Un piccolo cono di luce

Andries de la Lande Cremer, L’ultima cena, ospiti e volontari della mensa del centro pastorale ecumenico diaconale De Open Hof, Paesi Bassi.
Andries de la Lande Cremer, L’ultima cena, ospiti e volontari della mensa del centro pastorale ecumenico diaconale De Open Hof, Paesi Bassi.

14 aprile 2022

Missa in Coena Domini
Omelia di fr. Sabino Chialà, priore di Bose

Giovanni 13,1-15

1 Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. 2Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, 3Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, 4si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. 5Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugamano di cui si era cinto. 6Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». 7Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». 8Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». 9Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». 10Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». 11Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».
12Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? 13Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. 14Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. 15Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi.


Con la domenica delle Palme siamo entrati nella grande settimana, la settimana santa, in cui riviviamo la passione, morte e resurrezione del Signore. Essa costituisce il cuore della nostra fede, ed è per noi il magistero per eccellenza, la parola definitiva della rivelazione di Dio, in Gesù Cristo. I misteri che vi contempliamo sono dunque eventi salvifici che il Signore rinnova per noi oggi, ma sono anche parole a noi rivolte, perché aderiamo sempre più a quel “sentire di Cristo” di cui parla Paolo, nell’inno della lettera di Filippesi.

Abbiamo bisogno di imparare da lui ad affrontare anche le nostre passioni, i crogiuoli in cui vita ci induce. La passione di Cristo che noi celebriamo non è estranea alle nostre passioni, ai travagli del nostro mondo, delle nostre comunità, di ciascuno di noi. E noi vogliamo vivere questa Pasqua non come fuga da ciò che ci circonda - e che forse mai come in questo momento vorremmo non vedere – ma consapevoli del momento. Altrimenti quello che celebriamo non sarebbe la Pasqua del Signore, ma un allucinogeno o un anestetico.

Noi vogliamo invece vivere la Pasqua del Signore al cuore delle nostre contraddizioni e dei nostri travagli. Vogliamo celebrarla e ascoltarla… ascoltarne il messaggio proprio lì, nel cavo delle nostre esistenze reali e drammatiche, che vanno dalle guerre che continuano a insanguinare questa nostra terra (Ucraina, ma non solo… Tigrai, Yemen, Congo…) alle lacerazioni e contraddizioni che feriscono il tessuto delle nostre vicende personali e comunitarie.

La domenica delle Palme abbiamo seguito Gesù sul monte degli Ulivi. Lo abbiamo visto fissare la città di Gerusalemme, che in quel momento non era per lui solo un luogo geografico. Era la raffigurazione sintetica di quell’intrico di vicende, relazioni, meschinerie e debolezze di cui è fatto il nostro mondo. In quel momento ne ha intuito tutta la drammaticità, per lui ma non solo. La drammaticità di un destino che stava per compiersi. Avrebbe potuto sottrarsi... Ma Gesù sceglie di scendere dentro quella città (questa l’immagine di Luca: Gesù scende dal monte per immergersi nella città; cf. Lc 19,37). Non lo fa come eroe sicuro di sé, ma con gli occhi bagnati di pianto: “Alla vista della città, pianse” (Lc 19,41). Lo fa come un essere umano che sceglie di non venire meno al suo compito di restare umano; e come Figlio di Dio, che non diserta la sua missione, quella cioè di ricavare a Dio uno spazio al cuore della città e delle sue contraddizioni e miserie.

È quanto cercano di narrare i gesti compiuti da Gesù in quei pochi giorni in cui resterà in città, fino al momento in cui ne uscirà, carico della croce, verso il luogo del Golgota: creare uno spazio a Dio, al cuore di contraddizioni e miserie, immettere germi che possano fruttificare, col tempo, ravvivare parole che sembrano troppo deboli per scalfire l’enormità del male che avviluppa la città.

I suoi sono gesti dimessi, per nulla spettacolari. Gesti però che, come un seme in un blocco di cemento, potranno diventare albero e spaccare quell’ottusità che sembrava irreversibile. Questa è la Pasqua! Questo è il mistero che vogliamo ancora celebrare e ascoltare in questi giorni.

Il primo dei gesti compiuti da Gesù lo abbiamo ascoltato nel brano evangelico appena proclamato. Un gesto semplice, compiuto nel contesto familiare della cena di Gesù con i suoi discepoli. Questo primo giorno del triduo santo è caratterizzato da un clima familiare: Gesù e i suoi a cena.

Familiare ma drammatico… per Gesù. Lui è infatti l’unico a percepire il dramma, che dunque porta da solo. I suoi non sono ancora fuggiti, ma comprendono poco o nulla di quanto sta accadendo. Lo dimostra Pietro, con le sue parole fuori luogo; e gli altri con il loro silenzio, ancora più sconcertante.

Ma neppure questa incomprensione toglie al Maestro la libertà di essere se stesso fino in fondo: “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino in fondo” (v. 1). “Fino in fondo”, che vuol dire anche “senza ripensamenti”, senza lasciarsi condizionare dal contesto né dalle reazioni. Gesù sa che è giunta “la sua ora” e va “fino in fondo”. Esplicita ciò che ha sempre voluto essere per quei discepoli, lo dice loro un’ultima volta con un gesto, e si prepara a pagarne il prezzo.

Gesù è un Maestro libero, soprattutto da se stesso, che dunque non ha niente da perdere perché ha già dato tutto. Ed è proprio quella sua libertà da sé che crea lo spazio per un ulteriore tratto di strada in una vicenda che sembrava ormai finita. Finita perché condannata da altri, da quella città in cui Gesù, con il suo gesto, ricava come un piccolo cono di luce all’interno di una notte tenebrosa.

