferma la stessa cosa quando dice che il monachòs, con cui forse intende non solo il monaco ma proprio il solitario, è “separato da tutti e unito a tutti”. Questo descrive esattamente la situazione dell’anacoreta, uomo o donna che sia: “separato da tutti” esternamente, in termini spaziali o topografici, ma interiormente e spiritualmente “unito a tutti” attraverso la preghiera.
L’eremita e il monastero principale
Cerchiamo di esplorare due modi in cui tale interazione fra solitudine e comunione si compie nella pratica. Innanzitutto esploriamo più a fondo la situazione indicata da Basilio, con dei solitari viventi ai margini di una comunità cenobitica e dipendenti da essa. Poi esaminiamo il modo in cui opera il cenobio come preparazione per la vita solitaria.
Due monasteri particolarmente importanti dell’epoca bizantina di mezzo, la Grande Lavra sul Monte Athos fondata attorno al 963 e San Giovanni Teologo a Patmos fondato attorno al 1088, nei loro typica legiferano sul genere di legame intravisto da Basilio fra cenobio e vita solitaria. Alla Grande Lavra sant’Atanasio stabilisce che tra i 120 monaci facenti parte della comunità non più di cinque alla volta siano autorizzati a vivere fuori dal monastero come solitari. Questi “kellioti”, come sono chiamati, ricevono il loro cibo dal monastero. Ciascuno di essi può avere un discepolo che vive con lui; dunque la loro solitudine di fatto non è totale. I “kellioti” continuano ad esser tenuti all’obbedienza all’abate. Con la benedizione dell’abate un monaco può anche vivere da recluso nella sua cella entro le mura del monastero.
Le disposizioni adottate a Patmos da san Cristodulo sono simili. Non più di dodici solitari alla volta sono autorizzati a vivere fuori dal monastero principale. Devono tornare al monastero ogni sabato, rimanendo la notte per l’ufficio di vigilia e partecipando alla liturgia della domenica mattina. Poi tornano ai loro eremi la domenica pomeriggio con cibo sufficiente perché possano mantenersi durante la settimana. Devono venire al monastero anche per le feste più importanti. Mentre sono in monastero i solitari mangiano alla tavola comune, ma non hanno il permesso di parlare con nessuno tranne che con l’abate. Allo stesso modo non devono parlare con estranei quando vivono nei loro eremi durante la settimana. Nei giorni feriali nei loro eremi devono avere un pasto al giorno, dopo l’ora nona, e devono mangiare solo cibo non cotto. I solitari rimangono vincolati a una stretta obbedienza al loro abate; se mostrano segni di volontà propria e di insubordinazione sono immediatamente richiamati a vivere entro il monastero.
Questi due esempi mostrano come le disposizioni intraviste da Basilio, con solitari viventi in prossimità di un monastero cenobitico, possono essere attuate nella pratica. Quello che è particolarmente significativo, in particolare nel caso di Patmos, è il modo in cui i solitari continuano a mantenere uno stretto legame con il monastero, rivisitandolo ogni fine settimana e rimanendo saldamente vincolati all’obbedienza all’abate. Oggi non ci sono solitari a Patmos, mentre sulla Santa Montagna la situazione è considerevolmente mutata rispetto a quella stabilita da Atanasio. Tutti i solitari sull’Athos, è vero, sono in linea di principio dipendenti da uno dei monasteri principali, dato che l’intero territorio athonita è diviso fra le venti case di governo. Ma in pratica il legame dell’eremita con il monastero principale è difficile che sia molto stretto. Certo, l’eremita può talvolta visitare il monastero principale, ma probabilmente lo farà meno frequentemente di ogni fine settimana. Di solito non riceve rifornimenti regolari di cibo dal monastero, e in molti casi non è vincolato a una rigida obbedienza all’abate, benchè possa avere un padre spirituale (magari un altro eremita) che gli fornisce una guida personale.
