L’impegno di Ignazio IV Patriarca di Antiochia per una “chiesa in uscita” e “in dialogo”

Ignazio IV Patriarca di Antiochia e Giovanni Paolo II
Ignazio IV Patriarca di Antiochia e Giovanni Paolo II

«Abbiamo bisogno di non avere paura
di uscire da casa nostra»
1.

Ciascuno di noi, andando avanti nella vita, matura, per necessità e per esperienza, una certa capacità di passare come al setaccio le miriadi di sentenze che quotidianamente attraversano le nostre orecchie e trattenere come perle preziose quelle che custodiscono in sé il riflesso inconfondibile dell’esperienza che le ha generate. È questo il caso di queste parole di Ignazio IV, patriarca greco-ortodosso di Antiochia tra il 1979 e il 2012. La radice profonda da cui si diramano i suoi così variegati interessi, dall’istruzione al dialogo ecumenico, dal confronto con l’Islam all’incontro con il mondo contemporaneo, è proprio questo irrefrenabile bisogno di uscire incontro all’altro.

È questo istinto che ha spinto il giovane Habib ad uscire dal suo villaggio natale di Mhardé, minuscola roccaforte cristiana nella grande Siria islamica post-ottomana, per recarsi a studiare a Beirut, negli anni ’30 del secolo scorso. Si è trattato di un primo passo decisivo in un percorso che ha fatto del futuro patriarca un “uomo in uscita”. A Beirut infatti Habib ha visto che cos’è la città, quel crogiolo umano che respira modernità; ha imparato il francese e l’inglese, dandosi così una prima chiave di accesso all’Occidente; incontrando per la prima volta cristiani di diverse confessioni, ha scoperto che la cristianità è articolata, e divisa. Beirut è il trampolino che gli dà lo slancio per volare, al termine della seconda guerra mondiale, in quello che era insieme uno dei centri più ferventi del pensiero occidentale, cattolico e laico, e uno dei luoghi di maggiore fermento teologico dell’Ortodossia: Parigi. Il giovane diacono vi conosce i grandi teologi della diaspora russa e si confronta con gli esistenzialisti cattolici.

L’“uscire da casa nostra”, tuttavia, non è un fuggire di casa. Se non bisogna avere paura di uscire, non si deve nemmeno aver paura di tornare. È così che, terminati gli studi all’istituto Saint Serge nel 1953, Ignazio torna in Oriente, viene ordinato presbitero e, da uomo in uscita, diviene un pastore capace di sognare una chiesa in uscita, una guida decisa a trasmettere a chiunque incontri la passione per l’incontro e il dialogo.

La prima forma di impegno ecclesiale che il trentenne teologo vive in questo senso è lo spendersi anima e corpo nella “formazione della persona”. “Ciò che ancora mi importa più di tutto è questo – affermerà ancora 50 anni più tardi, alla fine della sua vita –: che ogni persona impari a ragionare e a ragionare bene”2. Concretamente, Ignazio declina questa passione investendo tanto il suo bagaglio culturale e la sua ricchezza spirituale quanto le sue indiscutibili qualità manageriali nell’impresa di dotare la su chiesa di validi istituti formativi. È così che, quando nel 1961 viene nominato vescovo ausiliare del patriarca, decide con fermezza di svolgere il suo ministero in modo a dir poco originale: si stabilisce nei ruderi dell’antico monastero di Balamand, nel Nord del Libano, vi fa ripartire la vita monastica e vi crea una scuola superiore e un’università.

Quando poi sarà costretto ad assumere pienamente tutte le incombenze della carica episcopale, venendo nominato prima vescovo della diocesi di Latakia, travagliata da una scissione interna, poi, nel 1979, patriarca, sarà soprattutto con la predicazione e l’esempio (mai disgiunti l’una dall’altro!) che egli riuscirà a trasmettere il suo desiderio di incontro a tutta la sua chiesa e a quegli stessi “altri” con cui entrerà in dialogo. Oltre all’impegno costante con il Consiglio ecumenico delle Chiese, di cui ricopre pure la carica di segretario tra l’‘83 e il ’91, basti ricordare la fondazione del Consiglio delle chiese del Medio Oriente, l’intenso dialogo con i siro-ortodossi, che sfocerà nella possibilità di intercomunione tra i membri di queste due chiese antiochene, e l’avvio del dialogo bilaterale cattolico-ortodosso grazie all’accordo di Balamand del 1993.

Quanto ai contenuti di questa vera e propria teologia dell’incontro, riassumerli è tanto semplice quanto rischioso, per almeno due motivi. Prima di tutto, cogliendo il cuore del suo pensiero teologico, che non è altro che un puro invito all’amore, si rischia di percepirlo come banale. È lo stesso Ignazio ad avvertire questo pericolo, quando afferma:

Quanto a noi cristiani, è nostro compito svelare, tracciare, attraverso tutto ciò, il volto del Cristo veniente. Servi inutili, servi crocifissi, dunque infinitamente liberi di amare ... Perché l’unica soluzione al problema dell’incontro delle religioni e delle culture nell’unificazione della terra è l’amore, e non in un senso relativo o sentimentale, ma nel senso che “Dio è amore” (1Gv 4,8)3.