Possiamo prendere questa immagine a spiegazione del gesto della lavanda dei piedi: creare un piccolo cono di luce, che non dissiperà le tenebre, non impedirà a Gesù di morire, ma insinuerà in quella vicenda un germe invincibile e inarrestabile, di cui noi qui riuniti questa sera siamo ancora testimoni. Senza quel germe noi non saremmo qui.

“Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo” (v. 2). Sono a cena, nella convivialità, ma è una cena ferita dall’azione del divisore, di colui che è “bugiardo e padre della menzogna”, dice altrove il quarto vangelo (Gv 8,44). Niente di peggio di quando si avvelena il luogo dell’intimità e delle relazioni più fraterne.

Ma Gesù non si lascia irretire. Non si lascia sconfiggere dal Satana. Non vuole lasciargli più spazio di quello che già occupa. Questo richiede forza e lui sa dove trovarla: nella sua relazione con il Padre. Dice infatti l’evangelista: “Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò…” (vv. 3-4). Sapendo… di non essere solo, anche quando è oggettivamente solo! La sua forza gli viene dal Padre che crede in lui e che per questo gli ha “dato tutto nelle mani”, cioè gli dà la forza di agire.

“Si alza” dice Giovanni: un gesto deciso, che indica la volontà di reagire, di non abdicare, di andare “fino in fondo”. E comincia a creare… uno spazio luminoso in quella stanza di tenebra: “Depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita, poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto” (vv. 4-5).

Sono i gesti del servo, certo, ma sono innanzitutto i gesti di un vero maestro, la cui opera si misura dalla sua capacità di creare luce dove le tenebre si addensano, di creare unità dove il tentatore viene a dividere, di mettere vita in un contesto segnato dalla morte. Quelli di Gesù sono i segni del vero maestro.

E lava i piedi… I piedi, soprattutto in un mondo in cui si camminava spesso scalzi o con calzature esili, sono la parte del corpo che più di altre porta i segni del cammino fatto, delle ferite procurate dai sentieri accidentati della vita. Lavare i piedi significa prendersi cura di quelle ferite: accoglierle, lavarle, asciugarle (notiamo la precisione di Giovanni nel descrivere i vari gesti).

Ma i piedi sono anche quello con cui i discepoli continueranno a camminare. Lavarli, rimetterli in sesto, dice dunque anche il desiderio di Gesù, e di ogni vero maestro, che quei discepoli continuino a camminare. Se con il pasto, Gesù esprime il suo desiderio che i suoi continuino a vivere (dare da mangiare a qualcuno significa dirgli: “Voglio che tu viva”), lavando loro i piedi, Gesù dice loro il suo desiderio che continuino a camminare: “Voglio che tu cammini”. La gioia di un vero maestro è vedere dei discepoli che camminano.

Pietro non comprende… Vorrebbe camminare, ma in un altro modo. Lui vuole un maestro forte, che resti “signore” alla maniera umana, che non abdichi al suo “onore” di essere servito dai suoi (un altro genere di tradimento, non meno pericoloso di quello di Giuda). E Gesù deve tornare a ricordargli che la forza si allea facilmente con la violenza, e che andando per quella strada si giungerebbe presto o tardi alla stessa conclusione, nello stesso vicolo cieco.

Si tratta invece di cambiare prospettiva. Gesù sa che è difficile comprendere questo altro modo (la logica del seme). È difficile per Pietro e lo è ancora per noi. Lo sa e lo rispetta. Chiede solo un ultimo atto di fiducia: “Quello che faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo” (v. 7). Tante cose le capiremo solo nel momento in cui ci saranno necessarie; per ora ci è chiesto di non venire meno alla fiducia.

Terminato di lavare i piedi di tutti i discepoli presenti, anche di Giuda, Gesù torna a sedersi, riprendendo il posto simbolico del maestro: “Riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro” (v. 12). Chiede dunque se hanno capito, e chiede loro di fare altrettanto, non a lui, ma tra di loro: “Se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri” (v. 14). Gesù – come un buon Maestro – non chiede la restituzione del favore, ma che ciò che lui ha fatto ai discepoli, essi lo facciano gli uni gli altri. Ciò equivale a chiedere di fare ciò che è in loro potere perché il cono di luce continui a fendere la tenebra che si addensa intorno.

Ecco dunque come Gesù comincia ad affrontare la città nella quale ha accettato di entrare: creare uno spazio di luce, all’interno di un groviglio complesso e schiacciante. Mettere germi di vita in quello spazio che sta per travolgerlo con la sua forza devastante. Ai suoi che accolgono da lui questo gesto, chiede poi di continuare l’opera. Chiede di non cedere allo scoraggiamento dinanzi a orizzonti di guerre e distruzioni, di male inatteso e insensato.

Entriamo dunque anche noi nella celebrazione di questa Pasqua del Signore, accogliendolo come colui che ci lava i piedi, che ci dice il suo desiderio che continuiamo a vivere. E accogliamo quel suo “anche voi…”. Ciascuno di noi si senta chiamato a questa missione: servire il fratello e la sorella, ridicendogli: “Voglio che tu continui a camminare”; “la mia più grande gioia sarà vedere che continui a farlo”.

Questo è anche il servizio cui chi presiede si impegna, oggi ancora, chiedendo già perdono per tutte le volte in cui non ne sarà capace.