Gli eremiti all’Athos vivono in un ambiente privilegiato e protetto. Per i solitari fuori della Santa Montagna, vivere entro il territorio di una casa istituita come cenobitica offre ovvi vantaggi. Essi possono ricevere rifornimenti dal monastero principale senza dover uscire fino alla vicina città o paese per fare le spese, e il monastero può proteggerli da visitatori indesiderati. Nell’altro senso, il che è ben più importante, la presenza nascosta di eremiti nascosti approfondirà e arricchirà la preghiera quotidiana dei monaci cenobiti.
“Prima impara a vivere con gli altri…”
In secondo luogo, l’interdipendenza tra vita in comunità e vita in solitudine è evidente nel modo in cui la prima opera come preparazione per la seconda. Come dice abba Lukios nei Detti dei padri del deserto, “se non impari prima a vivere con gli altri, non sarai capace di vivere in solitudine come dovresti”. Il futuro eremita deve prima essere provato e saggiato dall’esperienza della vita nel cenobio.
Questo schema, con la comunità come preparazione per la solitudine, è chiaramente visibile nel monachesimo palestinese dei secoli quinto e sesto. Quando san Saba, giovane di diciott’anni, chiede di essere ammesso alla laura semi-eremitica di sant’Eutimio, quest’ultimo non gli permette di rimanere là ma lo manda al vicino cenobio di Teoctisto. “Figlio mio”, dice Eutimio, “non è bene per te stare in una laura, perché sei ancora giovane. Per un giovane è meglio vivere in un cenobio”. Dopo dodici anni di vita cenobitica Saba ha il permesso di trasferirsi in una grotta vicino al monastero, dove passa cinque giorni della settimana in solitudine tornando al monastero per il sabato e la domenica. Poi, dopo altri cinque anni si ritira nel deserto profondo, senza incontrare nessuno e nutrendosi di piante selvatiche. Quando Saba diviene capo della sua comunità segue la pratica di Eutimio. Non ammette i giovani candidati immediatamente alla laura semi-eremitica sotto la sua direzione, ma li invia a un cenobio speciale istituito per i novizi. Dopo essere stati saggiati nella vita comune essi possono ricevere il permesso di avere una cella propria alla laura. Saba dice a Giovanni l’esicasta: “Come il germoglio precede il frutto, la vita cenobitica precede l’anacoretica”.
Lo schema palestinese è inserito nella legislazione canonica bizantina. Il canone 41 del concilio in Trullo (anno 692) specifica che quanti intendono essere eremiti devono passare almeno tre anni in cenobio sotto l’obbedienza di un abate. Poi devono essere esaminati dal vescovo diocesano, dopodichè passano un ulteriore anno preparatorio in cenobio. “Quando questi quattro anni sono trascorsi”, stabilisce il canone, “se essi persistono nella loro intenzione devono essere reclusi. In seguito non saranno autorizzati ad abbandonare la loro reclusione sotto nessun pretesto, a meno che non sia a beneficio comune o perché ne sono costretti da qualche impellente motivo che mette in pericolo la loro vita; e anche allora devono prima ottenere la benedizione del vescovo locale”.
Oggi le norme del canone 41 in Trullo non sono più osservate con esattezza. Innanzitutto molti monasteri ortodossi sono stavropegici per statuto, e sono dunque fuori della giurisdizione del locale vescovo diocesano. Questa è in particolare la situazione dei venti monasteri che governano il Monte Athos. In tal caso la decisione di autorizzare un monaco a ritirarsi in solitudine spetta esclusivamente all’abate del monastero in consultazione con il consiglio dei fratelli anziani. Inoltre molti monaci vivono in comunità per ben più di quattro anni prima di diventare solitari. Nella Russia del diciannovesimo secolo, ad esempio, san Serafino di Sarov passò otto anni da novizio e altri otto anni da monaco professo nel monastero principale prima di ricevere la benedizione per trasferirsi in una cella solitaria nella foresta alla distanza di quattro miglia.