La centralità dell’amore non dev’essere intesa in senso relativo o sentimentale, non cioè come vincolo di appartenenza, esclusivo ed escludente, né come esaltazione del puro sentimento sulla ragione, ma come principio guida di ogni riflessione. Gli accenti polemici del patriarca contro la riflessione teologica non sono dunque un rifiuto della teologia, ma la condanna profetica di una certa teologia. Una teologia che non sfoci dall’amore per tutti i figli del Dio-Amore è infatti non solo inutile, ma persino dannosa, nella misura in cui finisce per dare stabile fondamento alle divisioni tra cristiani:

Il vero problema in quello che chiamiamo unità è un problema di carità e d'amore, prima di tutto il resto. Sono infatti convinto che le cosiddette divisioni non sono altro che espressioni d'inimicizia. Se si sono create, è perché a un certo punto abbiamo smesso di amare l'altro. Partendo da questa motivazione, si è poi cercato di perseguire la politica del differenziarsi dagli altri; si sono cercate le differenze: si era pronti a discutere, ma delle differenze... Per evitare con ogni mezzo il rischio di essere insieme!4

Più in generale, l’amore deve essere il fondamento costante di ogni sete di conoscenza. È a partire da questo nucleo teologico che il patriarca di Antiochia invita la chiesa ad “andare sempre più lontano! Non si tratta di far perdere alla chiesa ciò che è, in nessun caso, ma che vada più lontano, oltre le frontiere visibili della chiesa”5.

È questa la sorgente di ogni forma di dialogo, da quello con “i suoi fratelli più vicini, quegli arabi musulmani in mezzo ai quali essa [la chiesa di Antiochia] vive, e per i quali deve umilmente offrire la sua testimonianza e pregare”6 a quello con gli uomini di scienza; è questo che dà sempre nuova energia nell’impegno a favore del creato e dell’umanità sofferente.

Infatti, se Dio è amore, “si deve amare tutto ciò che è vivente”7; se Dio è amore, “dobbiamo sempre ricordare che l'amore viene prima della conoscenza. E così, con la grazia di Dio, possiamo scoprire nell'altro un fratello o una sorella”8.

Il secondo rischio nel considerare il pensiero teologico del patriarca di Antiochia è quello di accostarvisi solo a partire dai suoi discorsi. I suoi interventi infatti, per quanto preziosi, non sono numerosi né esaustivi. Essi devono essere letti tenendo in filigrana l’esistenza quotidiana del patriarca, i suoi concreti atti di incontro. Anche in questo caso, è lo stesso Ignazio IV a dircelo raccontando un simpatico episodio della sua vita:

Mi ricordo che un giorno ero insieme al patriarca Gregorio Laham e, mentre eravamo a tavola, gli ho detto: “Monsignore, noi abbiamo l'abitudine di sederci a tavola e di mangiare insieme. È un gesto molto evocativo, come sa. La tavola del giovedì santo ha un grande significato per noi”. E lui ha ribattuto: “Ma possiamo fare soltanto questo insieme?”. Al che ho aggiunto: “Non c’è mai un ‘soltanto’ nella vita!”. Niente di quello che si fa può essere mai un ‘soltanto’. È sempre un punto su una pagina che va riempita. Questa mia considerazione non è molto accademica. Lo so perché anch'io ho insegnato, qui e altrove. Ma ho compreso che, in fin dei conti, Dio non prende i nostri libri in cielo... Ma è noi che vuol prendere.9

In questo senso, la teologia di Ignazio IV non ha semplicemente teorizzato (potremmo dire prescritto) l’incontro, ma se ne è nutrita perché “nessuna idea potrà mai sostituire l'incontro con l'altro!”10

Siamo certi che ora che quest’uomo in uscita è tornato alla casa del padre, non saranno solo il suo insegnamento e il suo esempio a scardinare le nostre chiusure in questo tempo di stanchezza ecumenica e di scontri di civiltà, ma sarà anche la sua intercessione a vincere “la nostra mancanza di impazienza di ritrovarci insieme, di inventare le modalità per farlo, di accettare il rischio dell'amore fraterno, [che] sono davvero una scandalosa dimenticanza delle parole del Signore, che pure non smettiamo di ripetere continuamente agli altri”11.

fratel GianMarco


Link:

Visita di Ignazio IV a Bose

Ricordo di Ignazio IV

Per approfondire:

Ignazio IV, Salvare la creazione, Milano, Ancora 2001.

Ignazio IV, L’arte del dialogo, Qiqajon, Magnano 2004

Ignazio IV, Un amore senza finzioni, Qiqajon, Magnano 2006


NOTE ALL'ARTICOLO

1 Ignazio IV, Un amore senza finzioni, Qiqajon, Magnano 2006, p. 158.

2 Ibid., p. 28.

3 Ignazio IV, L’arte del dialogo, Magnano 2004, p. 122.

4 Id., Un amore senza finzioni, p. 119.

5 Ibid., p. 161.

6 Ignazio IV, L’arte del dialogo, p. 154.

7 Id., Un amore senza finzioni, p. 176.

8 Ibid., p. 155.

9 Ibid., p. 132.

10 Ibid., p. 155.

11 Ibid., p. 123.

Tags: Attualità e vita delle chiese