Il conflitto come occasione

Photo by Pawel Czerwinski on Unsplash
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Fratelli, sorelle,

più volte, in più passaggi e con sfumature differenti, nella nostra Regola si parla di situazioni problematiche come contraddizioni e difficoltà, litigi e conflitti. Per esempio: “Accetta le difficoltà, le opposizioni, le tensioni e anche i litigi che possono avvenire in comunità” (RBo 13). Altrove si ricorda che in una comunità si vive insieme a persone che non si sono scelte e con cui non è detto che nasca simpatia o che ci sia comprensione reciproca. In comunità sorgono “tensioni e concorrenze” (RBo 26). Insomma, in varie maniere ci viene ricordata l’esistenza di tensioni e anche di conflitti all’interno della comunità. L’argomento è esteso e ci dovremo ritornare più volte.

Questa sera sviluppo solo un’affermazione: la presenza di conflitti, dunque anche di scontri, in comunità non va rubricata immediatamente sotto la voce “scandalo”. “Certo”, afferma la Regola, “questi non devono essere abituali” (RBo 13), tuttavia essi sono una dimensione costitutiva dell’esistere. Sono anche un’esperienza ordinaria e ineliminabile dell’umano. La vita avviene anche tra i conflitti. La loro presenza è legata al fatto ineliminabile e vitale della diversità. Siamo diversi e questo significa che sentiamo e pensiamo in maniere diverse, divergenti e anche opposte e questo può suscitare conflitti. Siamo diversi e non stiamo al mondo allo stesso modo. E anche il riferimento al vangelo non agisce in modo identico per tutti. Si ha a che fare, anche quando si tratta di cristiani, anzi di monaci, di persone che hanno scelto di vivere radicalmente il vangelo, di tener conto delle immaturità di ciascuno, delle patologie, delle peculiari debolezze, dei caratteri, e poi delle ferite pregresse, dei traumi mai affrontati e che anche in età avanzata fanno sentire il loro peso, così come degli errori e delle difficoltà relazionali che si accumulano, essi pure, in una vita comunitaria che dura da decenni e che magari a lungo vengono sottaciuti, o sopportati, o minimizzati, ma poi esplodono.

Il problema, potremmo esprimerlo così: non il conflitto in sé è il problema, ma il “cosa farne”, il come affrontarlo, il come gestirlo, con quali mezzi, e anche entro quali limiti contenerlo, perché certo, vi è una misura che non può essere superata, pena lo sfaldarsi del corpo comunitario. Forse, vedere il conflitto come un’occasione e non come un problema, potrebbe, mutando lo sguardo che si ha su di esso, cambiare anche il modo di farvi fronte e impedire che ad esso si reagisca solo con la rimozione o l’angoscia o la paura o la volontà di fuga e di abbandono.

Come primo passo, potremmo pensare di intendere il conflitto anzitutto come una domanda. In questo modo esso comincia ad agire positivamente in noi, nel nostro intimo. Dunque intenderlo come un’esplosione che origina molte domande. Perché è esploso? Cosa dice di me, dell’altro e del corpo comunitario? Che cosa dice di noi? Che cosa è giunto a saturazione ed è fuoriuscito dagli argini che fino allora lo contenevano? Solo attraverso questo doloroso cammino in mezzo a molte domande, si può aprire la strada verso una modalità positiva di affrontarlo, cioè di farne qualcosa che non sia solamente distruttivo.

Di certo, questa affermazione elementare sulla inevitabilità e anche necessità del conflitto ci porta direttamente a una seconda. Troppo spesso in comunità ci si lamenta di difficoltà, contraddizioni, conflitti, appunto, e il lamento diviene immediatamente lamento contro la vita comunitaria e monastica. Ma spesso si tratta solamente di difficoltà inerenti al vivere in quanto tale. E non possono divenire occasione per dire che si è sbagliato tutto scegliendo la vita monastica. La vita monastica non è al riparo dei guai della vita tout-court. Solo se si cercasse nella vita monastica una via di fuga dai guai e dalle contraddizioni della vita stessa, allora il conflitto o la contraddizione ci potrebbero scandalizzare. Dovremmo invece preoccuparci di non fare della nostra vita, una vita di privilegiati. Da questo ci mette in guardia la Regola quando parla delle “difficoltà liberatrici” (RBo 25). “Se la fatica, il lavoro non fa corpo con la preghiera, allora quella che dovrebbe essere una vita di ricerca di Dio nelle difficoltà liberatrici, diventerebbe una vita di privilegiati” (RBo 25). Vi è una fatica, dice la Regola che è essenziale perché la nostra vita non diventi una vita di esenzione dalla fatica e, spesso dal dramma, del vivere. Quella fatica e quella drammaticità, e a volte anche tragicità, che spesso non è risparmiata a chi vive in famiglia e conosce obbedienze e sottomissioni, ristrettezze, sobrietà e perfino povertà, molto più di noi che pure cerchiamo di assumere queste dimensioni per vivere, come diciamo, radicalmente l’evangelo. Rifuggire la fatica, perseguire il facile, non voler sentire lo sforzo e il male che fanno in noi le difficoltà e i conflitti, questo sì, che è un tradimento della serietà della vita.

Perciò, fratelli e sorelle, siamo sobri e vigilanti perché il nostro Avversario, il Divisore, come leone ruggente si aggira cercando una preda da divorare. Resistiamogli saldi nella fede accettando le difficoltà, le fatiche e i conflitti dell’esistenza come occasione di conoscenza e di purificazione di noi stessi e del corpo comunitario. E tu, Signore, abbi pietà di noi.

fratel Luciano