C’è di più: l’atto del recedere dalla vita eremitica è in pratica meno irrevocabile di quanto in canone 41 in Trullo richieda. Non è infrequente che dei monaci, dopo aver dimorato in solitudine per qualche tempo, chiedano di essere riammessi al cenobio anche se nessun “impellente motivo che mette in pericolo la loro vita” li obblliga a farlo. Una simile richiesta di tornare al monastero principale è normalmente accolta senza grande difficoltà. Le autorità monastiche possono anche ordinare a un solitario di tornare al cenobio, indipendentemente dai suoi desideri. Così accadde a san Serafino: dopo sedici anni di ritiro nella foresta le sue gambe cominciarono a gonfiarsi, ed egli ebbe sempre più difficoltà a camminare fino al monastero per la Divina Liturgia e la santa Comunione. Così l’abate gli inviò un messaggio perentorio con l’ordine di abbandonare il suo eremo e tornare al monastero. Allora però fu autorizzato a vivere in stretta reclusione nella sua cella, senza partecipare agli uffici della chiesa principale.
Bisogna anche fare una concessione al fatto che nel monachesimo dell’oriente cristiano, accanto ai due estremi che sono il cenobio e la vita eremitica esiste una terza situazione intermedia: è la laura, o skiti. Essa può essere considerata come semi-cenobitica o semi-eremitica, a seconda del punto di vista da cui la si guarda. Questa terza via si trovare soprattutto al Monte Athos, nelle skiti di Aghia Anna, Kafsokalyvia, Kerasia e altrove. La skiti moderna è un villaggio monastico con una chiesa centrale circondata da una serie di casette ciascuna occupata da un piccolo gruppo di monaci, normalmente fra i due e i sei. Spesso un postulante va a vivere direttamente in una skiti, senza essere mai passato da un cenobio pienamente organizzato.
La transizione dalla vita semi-eremitica della skiti a una vita pienamente eremitica può avvenire gradualmente, senza drastiche trasformazioni. Può darsi che uno dei due monaci di un determinato kellion sia morto, per cui ne rimane solo uno che dunque dimora per conto suo come un solitario di fatto. Oppure un monaco può scegliere di abbandonare un kellion più centrale e popolato e organizzare la sua dimora da solitario in una casetta più in disparte ai margini della skiti. All’Athos ci sono anche solitari viventi in maggiore isolamento a una certa distanza da ogni skiti. Sovente un monaco vivente in solitudine è raggiunto da uno o più discepoli, e passa così gradualmente da un genere di vita eremitico a uno semi-cenobitico.
L’esistenza nel monachesimo orientale della skiti o laura accanto al cenobio vero e proprio e alla cella dell’eremita significa che in pratica la linea di demarcazione tra vita in comunità e vita eremitica è alquanto sfocata e indistinta. Fra i due estremi di piena comunità e piena solitudine possono frapporsi varie possibilità, e un monaco nel corso della sua carriera monastica può passare da diverse situazioni. Questa varietà è vista nell’ortodossia non come un difetto ma come arricchimento e benedizione. Comunità e solitudine possono sovrapporsi in maniera positiva e donatrice di vita.
Il programma quotidiano del solitario
Come dovrebbe un solitario organizzare il suo tempo ogni giorno? Anche qui c’è varietà, ed è giusto che sia così. Come afferma William Blake, “una sola legge per il leone e per il bue significa oppressione”. San Cristodulos, lo si è detto, prevede che i suoi eremiti vivano di vegetali crudi e che mangino una volta al giorno di pomeriggio. Una descrizione un po’ più completa del programma quotidiano dell’eremita e della sua dieta ci è fornita da un testimone del quattordicesimo secolo, san Gregorio Sinaita. Egli divide il giorno in quattro periodi di tre ore ciascuno. Partendo dall’aurora, il solitario esicasta impiega la prima ora del giorno in ciò che Gregorio chiama “ricordo di Dio attraverso la preghiera e la vigilanza del cuore”, cioè in primo luogo la recitazione della preghiera di Gesù. La seconda ora è dedicata alla lettura e la terza alla psalmodia, la recitazione del salterio. Gregorio probabilmente prevede che il solitario conosca il salterio a memoria. Il secondo e il terzo di questi periodi di tre ore sono consacrati alle stesse tre attività, nello stesso ordine. Poi, alla decima ora del giorno il solitario prepara e consuma il suo pasto. All’undicesima ora, se vuole, può prendersi un breve riposo. Alla dodicesima ora recita vespro. Gregorio non menziona le ore minori della giornata, cioè le ore di terza, sesta e nona, ciascuna delle quali prende una decina di minuti: facilmente sono dette rispettivamente nei tre periodi assegnati alla salmodia. Non c’è neppure un riferimento alla compieta, che forse va detta attorno al tramonto, non molto tempo dopo vespro.
Per la notte Gregorio propone tre programmi alternativi. Gli “incipienti” devono passare metà della notte svegli e l’altra metà dormendo, con mezzanotte come punto di divisione; non importa quale metà della notte è usata come veglia. Quelli “a metà del cammino” (mesoi) devono passare le prime due ore della notte svegli, le successive quattro dormendo e le sei restanti svegli. Il “perfetto”, aggiunge Gregorio con asciutto tocco di umorismo, non ha bisogno di dormire, per cui può passare tutta la notte stando in piedi e rimanendo sveglio. Nelle ore di veglia della notte il solitario recita il mattutino (orthros) e probabilmente prima di esso il mesonykton, o ufficio di mezzanotte; poi, all’aurora, l’ora prima. Il resto della veglia notturna si può passare ancora nella recitazione del salterio, nella lettura, e soprattutto nella pratica della preghiera di Gesù. È significativo che il solitario non è esentato dalla recitazione dell’ufficio divino. Ma cosa succede se non sa leggere? Gregorio non lo dice; probabilmente in questo caso si prevede che egli dica la preghiera di Gesù, e di fatto esistono regole precise, che specificano quante centinaia di preghiere di Gesù devono sostituire le diverse parti dell’ufficio divino.
Come nei regolamenti per Patmos, Gregorio prevede che il solitario mangi solo una volta al giorno, dopo l’ora nona e prima del vespro. Egli non fa menzione di alcun pasto leggero prima di questo. Probabilmente durante la quaresima il solitario, seguendo le normali regole ortodosse, non mangiava fino a dopo vespro. Nella prima settimana di quaresima e nella settimana santa osservava indubbiamente un digiuno più rigoroso, come fanno molti monaci nei cenobi. Gregorio permette al solitario di mangiare una libbra di pane al giorno, di bere due coppe di vino e tre di acqua. Altrimenti il suo cibo deve consistere in “qualunque cosa sia a portata di mano, non qualunque cosa il tuo impulso naturale ricerca, ma ciò che la provvidenza provvede, da essere mangiato senza troppa spesa”. Questo probabilmente comprendeva verdure fresche, quando ce n’erano; perché molti eremiti, e tale è il caso al Monte Athos oggi, hanno un piccolo orto.
Gregorio Sinaita non è molto esplicito sul luogo di lavoro nel programma del solitario. Dice soltanto: “Ci sono tre pratiche benedette da Dio: la salmodia, la preghiera e la lettura; e il lavoro manuale per quelli il cui corpo è debole”. Il che fa pensare che un solitario “forte” non aveva bisogno di lavorare; ma è difficile che questa sia l’intenzione di Gregorio, dato che dal quarto secolo in poi viene dato per scontato nell’oriente cristiano che il monaco non deve chiedere l’elemosina ma deve guadagnarsi il cibo. Sulla scorta di san Paolo il monaco dice: “Alle necessità mie hanno provveduto queste mie mani” (At 20,34). “Lavoro manuale”, nel caso di un solitario, può significare qualche semplice operazione di manualità quale la confezione di ceste. Gli attuali eremiti dell’Athos spesso si occupano dipingendo icone, intagliando il legno, preparando incenso, o fabbricando rosari per la preghiera (komvoschoinia). I salmi o la preghiera di Gesù può essere recitata durante queste operazioni di manualià. Ma quando il solitario intende dire la preghiera di Gesù con concentrata “vigilanza del cuore” non cerca certo di combinarla con un’attività esterna.
Gregorio non solleva la questione del silenzio. Il solitario riceve talvolta dei visitatori? È autorizzato a cercare altri eremiti dei dintorni e parlare con loro di questioni spirituali? Cristodulos scoraggia simili contatti. Tuttavia a giudicare dai Detti dei padri del deserto la maggior parte dei “vecchi” del deserto egiziano erano notevolmente socievoli; visite reciproche tra reclusi erano accettate come normali e perfino desiderabili. Questa continua ad essere la pratica all’Athos oggi. Ma è chiaro che singoli anacoreti possono sentire la chiamata, o per un tempo o per tutta la vita, di entrare in un totale silenzio. Serafino di Sarov in una fase del suo soggiorno nella foresta non parlò con nessuno; non apriva la porta ai visitatori e se incontrava qualcuno nei sentieri del bosco si metteva a giacere sulla faccia fino a che l’altro si fosse allontanato.
Il programma delineato da Gregorio Sinaita è indubbiamente severo, anche se non disumano. Più tardi nel tredicesimo secolo, san Callisto e sant’Ignazio Xanthopulos proposero un regime un po’ più facile. Al tramonto il solitario deve dire la preghiera di Gesù per circa un’ora, e poi recitare compieta continuando con un’altra mezz’ora di preghiera di Gesù. Poi, dopo un periodo di esame di coscienza si ritira per riposare, e dorme circa cinque o sei ore secondo il periodo dell’anno. La restante parte della notte è dedicata alla preghiera di Gesù e all’ufficio divino (mesonyktikon, orthros, l’ora prima). La mattina va trascorsa con la preghiera di Gesù e la lettura, specialmente delle Scritture. Le ore minori vengono dette nei momenti appropriati. Quando è giorno di digiuno il solitario mangia una volta sola, all’ora nona. Negli altri giorni può mangiare due volte, con il primo pasto a mezzogiorno. Dopo il pasto di mezzogiorno può dormire un’ora, se è estate e le giornate sono lunghe. Nel pomeriggio pratica il lavoro manuale, recitando nel contempo la preghiera di Gesù. Al tempo appropriato si dice vespro, seguito probabilmente dal secondo pasto se questo viene preso. Si permette una certa flessibilità per quanti trovano difficile dire la preghiera di Gesù per lunghi periodi. Così gli Xantopuloi, come Gregorio Sinaita, prevedono che il solitario reciti l’ufficio divino per intero. Le regole degli Xantopuloi a proposito di cibo e sonno corrispondono più o meno a quanto sarebbe richiesto a un monaco in un cenobio. Qui, nel programma degli Xantopuloi più che in quello di Gregorio, vi è un modello che potrebbe benissimo essere seguito da un solitario nel ventunesimo secolo.
Gli Xantopuloi sottolineano la necessità che il solitario legga la Sacra Scrittura, e questo è un punto menzionato spesso anche in altre fonti. Era pratica di Serafino di Sarov, ad esempio, quand’era recluso nella sua cella entro il monastero, di leggere ogni settimana i quattro Evangeli per intero: Matteo lunedì, Marco martedì, Luca mercoledì, Giovanni giovedì; nei giorni restanti gli Atti e le lettere. In tal modo la vita solitaria diviene una vocazione evangelica e scritturistica per eccellenza.
“Battersi con leoni e tigri”
Quanto si diceva sopra sul regime proposto dagli Xantopuloi come “un po’ più facile”, va inteso in termini relativi; perché presa in se stessa, la vocazione solitaria non è mai facile. Paragonando il genere di vita comunitario con quello solitario, Evagrio dice che quando un monaco dimora con altri i demoni lo attaccano indirettamente, attraverso le molestie causategli dai fratelli e attraverso le varie tensioni esistenti in comunità. Quando invece egli va nel deserto, i demoni non usano più altri uomini come intermediari ma lo attaccano direttamente. Per quanto irritanti i nostri fratelli possano essere, è incomparabilmente più facile sopportare loro che non incontrare i demoni faccia a faccia. Dunque proprio come i demoni sono più terribili degli altri uomini la vita solitaria è molto più dura di quella comunitaria. I santi della tradizione russa confermano questa analisi. “La solitudine richiede la fortezza di un angelo”, dice san Nilo Sorsky. San Serafino di Sarov, che conosceva di prima mano la vita del cenobita e quella dell’eremita, non aveva illusioni su quale delle due fosse la più esigente: “Era restio”, ci vien detto, “a consigliare altri a vivere nel deserto. Uno che vive nel deserto, avvisava, deve essere come una persona inchiodata alla croce; e aggiungeva che se nella lotta contro il nemico i monaci nel monastero combattono come se si battessero con colombe, l’uomo nel deserto doveva combattere come uno che si batte con leoni e tigri”.
“Acquisisci la pace interiore…”
Occorre dire qualcosa di più, prima di chiudere, sulla difficoltà sollevata all’inizio. Come possiamo rispondere a san Basilio quando questi chiede: “Di chi laverai i piedi… se vivi in solitudine?” Che servizio rende il solitario al mondo che lo attornia? Non è egoista e antisociale ritirarsi in reclusione, volgendo le spalle, così sembra, alle angosce e alle sofferenze degli altri uomini? Si tratta di una critica alla vita solitaria che è stata fatta spesso, già nel passato e più diffusamente nel nostro tempo. Cosa rispondiamo?
È ovviamente possibile replicare con le parole di Cristo: “Quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto” (Mt 6,6). Cristo stesso si ritirava regolarmente “in un luogo deserto” per pregare (Mc 1,35; Lc 4,42). Ma certamente, quando Cristo dice “chiudi la porta” parla di qualcosa che dobbiamo fare ogni tanto, in modo temporaneo, prima di tornare nuovamente ai doveri e alle richieste della nostra vita quotidiana in società. Non suggerisce di tenere la porta costantemente chiusa. Afferma semplicemente che nella vita di ogni persona attiva nel lavoro sociale occorre una dimensione di solitudine.
Cosa diremo dunque di coloro per i quali la solitudine è una condizione permanente? Fra tutte le possibili risposte alla domanda di san Basilio, la migliore a mia conoscenza è quella fornita da san Serafino. “Acquisisci la pace interiore, egli dice, e migliaia attorno a te troveranno la salvezza”. Il solitario è in grado supremo uno che cerca con la grazia di Dio di acquisire la pace interiore; ed è precisamente in questo modo che assiste ali altri. Se in ogni generazione ci sono non più di un pugno di persone, uomini e donne, che nella reclusione hanno acquisito la pace del cuore, essi hanno sull’intera comunità umana che li circonda un effetto creativo che supera ogni calcolo (anche se naturalmente l’acquisizione della pace interiore è possibile anche a quelli che vivono in mezzo alla società).
Ora i solitari che hanno acquisito la pace interiore possono certamente aiutare gli altri uomini direttamente agendo da padri e madri spirituali, dando consigli a quanti vanno da loro di persona cercando assistenza. Una guida di questo tipo fu l’eremita egiziano sant’Antonio, che nella seconda metà della sua vita divenne, con le parole del suo biografo sant’Atanasio di Alessandria, “un medico dato all’Egitto da Dio”. Ma le parole di san Serafino hanno un campo d’applicazione più ampio. Attraverso la loro preghiera nascosta i solitari aiutano anche moltissimi altri ai quali la loro esistenza è totalmente sconosciuta. Diventando fiamme ardenti di preghiera i solitari trasformano il mondo circostante solo con la loro esistenza, con il semplice fatto della loro segreta presenza. È questo il fondamentale contributo fornito da chi è “separato da tutti e unito a tutti”.
Kallistos Ware
Metropolita di Diokleia